«Il coraggio della verità, la fede nel potere dello spirito sono la prima condizione per lo studio della filosofia; l’uomo deve rendere onore a se stesso e sentirsi degno dei valori supremi» (G. F. Hegel)
GLI SCRITTI TEOLOGICI GIOVANILI
Religione razionale e cristianesimo, La vita di Gesù (1795), La positività della religione cristiana (1795/6, prima redazione), Lo spirito del cristianesimo e il suo destino (1798), Frammenti di sistema (1800), seconda redazione, incompiuta, de La positività della Religione cristiana.
Le riserve del giovane Hegel sull’illuminismo
– Non si tratta di abolire la religione, ma di rinnovarla e farne l’anima della società moderna.
– La religione deve essere fondata sulla ragione universale, ma non può essere vuota di fantasia, cuore, sensibilità.
– Ogni razionalismo è presuntuoso e insieme insufficiente. Hegel sembra echeggiare le critiche di Pascal a Cartesio e quelle di Rousseau all’illuminismo quando scrive: «L’illuminamento dell’intelletto rende, sì, più avveduti, ma non migliori… che cattive inclinazioni non affiorino, che non giungano ad alto livello, questo non lo otterrà nessuna morale stampata, nessun illuminamento dell’intelletto» (Scritti teologici giovanili, Guida, Napoli 1972, p. 41). «La saggezza è qualcosa di diverso dall’illuminamento ragionante… La saggezza non è scienza; è un’elevazione dell’anima … Essa non parte methodo matematico da concetti per giungere a ciò che ritiene verità passando attraverso una serie di sillogismi, ma parla della pienezza del cuore» (op.cit., p. 44). Nello scritto teologico più vicino al clima illuministico, il primo, Religione razionale e cristianesimo, c’è già un’osservazione anti-illuministica: «Chi trascura il sacro tessuto dei sentimenti umani e non fa che parlare della stoltezza degli uomini, è un illuminista chiacchierone, un ciarlatano che pretende di spacciare medicine universali». L’intelletto astratto pretende di purificare i principi, ma li depotenzia.
– La contrapposizione fra religione naturale-razionale (La religione entro i limiti della sola ragione di Kant) e religione positiva in modi diversi circola nei primi tre scritti giovanili. Negli altri cede il passo a considerazioni più attente. In primo luogo, anche la cosiddetta religione naturale è una prospettiva storica, che si affaccia come reazione alla sclerotizzazione istituzionale e precettistica del messaggio religioso. Ed è un pregiudizio illuministico vedere nella positività di una religione unicamente l’errore, il male, la superstizione. Rifiutare radicalmente gli apporti di un processo storico significa trovarsi a brancolare nel vuoto. Bisogna andare oltre il conflitto naturalità-positività della religione e comprendere, da un lato, il necessario storicizzarsi di ogni esigenza razionale, dall’altro, la necessità che la religione adempia la sua essenza riconquistando Dio all’uomo, al di là di ogni scissione alienante.
La valutazione del cristianesimo
Da un iniziale kantismo religioso Hegel passa a un panteismo romantico-misticheggiante alla Hölderlin, suo amico intimo. Il periodo giovanile esprime una concezione immanentistica non ancora matura e presente già sul piano storico una prefigurazione della dialettica.
La tesi è che l’armonia iniziale è rappresentata dalla civiltà greca, idealizzata secondo la cultura neoumanistica del tempo. La Grecia corrisponde all’età felice ormai perduta (la c.d. «Grecia di gesso»).
L’antitesi, momento della negazione, è rappresentata dal mondo ebraico, tipico portatore della coscienza infelice, che giunge a proiettare la propria essenza fuori di sé e a sentirla ostile. La coscienza è detta infelice perché interiormente scissa, in quanto il suo ideale è posto fuori di sé e, per l’inesigibilità della legge morale, sentita come nemica. In questo senso Kant ci dà una rinnovata espressione della coscienza infelice nella morale incentrata sulla contrapposizione tra essere e dover essere. L’interpretazione della religione dell’Antico Testamento come scissione tra l’anima e Dio, tra il soggetto e la legge morale che egli è chiamato ad attuare, ma che è ineseguibile, ha la sua radice storica in Lutero, il quale sostenne apertamente la tesi della impossibilità pratica dei comandamenti divini e cancellò il concetto stesso di libero arbitrio. La tesi della religione come alienazione nasce proprio in seno all’esperienza storica del luteranesimo. Nell’opera La positività della religione cristiana si afferma che al presuntuoso isolamento degli ebrei rispetto agli altri popoli fa da contrappeso il legalismo ossessivo e un atteggiamento servile verso Dio. Gesù è colui che mette a nudo il male che corrode l’ebraismo, ma fallisce nel tentativo di introdurre libertà, interiorità, universalità nella nuova religione chiamata a soppiantare l’antica.
La sintesi, il superamento della coscienza infelice, l’armonia riconquistata ad un più alto grado di consapevolezza e di profondità si esprime nel cristianesimo. Questa è la conclusione a cui perviene Hegel ne Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, di impostazione schilleriana: l’unione completa dell’uomo con gli altri uomini e con l’universo che si realizza nella religione. Il comando morale del dovere è autocostrizione: l’amore è non puntuale e presupposta coincidenza di legge e inclinazioni, ma conciliazione armonica. Il cristianesimo è la religione assoluta in quanto ha realizzato il suo concetto, attuando la riconciliazione tra l’uomo e Dio nella figura del Cristo.
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
La Fenomenologia dello Spirito è stata pubblicata nel 1807; Hegel si portò in tasca il manoscritto nei giorni del saccheggio francese di Jena che non risparmiò la sua abitazione. Questa opera è stata scritta e concepita da Hegel allo scopo di purificare la coscienza empirica ed innalzarla mediamente allo Spirito e al Sapere assoluto1.
Per Hegel la fenomenologia è la storia romanzata della coscienza che, dalle prime apparenze sensibili, giunge ad apparire a se stessa nella sua vera natura come Coscienza assoluta. La fenomenologia mostra i gradi, le tappe, le figure per le quali passa lo Spirito per giungere alla coscienza e al possesso di sé. Non ci si deve chiedere se il pensiero possa adeguarsi alla realtà (dal momento che ragione e realtà sono la stessa cosa), ma ci si può ben chiedere in quali forme della coscienza si attua, davvero, pienamente l’identità di essere e pensiero. La Fenomenologia ci mostra il passaggio dalla forma più elementare della coscienza, la sensazione, alla più alta, il Sapere assoluto. Nella sua vecchiaia, Hegel definì la Fenomenologia il suo «viaggio di esplorazione» attraverso la drammatica odissea dello Spirito in questo mondo. Faustianamente inquieta e realizzantesi in forme sempre nuove, la coscienza attraverso la storia ha superato da ogni lato il finito per raggiungere così, dopo molte avventure, quell’infinito in cui era insediata fin da principio. La Fenomenologia è quindi la storia del progressivo convergere della coscienza, che ha in sé le incarnazioni dell’Assoluto, con la coscienza dell’Assoluto medesimo, con il quale già si è identificato il filosofo che scrive l’opera. Il divenire cosciente di sé è biunivoco: è delle coscienze umane nell’Assoluto e dell’Assoluto nelle coscienze umane. La coscienza umana diviene cosciente dell’Assoluto e l’Assoluto diviene cosciente di sé nella coscienza umana. Tutto è compreso in un unico cerchio: è l’exitus a Deo che prepara il reditus in Deum. L’itinerario fenomenologico percorre le seguenti tappe: 1) coscienza, 2) autocoscienza, 3) ragione, 4) Spirito, 5) Religione, 6) Sapere Assoluto. La tesi di Hegel è che ogni coscienza è autocoscienza (nel senso che l’autocoscienza è la verità della coscienza); a sua volta, l’autocoscienza si scopre come ragione (nel senso che la ragione è la verità dell’autocoscienza); infine la ragione si realizza pienamente come Spirito che, tramite la Religione, nel Sapere Assoluto raggiunge il suo vertice. Ognuna di queste tappe è costituita da momenti differenti o «figure»: Hegel presenta ciascuna delle singole figure, ossia momenti dialetticamente collegati fra loro, in modo tale da far vedere che la sua determinazione è inadeguata, e che, quindi, costringe a passare nel suo opposto, che a sua volta, sia pure a più alto livello, si mostra pure esso inadeguato.
La dialettica del padrone e dello schiavo
Il testo di Hegel si trova nella Fenomenologia dello Spirito che egli completò nel 1817 con la sezione di filosofia dello Spirito inserita nella Enciclopedia. Padrone e schiavo sono implicati uno nell’altro. Non c’è padrone in quanto tale, senza schiavo, né il contrario. Il padrone consuma i prodotti del lavoro dello schiavo. Lo schiavo ha soltanto il compito di elaborare la materia, che rimane separata da lui, mentre il padrone domina la materia col godimento. Il padrone trova così, con il rapporto con le cose, un sentimento di sé stesso, una «coscienza di sé», che viene rifiutata allo schiavo. La superiorità del padrone sullo schiavo si manifesta ancora nel senso che, pur privando lo schiavo del frutto del proprio lavoro, lo forza pur sempre a lavorare. Egli trova così, questa volta nel rapporto con lo schiavo, una «coscienza di sé» che di nuovo è rifiutata allo schiavo. Il padrone afferma se stesso rispetto allo schiavo, contro lo schiavo. Lo schiavo rassegnandosi per forza alla privazione e all’obbedienza, riconosce che il padrone è il padrone. Il secondo momento dialettico è la presa di coscienza dello schiavo del suo essere schiavo. Questa coscienza è il principio della sua salvezza: perché, quando lo schiavo avrà capito che il padrone ha bisogno di lui per essere padrone, capirà di colpo che il padrone è chiamato a diventare schiavo dello schiavo, e lo schiavo è chiamato a diventare padrone del padrone. Padrone e schiavo tendono quindi, sul livello naturale, a trasformarsi l’uno nell’altro, con un movimento alternativo indefinito; arriva però necessariamente un giorno in cui trovano una forma di riconciliazione. Nella storia questo è avvenuto con l’avvento dello stoicismo. Lo schiavo Epitteto, comprendendo che l’unica schiavitù è quella dello spirito che si lascia dominare dalle passioni, ha fatto posto ad un’indipendenza spirituale. D’altra parte Marco Aurelio comprese che il vero dominio è quello dello spirito. Tutti e due hanno allora accettato la posizione sociale come una cosa «indifferente» e si sono applicati a far regnare la ragione in sé stessi, riconciliandosi. Il riconoscimento unilaterale dello schiavo che ammette, per evidenza, che il padrone è il padrone, ha fatto posto al riconoscimento reciproco col quale ciascuno è arrivato a una coscienza di sé più elevata: prima di tutto scoprendo la ragione in se stesso, poi vedendo l’altro riconoscere questa scoperta, infine trovandosi in comunione con l’altro mediante la ragione.
I CAPISALDI DEL SISTEMA HEGELIANO
L’infinito positivo
Fichte e Schelling videro bene qual è il tema della filosofia idealistica: l’infinito nella sua unità col finito. Hegel, che negli scritti giovanili vede questa unità attuata nella religione, è d’accordo coi suoi predecessori in ciò, ma critica la concezione dell’Assoluto a cui essi pervengono. Per Fichte l’Io puro pone il finito come tale; ma il finito per adeguarsi all’infinito è lanciato in un processo indefinito, mai concluso. L’Io di Fichte è una cattiva infinità, un infinito che pone l’esigenza di unificare e togliere l’antitesi, ma è incapace di realizzarla. L’Io di Fichte è un infinito che non attua se stesso: è un falso infinito: non supera veramente il finito, ma lo fa continuamente risorgere. Certo l’Assoluto non è sostanza come voleva Spinoza, ma soggetto, essere che intrinsecamente si differenzia rimanendo uno con se stesso nella sua autocoscienza, essere che attraverso la differenziazione rivela sé a se stesso, attività, processo. Ma per Fichte lo sviluppo dell’Io è un divenire senza fine, compiendosi lungo una retta che non ha termine, tale che lo scopo del processo, essendo sempre «oltre», è come se fosse posto fuori del divenire stesso. Per Hegel, invece, la realtà assoluta è processo il cui risultato non è che un ritorno al principio, un circolo eterno in cui il principio è nelle fine e questa in quello: essa tende a esplicare sé a se stessa e non ha una meta ultima estranea al processo medesimo.
Fichte ha poi meritato l’accusa di soggettivismo perche l’oggettivo nel suo sistema non ha una realtà propria e una propria funzione, così che, mentre assolutizza il soggettivo, colloca l’oggettivo in un insieme di dati finiti non riconducibili all’unità.
Il distacco di Hegel da Schelling si precisa invece come opposta concezione del metodo filosofico e critica della schellinghiana concezione dell’Identità. Col suo metodo è comodo a Schelling arrivare dove si vuole: come può Schelling mostrare che l’intuizione intellettuale è la sintesi di oggettività e soggettività, se è questa sintesi stessa che deve mostrarla? Il metodo della «filosofia geniale» è una «profondità vuota». La filosofia non è intuizione estetica, non è sapere da iniziati, non è un atto immediato che d’un colpo – con la immediatezza del «colpo di pistola» – senza una giustificazione graduale e metodica, ci porti a vivere nell’Assoluto. Schelling, malgrado la superiorità del suo punto di vista rispetto a Fiche, ha una concezione dell’Assoluto del tutto inadeguata. L’Assoluto di Schelling è un’Identità indifferenziata, un punto indistinto, che non manifesta al pensiero le ragioni del suo differenziarsi. Riferire una qualsiasi forma di essere nell’Assoluto significa, per Schelling, sopprimerla nella sua determinatezza, annullare ogni posizione determinata nella notte dell’Assoluta Identità dove tutte le vacche sono nere. Anche per Schelling vale l’obiezione mossa a Fiche: l’infinito non può essere posto accanto al finito giacché in tal caso questo sarebbe il suo limite ed esso non sarebbe veramente l’infinito ma solamente il finito.
Qual è allora il concetto fondamentale della filosofia, il vero infinito? Vero infinito è quello che toglie di mezzo il finito, riconoscendo e realizzando dietro le apparenze di esso la propria infinità. Il peccato del cattivo infinito è di porsi come l’al di là (Jenseits) del finito, e così il finito è infinitizzato e l’infinito finitizzato. Invece l’infinito positivo, proprio di una filosofia rigorosamente immanentistica, di un idealismo metafisico ed oggettivo, è l’unica realtà: non è qualcosa che sia prima e che solo in seguito abbia a diventar finito. Non c’è determinazione scambievole tra finito e infinito, né deduzione della realtà da un unico principio, né superamento e cancellazione delle determinazioni della realtà in un Assoluto indifferente.
L’Assoluto o Idea o Ragione non è astrazione, schema, dover essere, unità indifferenziata, ma ciò che realmente e concretamente esiste. La realtà, nella sua concretezza, è lo stesso infinito, è idea, è Ragione. La formula che meglio esprime la nessuna realtà del finito come finito, la dissoluzione del finito nell’infinito e la conseguente identità di realtà e ragione è quella che Hegel stesso ha dato nella prefazione della Filosofia del diritto: «ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale». Questa formula esprime non la possibilità che la realtà sia penetrata o intesa dalla ragione, ma la necessaria, totale, sostanziale identità della realtà e della ragione. Ma non basta affermare la risoluzione assoluta del finito nell’infinito, bisogna intenderla come divenire, ragione in movimento, divenire dialettico sempre ulteriormente determinato nei suoi momenti.
Conseguenze della coincidenza di realtà e razionalità
1- Il rifiuto del dover essere e identità di essere e dover essere.
Se realtà è uguale a ragione e ragione è uguale a realtà, la realtà, così com’essa è, viene interamente giustificata e ogni pretesa di contrapporre ad essa un dover essere cade nel nulla. Ciò che è accaduto o accade era giusto che accadesse, è giusto che accada: ciò che è stato, doveva essere, è. Non vi può essere discrepanza, disequazione tra quel che la ragione esige e la realtà. Di qui la sprezzante polemica di Hegel contro Kant, per il quale la contrapposizione tra essere e dover essere ha valore sia in campo conoscitivo (es.: le idee della ragione spingono la ricerca verso una compiutezza mai raggiunta, secondo prospettive aventi valore regolativo e non costitutivo del sapere) che nel campo morale (la vita morale si radica nella sempre rinascente opposizione fra la purezza dell’imperativo e la dialettica naturale degli istinti). Per Hegel il dover essere è degradato a sterile declamazione, a parto di fantasie esaltate, a chimera particolarmente cara all’intelletto astratto, che «tiene i sogni delle sue astrazioni per alcunché di verace». Essenziale è dunque la giustificazione razionale della realtà quale esse sia: questo compito Hegel lo ha affrontato con maggiore energia proprio là dove esso rischia di confinare nel cinismo: cioè nei confronti della realtà politica, storica, dello Stato.
2- Identità di logica e metafisica.
Se tra essere e pensiero, tra realtà e razionalità vi è la più assoluta identità, lo sviluppo della realtà non può essere che sviluppo del pensiero, processo logico, ragione in movimento. Ma per la stessa ragione il ritmo del pensiero è lo stesso ritmo della realtà. Conclusione: la logica, che è studio del movimento del pensiero, si identifica con la metafisica, che è ricostruzione razionale del processo della realtà. Ed anche qui Hegel attacca Kant per la distinzione tra forma e contenuto, per l’agnosticismo, per il metodo stesso di voler indagare la facoltà del conoscere prima che si conosca.
3- Identità di filosofia e storia.
Le cose non procedono dall’Assoluto, poiché l’Assoluto è questo processo stesso nella totalità dei suoi movimenti. Tale processo è fine a se stesso, un circolo eterno in cui l’Assoluto è quel che deve essere e diviene quello che è: «cominciamento», motivo propulsore iniziale, ed è «risultato», termine del divenire, ma «risultato di sé medesimo», operante in ogni fase di sviluppo attraverso i vari stadi della sua piena attuazione. In tal modo il finito è accidentale e insussistente, se considerato come in sé reale, e il pensiero dialettico lo coglie come negatività; ma nel suo «tramontare», il finito non richiama più un altro finito, e si rivela come l’attuarsi dell’Infinito nell’esteriorità di se stesso. L’Universale, dunque, non si realizza e non vive che nell’attuarsi dei particolari; orbene se la storia è conoscenza dello svolgimento della realtà universale nei suoi momenti particolari e la filosofia è conoscenza dell’universale, la filosofia coincide con la storia non potendo non assumere la storia a suo contenuto. Il corso del mondo è lo svolgimento della Ragione, dell’Idea che diviene fatto: la sfera del reale copre completamente quella del razionale.
La dialettica
La dialettica non è un organo in senso aristotelico o baconiano, non è una logica che sia via, strumento di verità, ma il farsi della verità stessa nel suo intimo svolgimento, la legge del reale e della storia. L’Assoluto è un farsi, un divenire secondo strutture necessarie; il pensiero si pone nella verità, cioè dal punto di vista dell’Assoluto, quando prende coscienza delle strutture necessarie in cui l’Assoluto si attua e si manifesta. Ciò avviene nella dialettica.
La dialettica hegeliana è dunque profondamente diversa da quella aristotelica. Mentre per Aristotele la logica è formale, cioè i principi logici costituiscono le condizioni di ogni dimostrazione e di ogni scienza, ma non ci danno nessuna verità in particolare, per Hegel la logica è reale, non potendo non identificarsi con la metafisica. Il principio di non contraddizione, in base al quale non si possono attribuire predicati contradditori ad uno stesso soggetto nello stesso tempo e sotto il medesimo aspetto, è considerato da Hegel espressione dell’immobilità e dunque della morte, mentre il divenire è l’essenza stessa del reale. La logica aristotelica conduce al concetto astratto (Verstand, intelletto astratto, verità da conquistare); per Hegel la logica dell’identità porta all’universale astratto, in cui una determinazione è irrigidita. La logica dialettica conduce, invece, all’universale concreto (Vernunft, ragione dialettica).
Hegel chiama intelletto la conoscenza del finito, delle cose di cui ognuna è se stessa e non altra, e concetto astratto il prodotto di tale conoscenza. La conoscenza vera, adeguata, che Hegel chiama ragione, coglie la realtà nel suo divenire, che è il concetto della ragione, ma deve accogliere in sé anche la negazione, perché ogni momento della realtà si nega per farsi altro. La dialettica è dunque un processo in cui ogni posizione particolare si prospetta anzitutto nella sua necessità, per rilevare subito dopo il proprio limite, in modo da richiamare una necessaria opposizione. Questa opposizione, contrapponendosi alla posizione, dà luogo a una superiore composizione. La deduzione è il procedimento riflessivo in cui un dato è sottratto all’empiricità e inserito nel processo di mediazione necessaria che costituisce l’Assoluto.
Il processo di mediazione dialettica si articola in tre momenti: tesi, momento intellettivo astratto; antitesi, momento razionale negativo o dialettico strictu sensu; sintesi, momento razionale positivo o speculativo.
a. Il momento intellettivo astratto o tesi: l’intelletto astratto con analisi astraente introduce, «pone» determinazioni come rigidamente separate tra loro e rispetto al tutto, come «finiti» rigidamente differenziati ciascuno rispetto agli altri e al tutto: ognuna delle cose è se stessa e non altra (concetto astratto). La tesi è il momento dell’affermazione.
b. Nel secondo momento dialettico negativo il pensiero come ragione, ossia idea della totalità infinita, avverte la contraddizione tra il tutto di cui la singola determinazione è parte, tra l’infinito di cui ciascun finito è delimitazione e la parte stessa o finito che si pone, nel suo isolamento astratto, come sufficiente a se stesso; e quindi è negatività, attività per cui si oppone la parte al tutto, e si nega che la parte sia il tutto. È il momento dell’antitesi o della ragione negativa, della ragione come negazione dell’intelletto. Il negativo è momento necessario per la conquista di una più alta realtà. Il negativo è «l’energia del pensiero». È come il male necessario perché il bene si mostri e si affermi.
c. Il momento razione positivo o speculativo: sintesi. La ragione come ragione positiva, superando la negazione e attraverso di essa, riafferma il tutto nel differenziarsi delle sue parti. La sintesi toglie via, nega l’opposizione inverando, cioè conservando e superando insieme, opposte esigenze. È affermazione che ha superato la negazione, è «negazione della negazione» che toglie l’opposizione tesi-antitesi e ne conserva il risultato positivo sul piano più alto a cui il pensiero si è innalzato. Hegel presenta la sintesi come superamento di opposte unilateralità e nel contempo come identità degli opposti. Il significato della sintesi è bene espresso dal termine tedesco Aufhebung, che vuol dire nello stesso tempo sopprimere, negare e conservare, e assumere. Così uno stesso termine è usato in un significato negativo e positivo, avendo un doppio senso che a Hegel appariva espressione del superiore spirito speculativo della lingua tedesca. Il concetto o universale concreto afferma la realtà come se stessa e insieme altra, perché ogni momento della realtà diviene, ossia si nega per farsi altro. Quindi la sintesi a cui l’idea è pervenuta in un determinato momento del suo farsi appare come una posizione limitata e perciò richiama una nuova opposizione, riaprendo il processo del divenire.
IL SISTEMA HEGELIANO
L’esposizione di tutti i momenti costitutivi dell’Assoluto, nel loro ordine necessario, costituisce il sistema. L’esposizione segue il ritmo triadico di tesi, antitesi, sintesi. Ogni momento, in quanto momento dell’Assoluto, è necessario e concreto; tuttavia ciascun momento appare per qualche lato astratto, sicché una nuova opposizione sorge e il movimento continua. I vari momenti non sussistono fuori dall’Idea, e l’Idea si costituisce, si fa e si manifesta passando per tutti quei momenti. Vi è circolarità fra i vari momenti dell’Idea e l’Idea e solo il tutto del processo è conchiuso; solo il tutto del processo costituisce, precisamente, l’Assoluto; solo l’intero è la verità e la verità è l’autorilevarsi dell’assoluta necessità delle tappe, dei momenti del cammino dialettico dell’Idea. Le realtà particolari sono tutte momenti necessari del costituirsi dell’Assoluto, sue necessarie determinazioni sia come sintesi di un’opposizione precedente, sia come tesi di un’opposizione ulteriore. Tolte, invece, dal posto che esse occupano nella totalità del processo, sono mere astrazioni del Verstand, posizioni empiriche, accidentalità insignificanti assunte come dati di fatto e razionalmente non giustificate.
Con il termine Verstand Hegel sta a indicare la facoltà del dividere, l’elemento disgregatore di un’unità data, la capacità di astrarre a forza la parte dalla sua connessione vitale con l’intero e il mantenerla in questa separazione, la pretesa di caricare di un significato assoluto il prodotto della astrazione.
Secondo Hegel «un filosofare senza sistema non può essere niente di scientifico». Il sistema è lo spirito che organizza e comprende se stesso, la verità che, liberata dall’accidentalità e dall’incoerenza, si delinea nella sua rigorosa necessità. Il sistema è la storia rigorosamente dialettizzata di Dio nel suo farsi del mondo. L’Assoluto non è fuori dal processo unico e continuativo e dai gradi necessari in cui si attua e si rivela in un eterno atemporale passaggio dall’Idea in sé o Logica, all’Idea per sé-fuori di sé o Natura all’Idea in sé e per sé o Spirito.
Idea in sé o Logica
La logica è «la scienza dell’idea pura, cioè dell’idea nell’elemento astratto del pensiero», «è l’esposizione di Dio com’era prima della creazione della natura e di ogni spirito finito». «La logica è la scienza dell’Idea in sé la quale ci mostra la struttura ideale dell’Assoluto, considerata a parte rispetto al suo porsi nell’esistenza effettiva».
Le categorie logiche sono i momenti necessari, le tappe oggettive della verità assoluta. Le categorie sono momenti immutabili, universali e necessari, che esprimono la realtà nella sua essenza eterna. La realtà stessa dell’Idea nella sua intrinseca necessità razionale trova nelle categorie il suo ordito, coincidendo le categorie dell’idea con i gradi e le forme di svolgimento della realtà. Le categorie costituiscono un sistema di concetti puri posti a fondamento del reale. Hegel insiste nel contrapporre il metodo dialettico, che vede ogni concetto in rapporto con la sua antitesi, e la logica dell’intelletto ancorata ai principi di identità e di non contraddizione. Qual è il primo momento da cui il movimento dialettico dovrebbe avere inizio? Come si mette in moto la dialettica? Hegel risponde illustrando la dottrina dell’essere o dell’in sé (dell’essere nel suo primitivo porsi). Il primo concetto è quello dell’essere, ma di un essere assolutamente indeterminato, vuoto e astratto, privo di qualsiasi contenuto. Ma appunto perché privo di qualsiasi contenuto l’essere richiama il suo opposto, cioè il nulla e fa tutt’uno con esso. La sintesi della contraddizione essere nulla è il divenire, ma il divenire di un essere determinato. L’essere determinato è tale in virtù della qualità, che lo specifica e che richiama come propria antitesi la quantità, e infine la misura, la quale determina la quantità della qualità. Dalla dottrina dell’essere si passa all’essenza (logica dell’essenza) quando l’essere, riflettendo su se stesso, scorge le proprie relazioni. La logica dell’essenza o del per sé coglie l’essere nelle sue relazioni. Le relazioni categoriali che caratterizzano l’essenza sono la sostanzialità, la causalità e l’azione reciproca (le categorie kantiane di relazione). L’essere determinato e arricchito dalla riflessione su di sé diventa concetto: nella «dottrina del concetto» Hegel espone i tratti caratteristici della sua logica, la quale ci permette di pensare l’idea come fondamento e sintesi delle sue determinazioni, universale concreto per antonomasia.
Idea per sé o Natura
Nella seconda parte della Enciclopedia delle Scienze Hegel presenta il rovesciamento dell’idea da puro pensiero a natura. La natura è l’idea nel suo alienarsi da sé, nella forma dell’essere altro. L’idea per sé o natura è l’assoluto; in quanto si pone come un fatto è quindi come un alienarsi e dimenticarsi in esso. Natura e spirito dovrebbero essere un solo e medesimo assoluto, nella misura in cui si è coerenti al principio di immanenza, ma non vi è tra loro un’identità astratta come nell’assoluto di Schelling, bensì un rapporto dialettico. La natura è insieme oggettivazione dello spirito o dell’idea e sua degradazione.
Di qui l’intrinseca antinomia: o l’antitesi natura e spirito è reale, e allora cade l’idealismo; o la natura stessa si risolve nel pensiero, e allora essa non sarà più una vera antitesi. Hegel costruì la sua filosofia della natura nel tentativo di costituire un’antitesi empiricamente concreta e non soltanto pensata. Poiché si oppone all’idea, dominio della necessità razionale, la natura è il regno dell’accidentale; ma poiché la natura deve trovarsi pur sempre dentro l’idea, la natura è essa stessa necessità, non potendo sconfessare il principio secondo il quale tutto ciò che è reale è razionale.
Il proposito di Hegel è quello di provare che la natura si eleva di per sé stessa dalla pura esteriorità fino alla soglia dell’interiorità. Hegel mira non a trovare analogie più o meno estrinseche tra natura e spirito (come faceva Schelling), ma a cogliere i processi dialettici immanenti alla natura, provando che essi non si chiudono in sé stessi, non costituiscono una realtà compiuta, ma un momento dell’idea: momento di trapasso, che ci porta alle soglie di una fase superiore della vita dello spirito, nella quale l’assoluto si rivelerà in tutta la sua pienezza.
Hegel si rende conto, con perfetta chiarezza, che una filosofia razionalistica deve risultare in grado di spiegare non solo il mondo umano, ma anche quello naturale. Nelle sue pagine è manifesta la convinzione che un fallimento di fronte a tale compito rappresenterebbe uno scacco irreparabile di tutto il sistema. La deduzione del mondo della natura si snoda in tre gradi fondamentali:
La più grande illusione di Hegel è stata quella di ritenere che la razionalità della natura potesse venir provata solo col dedurre a priori lo sviluppo da principi generali e non col fare appello all’esperimento, rivelatore dei processi concreti in cui si articola la sua razionalità (Ludovico Geymonat). La «natura» di Hegel non è per nulla la «natura» degli scienziati. Gli effetti più clamorosi dell’influenza negativa di Hegel nel campo delle scienze esatte e del suo disprezzo per i dati sperimentali sono così ben riassunti in un brano di Hermann von Helmholtz, scritto nel 1862, in cui il grande fisico analizza le ragioni della scissione tra scienza e filosofia: «A me sembra che questa opposizione abbia avuto origine essenzialmente per l’influenza della filosofia hegeliana, o quanto meno abbia ricevuto una caratterizzazione più precisa da tale filosofia. Fra tutti gli eminenti scienziati contemporanei di Hegel non uno vi fu che si schierasse per le sue idee».
Idea in sé e per sé o Spirito
L’Assoluto, dopo aver riconosciuto come proprio momento la stessa natura, sintetizza l’Idea in sé o Logos e la Natura, operando il ritorno su sé medesimo. Le tappe del cammino dello spirito, cioè dell’idea reale e consapevole di sé, sono lo spirito soggettivo, lo spirito oggettivo e lo spirito assoluto.
a. Spirito soggettivo. È la sfera propria delle attività che si sviluppano nell’individuo spirituale. Delimita la sfera della vita individuale e delle attività psichiche che la caratterizzano. Lo spirito soggettivo è un momento necessario di quella realtà ben più profonda che costituisce la storia nella concretezza delle sue manifestazioni. Il più alto prodotto della natura è l’organismo animale, che già preannuncia lo spirito: attraverso l’individuo umano sul processo dialettico della natura si innesta il processo dello spirito. Lo spirito soggettivo si suddivide in antropologia o dottrina dell’anima: l’anima è lo spirito attaccato all’individualità e alle condizioni naturali di un corpo, che costituisce la sua esteriorizzazione. L’antitesi è data dalla coscienza, oggetto della fenomenologia: la coscienza è lo spirito che riflette su sé stesso e giunge a porsi come io. La sintesi è costituita dallo spirito in senso stretto o psicologia o ragione: è la coscienza della sintesi di universalità e individualità, in quel rapporto necessario con gli altri che costituisce lo spirito oggettivo.
b. Spirito oggettivo. Lo spirito oggettivo coincide con la vita sociale e storica, è l’attuazione dell’idea nella concretezza del divenire storico. Il diritto è la prima forma dello spirito oggettivo; sua caratteristica è l’astratta oggettività perché considera i rapporti tra gli uomini in modo astratto, prescindendo dalle particolarità dei singoli. Il rapporto di proprietà è un rapporto tra l’individuo e ciò che possiede; ma esso rinvia al rapporto che si stabilisce tra le volontà individuali nel contratto. Il diritto penale esprime un ordine oggettivo e per mezzo della pena restaura quest’ordine quando sia stato violato. La moralità oppone all’astratta oggettività del diritto e all’insufficienza della coazione esteriore le intenzioni, la buona volontà. All’astratta oggettività del diritto la moralità non ha da opporre che la sua astratta soggettività. Per Hegel il dovere è niente altro che «sterile declamazione», «chimera particolarmente cara all’intelletto astratto, irrequietezza di sognatori che vagheggiano mete imprecisate, sospiroso velleitarismo delle anime belle». La moralità opera la separazione fra l’interiorità dell’intenzione e l’esteriorità dell’agire.
Di qui la violenta polemica di Hegel contro Kant:
– per Hegel, Kant avrebbe teorizzato il «principio del Nord», cioè la fuga dal reale (ma la posizione di Kant non può essere assolutamente confusa con quella del soggettivismo etico, che contrappone l’arbitrio di una vuota interiorità alla concreta realtà morale. Kant ha rivendicato l’universalità della legge morale fondata sulla natura razionale dell’uomo; non si può confondere la rettitudine dell’intenzione con il velleitarismo di chi, pur desiderando che il meglio avvenga, si esonera dall’impegno di farlo essere realmente: «l’intenzione buona non è espressione di un sentimento, ma forma dell’agire, forma del volere, indicazione di ciò che deve essere attuato in qualsiasi situazione personale e sociale»).
– Hegel afferma che l’imperativo categorico ci dà un comando, ma il suo formalismo astratto non arriva mai a precisare che cosa debbo fare, qual è il bene che debbo attuare con la mia azione. In realtà l’imperativo categorico, secondo Kant, ci dice quello che dobbiamo fare, non nella determinazione empirica e puntuale di fini particolari, infinitamente variabili in rapporto alle diverse situazioni, proprio perché la legge morale riguarda il principio stesso del volere e va da sé che un principio buono induce a volere cose buone. Né si dimentichi che l’azione morale è sempre sintesi di materia e forma.
L’eticità supera gli aspetti unilaterali dell’astratta soggettività e oggettività congiungendo l’individuale con l’universale e dando ad entrambi realtà concreta. Essa si attua attraverso le istituzioni della famiglia, della società civile, dello Stato. L’eticità è la ragione divenuta cosciente di sé nelle istituzioni storico-politiche di un popolo che si è innalzato a dignità di Stato.
c. Spirito assoluto. Nello spirito assoluto il concetto di spirito, che nel suo processo ha risolto in sé ogni realtà, trova la sua realizzazione finale; nelle forme dello spirito assoluto lo spirito di un popolo si manifesta a se stesso e si comprende nella sua spiritualità. Queste forme sono: l’arte, la religione, la filosofia. Esse non si differenziano per il loro contenuto, che è identico, ma soltanto nella forma in cui ciascuna di esse presenta lo stesso contenuto, che è l’Assoluto o Dio. L’arte conosce l’assoluto nella forma dell’intuizione sensibile, la religione nella forma della rappresentazione, la filosofia nella forma del puro concetto.
Il valore della storia e la Provvidenza
È dunque la storia il criterio supremo di tutti i valori o ci sono valori sottratti a quello che Hegel chiama il «fracasso della storia»? È lo spirito assoluto veramente al di sopra della storia o no? È questo un problema di non facile soluzione nell’esegesi hegeliana, come osserva giustamente Nicola Petruzzellis.
È impossibile parlare di giustizia, di fedeltà ad un ideale, se si accetta lo storicismo assoluto. Se si afferma la priorità dei valori morali sui valori storici non bisogna arretrare neppure davanti alla logica conseguenza di tale affermazione, che è proprio quella concezione trascendente dei valori che Benedetto Croce e Guido Calogero vogliono evitare. Non si vede infatti donde possa derivare «l’unica ed eterna legge morale che è nei cuori» se non da un Essere eterno, che è insieme Valore. Del resto le ragioni per le quali il Croce e il Calogero non accettano la concezione trascendente dei valori si riassume nel motivo storicistico che tale concezione è «affatto antiquata» e inammissibile da chi «abbia il senso della moderna evoluzione dei problemi».
Vorremmo piuttosto accennare ad un’altra obiezione che, non solo dal Calogero, ma da parecchi filosofi contemporanei, si fa alla concezione tradizionale della Provvidenza, secondo la quale la suprema realtà è anche il supremo valore e una suprema ragione ha creato e governa il mondo della natura e il mondo della storia. Si obbietta: se c’è una forza superiore alla volontà umana che dirige ogni cosa al bene, se il mondo andrà bene comunque io mi comporti, che valore ha più la mia attività? La concezione tradizionale della Provvidenza verrebbe in tutto a coincidere con lo storicismo hegeliano e giustificherebbe «un assoluto indifferentismo e quietismo etico» perché se è bene tutto ciò che accade, non c’è luogo a giudizi morali e se il bene si compie anche senza di me, senza la mia collaborazione, a che giova che io mi sforzi?
a. Si risponde alla prima parte dell’obiezione, secondo la quale la dottrina tradizionale della Provvidenza implicherebbe la giustificazione del fatto compiuto, con le stesse affermazioni di Hegel. Hegel stesso, infatti, segna esattamente la differenza tra la sua concezione e quella tradizionale, quando dice che secondo questa il piano della Provvidenza ci è nascosto, perché è superiore alla ragione umana, sicché noi possiamo dire: c’è un piano provvidenziale nella storia, ma non possiamo dire quale esso sia; nella sua concezione invece il piano provvidenziale è pienamente riconoscibile e la filosofia della storia non è altro che la dimostrazione di come la ragione divina si attui nel mondo. È la medesima differenza che c’è fra la logica hegeliana, che vuol essere logica del pensiero assoluto, e la logica tradizionale, che è logica del pensiero finito. Ma questa differenza di carattere logico-gnoseologico ha notevoli conseguenze per il giudizio morale che deve darsi della storia. Nella concezione tradizionale, infatti, la storia è ordinata al bene, ma il bene non si attua necessariamente nella misura del valore.
b. La seconda parte dell’obiezione è di carattere ancora più strettamente morale: cha valore ha l’azione umana se essa non può modificare l’ordine del mondo, se il bene si fa anche senza la libera collaborazione dell’uomo? A questa obiezione risponderemo che l’ordine morale non è quello del fare, ma dell’essere; il fine dell’attività morale non è in primo luogo quello di produrre qualche cosa di buono fuori di me, ma quello di attuare pienamente il mio essere. Il bene si farebbe anche senza di me, ma io rinnegherei la mia natura umana e fallirei come uomo se non volessi, se non aderissi a quell’ordine che deve attuarsi. L’uomo non è il creatore del mondo esteriore, ma solo del mondo morale che è in lui; ciò che dipende dalla mia volontà non è il corso del mondo, ma il mio essere morale; e questo non può dipendere che da me, questo la Provvidenza lo ha lasciato nelle mie mani. Naturalmente l’adesione all’ordine morale mi porterà a cercare di realizzare il bene anche fuori di me con tutte le mie energie, ma sarebbe pericoloso vedere il significato della mia attività morale in ciò che essa può realizzare esteriormente: si tornerebbe per un altro verso alla giustificazione di qualsiasi mezzo per ottenere un fine buono, all’esaltazione della riuscita, dell’efficacia esteriore. Il riconoscimento della Provvidenza non deprime la mia iniziativa morale, anzi la conforta; perché, se non voglio chiudere gli occhi alla realtà, debbo pur confessare che gli sforzi di tutti i buoni non riescono pienamente a modificare il corso del mondo; nella lotta fra la virtù e il corso del mondo, spesso, è questo il vincitore, per quanto attesta l’esperienza. Le più alte figure morali sono quelle di uomini storicamente, umanamente falliti: basta pensare a Socrate, a Gesù, considerato nel suo aspetto puramente umano. Un’ultima obiezione, che si ricollega al concetto di «astuzia della ragione» di Hegel, potrebbe affacciarsi: una ragione personale e trascendente non potrebbe servirsi delle deliberazioni e delle passioni degli uomini per attuare il suo piano razionale? In una concezione finalistica della realtà, secondo la quale ogni cosa opera conformemente alla sua natura, le cause sono corrispondenti agli effetti, e Dio non interviene ordinariamente a determinare delle specie di generazioni spontanee; quindi grandi avvenimenti storici debbono ordinariamente spiegarsi con ragioni adeguate nello stesso ordine storico. In una concezione come quella di Malebranche in cui il fuoco brucia non perché sia fuoco ma perché […] Dio brucia nel fuoco, sarà concepibile che Dio si serva del capriccio di un individuo per buttare all’aria il mondo, ma in una concezione finalistica, se a una civiltà ne succede un’altra, se avviene una rivoluzione, politica o religiosa o filosofica (e generalmente una rivoluzione ha tutti questi diversi aspetti) vuol dire che nell’ambiente storico c’erano i germi di quella rivoluzione.
Morale kantiana ed eticità hegeliana
La precipua manchevolezza della morale kantiana non poteva essere né posta né risolta nell’ambito della speculazione hegeliana. L’insufficienza della morale kantiana sta nell’insufficiente fondazione dell’oggettività e nell’esasperazione dell’unilaterale concetto di autonomia; ma la legge morale kantiana non risuona affatto in quella atmosfera di astratta e arbitraria soggettività in cui Hegel la confina per far bersaglio dei suoi strali polemici la pretesa astrattezza della pura moralità. Se il soggetto morale si raccoglie nella più profonda intimità della coscienza, non è per perdersi nella mala infinità di un soggettivismo arbitrario, ma per attingere proprio nelle inviolate profondità del suo essere spirituale la superiore oggettività di un valore universale.
L’ethos hegeliano è, in ultima analisi, una determinazione scaturiente dal diritto positivo, che può anche non essere passato attraverso la fase e il controllo della moralità ed è quindi incapace di compierne il superamento o l’integrazione. Se l’ethos in quanto tale divenisse unica e suprema fonte di determinazione di tutti i doveri, la vita s’immergerebbe in un immobilismo non suscettibile di progresso e di spirituale svolgimento. Non si spiega l’insistenza polemica contro la virtù e il dover essere dal momento che Hegel finisce col conferire alla moralità una sua funzione storico-dialettica. Se la virtù morale è forma inferiore di eticità che lo spirito riassorbe e supera nella sua necessità è vano satireggiare ciò che rientra come momento dialettico, e perciò necessario, nel corso fatale del mondo.
In realtà Hegel trae da alcune osservazioni critiche alla morale kantiana, in parte anche condivisibili, conseguenze tanto distruttrici della vita morale quanto coerenti con la metafisica immanentistica del sistema. Il giusto modo di realizzare le leggi etiche che sembrano le più indubitabili è determinato solo dalle istituzioni dello Stato. Solo col riconoscersi nello Stato, l’autocoscienza depone con l’individualità ogni scissione interna e raggiunge la pace e sicurezza di sé. «È antica dottrina che la legge giusta obbliga anche moralmente: uno Stato ideale non dovrebbe avere se non leggi giuste tali da non suscitare le giuste proteste dei cittadini. Ma l’ipotesi è ben lungi dal verificarsi e l’eticità assoluta dello Stato prende il volto brutale del dispotismo e della ragion di Stato, che spesso dissimula gli interessi del despota o di una casta. Nel tragico dissidio tra la coscienza morale dell’uomo e del cittadino e l’indirizzo prevalente di una politica, Hegel prende chiaramente partito per il secondo, considerando come atteggiamento individualistico ogni protesta contro la violenza e l’ingiustizia compiuta in nome dello Stato». I giudici che condannarono Socrate sono giustificati (Nicola Petruzzellis, Il problema sociologico nella prima metà del secolo XIX, Adriatica Editrice, Bari 1956).
L’errore più grave di Hegel è quello di far consistere la libertà stessa negli organismi di oggettivazione e di espansione della persona umana, considerando il diritto, la famiglia, la società, lo Stato incarnazioni sempre più piene dell’originaria libertà dell’individuo. In realtà una cosa è la libertà dell’individuo nello Stato, la sua consapevolezza o possibilità di realizzare nei rapporti della vita politica la propria missione civile, altra cosa la libertà dello Stato, parole che dissimulano la spersonalizzazione dell’uomo nel collettivo e consacravano l’oppressione del dispotismo. Invece, osserva Guido De Ruggiero, quel che nobilita le istituzioni della famiglia, della società, dello Stato, è appunto la coscienza morale che li attraversa e solleva i vincoli naturali della famiglia a obblighi morali, indirizza i rapporti sociali a miglior segno e riscatta la passività dell’obbedienza alle leggi dello Stato con una ragionata persuasione della bontà dei compito che l’organizzazione politica adempie. Ma la coscienza che attraversa queste istituzioni non si arresta ad esse; anzi, l’esperienza concreta dell’universalità umana che acquista nel suo passaggio le addita una meta più alta a cui nessuna realtà empirica si adegua e che essa può concepire soltanto nella propria interiorità. Questa meta è l’ideale morale, l’universalità vera che vive nel cuore dei singoli e di qui giudica la realtà esistente e, non sentendola a sé commisurata, la trasforma e la rinnova.
Col suo manchevole oggettivismo, Hegel affida ogni mutamento della compagine politica alle forze, anch’esse spersonalizzate e oggettivate, della storia, alle mutevoli vicende delle guerre e delle paci, in cui si esercita l’insondabile arbitrio dello spirito del mondo; lo sottrae al dominio della coscienza, che, attraverso l’opinione pubblica, la stampa, i partiti, le discussioni scientifiche, il giudizio morale, e così via assurge a un’universalità umana più vera di quella che è cristallizzata nelle istituzioni, e così le spinge a muoversi e a progredire. Ma l’esigenza del dover essere – come ha notato Eckart von Sydow – fa capolino anche nel più intransigente assertore dell’insuperabile effettualità storica là dove riconosce ad almeno due «cavalieri della virtù», a Socrate e a Cristo, una missione storica superiore a quella degli eroi tipicamente hegeliani. In nessuno più che in loro fu viva l’esigenza del dovere e l’apostolato della virtù.
Il problema del dover essere
Resta ora da indagare il problema dell’essere e del dover essere.
Lo svolgimento delle attività umane, pur nelle linee spezzate e nella varia e divergente molteplicità di direzioni che presenta spesso nella realtà storica e psichica, tradisce una tendenza già implicita nell’innegabile e insopprimibile limitazione di quell’atto primo che è costitutivo della realtà dello spirito umano.
a. I due termini. Da quell’atto procede la vita dello spirito per svolgersi nella dialettica delle forme spirituali, in cui l’io si fa e si potenzia, e siffatto sviluppo è un dover essere in atto di realizzarsi, per quanto suscettibile di deviazioni e di falsificazioni, un dover essere che si fa o anela a farsi essere. Ogni atto di vita, come ogni atto di civiltà, nasce da quell’intima tensione del nostro essere che ci spinge verso nuove realizzazioni e nuove mete, in cui si appaga un istante e da cui riceve nuovo incremento la nostra vita.
b. Il dover essere non è un ordo ordinans. Ma sarebbe assurdo concepire lo spirito esclusivamente come dover essere e sia pure come ordo ordinans. Un dover essere che non sia ontologicamente fondato, che non si leghi quindi a un soggetto, a una persona, a una coscienza, è un’inutile astrattezza. E il soggetto, la coscienza, la persona in quanto realtà non si sottraggono all’universale categoria dell’essere. Un ordo ordinans sarebbe un dato naturale inspiegabile, una necessità non posta da uno spirito, la cui intrinseca finalità sarebbe un enigma o un’affermazione gratuita.
c. Lo spirito umano è attualità, ma non assoluta attualità. Non speri di sottrarsi al nullismo chi pone la realtà o lo spirito in dover essere, sostanziato da un’insopprimibile problematicità. Lo spirito umano è attualità, e quindi essere, ma non pura ed assoluta attualità: come in tutte le cose finite, in esso l’essere non adegua perfettamente l’essenza, non soddisfa, per il fatto di essere e nel modo in cui è, tutte le esigenze della sua natura. Da questa intrinseca inadeguazione dell’essere all’essenza nasce il dover essere, come condizione e legge immanente di attività e di vita. Il dover essere non si risolve nel vuoto inconsistente di un ideale problematico, avulso da ogni fondamento ontologico, non è una velleità, non è una chimera. Lo spirito è: è di quell’essere che appartiene a tutte le cose limitate e imperfette, ma suscettibili d’integrazione e di perfezione. È, ma l’anima del suo essere è nel suo dover essere, che ne costituisce la risposta e l’energia vivificante. Per lo spirito l’essere si esprime nella vita: il dover essere è, dunque, non semplicemente forza espansiva o propulsiva, ma principio conservatore dell’essere, che è anche attività e vita.
d. Il dover essere: né irriducibilmente opposto né puramente coincidente con l’essere se non vuol essere confinato tra le fantasticherie sentimentali o fatalmente identificato con la realtà empirica.
DESTRA E SINISTRA HEGELIANA
Nei due decenni che vanno dalla morte di Hegel (1831) fino alla rivoluzione del 1848 – 1849 si è decisa la vita spirituale del mondo moderno: Feurbach, Marx e Kierkegaard sono stati per tutto il Novecento punti di riferimento nel dibattito intorno al significato dell’uomo nella determinazione radicale del suo essere e della verità che lo fonda. Essi operano la «verifica» o resolutio extrema del principio moderno dell’immanenza fuori dalle astrattezze del razionalismo pre-kantiano e dell’idealismo, sì che nella concezione di Marx e Feuerbach l’uomo rimpiazza l’Assoluto della filosofia hegeliana e nella visione kierkegaardiana si ha la più originale riaffermazione della trascendenza cristiana e la critica del presupposto immanentistico.
La scuola hegeliana si divise poco dopo la morte del maestro in due correnti antagonistiche. Nel 1837 David Strauss designava le due correnti con termini desunti dalle consuetudini del parlamento francese, come «destra» e «sinistra». La scissione fu essenzialmente dovuta al diverso atteggiamento degli hegeliani sul problema religioso.
«Dopo la morte di Hegel vennero avanzate, tra i filosofi e i teologi, ipotesi molto diverse. Ora il cristianesimo speculativo di Hegel poteva venire interpretato secondo due indirizzi:
– o come tentativo di giustificare razionalmente e interpretare in maniera profondamente speculativa le verità della fede cristiana, così da renderle accettabili, comprensibili, evidenti all’uomo moderno, di renderle anzi razionali in un senso superiore: la religione, quindi, superata positivamente = conservata nella filosofia (così pensavano gli hegeliani di destra richiamandosi a numerose affermazioni esplicite dello stesso Hegel);
– o come il tentativo di rappresentare le verità della fede cristiana semplicemente come la forma intuitivo-rappresentativa, provvisoria e insufficiente, dell’autentica verità autocosciente, perfetta e definitiva, appunto della filosofia, della ragione speculativa e del suo sapere assoluto: la religione, quindi, superata negativamente = dissolta nella filosofia. Così pensavano gli hegeliani di sinistra, facendo delle supposizioni sulle intenzioni segrete di Hegel» (Hans Küng, Dio esiste?, Mondadori, Milano 1987, V ed., p. 223).
La Destra svolge la dottrina hegeliana della religione in genere e del cristianesimo in specie, come espressione – in forma immaginativa – delle stesse verità filosofiche, in un senso che ne rende possibile l’accordo con l’ortodossia delle chiese cristiane. Né mancano coloro che vorrebbero fare dello hegelismo lo strumento del rinnovamento teologico (si ricordi la polemica di Kierkegaard contro il «razionalismo teologico di stampo hegeliano»). La Destra hegeliana aveva presentato il pensiero di Hegel come conciliabile col cristianesimo: aveva cercato di interpretare hegelianamente la dottrina cristiana e cristianamente Hegel. La Destra accentua in Hegel il momento della conciliazione dialettica. La religione va superata positivamente, cioé assunta e interpretata speculativamente. I suoi rappresentanti sono uomini di raffinata cultura, politicamente inclini al conservatorismo, come Carlo Federico Goeschel (morto nel 1861) che pone Hegel a base di una rinnovata teologia; Carlo Federico Rosenkranz, biografo e apologista di Hegel; Casimiro Conradi (morto nel 1849), che difende l’immortalità personale contro Feuerbach; il primo Bruno Bauer, passato verso il 1840 a sostenere la tesi del più radicale razionalismo biblico (fino a negare l’esistenza stessa di Cristo).
La Sinistra accentua la tesi dell’antitesi dialettica; si caratterizza per l’energia critica e la violenza polemica; assume posizioni radicali in politica (Engels: «Il conservatorismo della visione hegeliana della vita è relativo, la sua carica rivoluzionaria assoluta»); vede nella hegeliana «filosofia della religione» la negazione e lo svuotamento della fede cristiana come affermazione di trascendenza, rivelazione, grazia e la sua riduzione a mito, espressione fantastica di una metafisica, filosofia inferiore (Strauss: il mito è un’idea metafisica espressa nella forma di un racconto fantastico prodotto dall’orientamento spirituale di una società data). La provvisorietà, la forma intuitivo-rappresentativa della religione deve cedere il posto alla verità della filosofia. La religione va superata negativamente, cioè dissolta dal sapere speculativo. L’opera di Hegel preferita è la Fenomenologia. L’organo della sinistra hegeliana furono gli Annali di Halle, fondati da Arnold Ruge nel 1838. Vi pubblicarono articoli Bauer, Feuerbach, Marx. A Berlino gli hegeliani di sinistra avevano come organo ufficiale gli Annali di critica scientifica.
Che cosa gli hegeliani di sinistra prendono da Hegel?
1- La concezione della religione come rappresentazione, philosophia inferior, mito. Se la religione è un mito, non spetterà alla riflessione filosofica compiere un’opera di de-mitizzazione nei suoi confronti, rilevandone così la vera essenza?
2- Nella concezione della coscienza infelice la religione ebraica diveniva causa di alienazione, di estraneazione dell’uomo da se stesso: Dio è l’essenza stessa dell’uomo, ma proiettata fuori dalla sua coscienza e sentita come un destino ostile. Feuerbach estende ad ogni fenomeno religioso il duplice carattere di proiezione e di alienazione che caratterizzava per Hegel la «coscienza infelice» dell’ebraismo.
3- Se si tiene fermo il presupposto hegeliano dell’identità di finito e infinito, l’idea hegeliana è, con radicale coerenza immanentistica, identificata con l’umanità nella sua interezza, come genere. Se non v’è nulla oltre il farsi della storia, l’Assoluto è questo stesso farsi della storia. Se si esclude la trascendenza, è l’umanità che dev’essere divinizzata. Il panteismo, in fondo, si rovescia in ateismo antropologico.
F. HEGEL A DUE SECOLI DALLA NASCITA2
In quest’ora dedicata alla memoria di un filosofo come Hegel, che ha esercitato un’influenza tanto vasta non solo in filosofia ma anche sulla mentalità contemporanea, a tal punto che molti suoi procedimenti e aforismi sono diventati luoghi comuni drammaticamente riecheggianti da opposte parti senza più nemmeno esser rimessi in discussione, è arduo farne emergere il pensiero nei suoi temi centrali, fissando i termini logici e le alternative principali dei problemi più importanti. Questo tentativo impone una rigorosa limitazione che fa cadere non solo le quisquiglie erudite e gli pseudo-problemi, ma anche ogni accenno a singole felici intuizioni e a fortiore a tutte quelle considerazioni legate ai particolari di un sistema o alla contingenza di un’epoca, per rispondere essenzialmente a un solo interrogativo: Quale fu la imago vitae di Giorgio Federico Hegel?
Hegel è stato definito in molti modi e, se qualche etichetta ancora mancasse, il bicentenario del 1970 sembra essere stata l’occasione per aggiungerne qualche altra. Una serie di critici ci ha informati che egli fu un conservatore, un reazionario, un proto-fascista, un totalitario, un rivoluzionario. Merleau-Ponty ne ha fatto un esistenzialista, Althusser uno strutturalista, Danie Tarschys un «leninista». Altri non cessano di frugare tra gli scritti giovanili per riscoprire in Hegel un radicale con tendenze liberali, ahimè, tanto difformi da quelle dell’autore della Filosofia del diritto. In Italia le interpretazioni di Hegel sono assai meno ditirambiche e univisuali perché Hegel è conosciuto assai bene, per il lungo dominio del neo-hegelismo e per il vigoroso apporto dei critici di quell’indirizzo, tra i quali in primo luogo va citato Nicola Petruzzellis, e per l’interesse che i nostri pensatori hanno costantemente portato ai problemi dell’arte e della storia, che sono senza dubbio i campi in cui l’idealismo ha lasciato più vasta orma. Pure un interrogativo si pone: al di là del conclamato e discutibile soggettivismo di chi studia un autore muovendo – com’è stato detto in barba ad ogni elementare dovere di acribia storica – «soltanto da una verità voluta o sperata» (Mario Dal Pra, Problemi di storiografia filosofica, Bocca, Milano 1951, pp. 57 – 58), al di là delle forzature paradossali di chi espone una tesi tacendo, con bella disinvoltura, tutti gli argomenti che le si oppongono o che permettono di ricollocare un’affermazione nel suo contesto, che cosa rende possibile il sorgere di interpretazioni così divergenti del pensiero hegeliano? In realtà nel macchinoso sistema di Hegel confluiscono opposti motivi che, di là dalle sintesi formali e apparenti della dialettica, non raggiungono un’equilibrata armonia e una compiuta giustificazione critica, perché l’idealismo è una metafisica romantica dalle linee grandiose e superbe, in cui la suggestione passionale si sostituisce, nelle determinazioni dei principi, alla serena riflessione filosofica.
L’ebbrezza che gonfia il cuore dell’uomo e sembra dilatarlo nell’infinito, allorché in sé sperimenta la potenza dello spirito e l’incommensurabilità del pensiero, ispira e informa di sé tutti i sistemi e tutti gli indirizzi del pensiero che hanno, in epoche diverse, diffuso in forme varie l’immanentismo.
Nondimeno mai l’insofferenza del limite fu così violentemente avvertita e proclamata come dal Romanticismo, che celebrò l’infinitizzazione del finito, l’identità di finito e infinito nella sfera del sentimento. Ebbene l’Idealismo è la versione filosofica del Romanticismo. Infatti nel suo significato più rigoroso l’idealismo celebra e presuppone l’identità di finito e infinito nella sfera del concetto. «L’idealismo della filosofia – scrive testualmente Hegel nella Logica – consiste solo in questo: nel non riconoscere il finito come vero essere». E ancora: «l’infinito toglie di mezzo il finito, realizzando dietro le apparenze di esso la sua infinità».
Si capisce allora quanto la nuova mentalità, che effettivamente accomuna romantici e idealisti, fosse opposta a quella di Immanuel Kant, la cui filosofia critica scaturiva da un atteggiamento di verifica dei poteri e dunque di ricognizione dei limiti umani. Così, all’inizio, ci si proclamò kantiani contro Kant, con Fichte, e si finì, con Hegel, più coerentemente, col rigetto esplicito duro, spesso volgare del messaggio filosofico e soprattutto morale del saggio di Könisberg. E allora, si obietterà, come si spiega la polemica antiromantica di Hegel? La polemica antiromantica di Hegel è orientata non già contro le essenziali precipue intenzioni metafisiche del romanticismo, ma piuttosto contro la mancanza di metodo, il procedere acritico e asistematico dei pensatori romantici che quelle intuizioni minacciava di snaturare e disperdere in uno slancio sentimentale. Hegel esaspera nelle opere della maturità l’orgogliosa coscienza del distacco da forme e atteggiamenti del romanticismo, ma all’occhio del critico non superficiale appare non meno chiara l’efficacia del fermento romantico, e dunque, il sostanziale irrazionalismo del sistema hegeliano. «Hegel, dunque, si distingue dagli altri romantici per i mezzi che adopera, ma non per il fine e per i risultati» (Vittorio Mathieu). In realtà la Ragione romantico-idealista, febbrilmente dialettica in un gioco di opposti, prodigiosamente conciliati in spettacolose e immancabili sintesi, è organo di una Schwärmerei filosofica, che fa dell’hegelismo una forma di irrazionalismo, anzi la più ardita logica dell’irrazionale quale che sia la fastosa veste panlogistica.
Le linee architettoniche del sistema sono ben note e hanno dato luogo a molte critiche, anche da parte di idealisti come Croce e Gentile. Tutto il sistema hegeliano gravita sopra un’ipotesi di carattere metafisico: l’unità del finito e dell’infinito, di Dio e del mondo, dello spirito e della materia, del tempo e dell’eterno. Questo presupposto rimane un’aspirazione romantica, ma è pur sempre impervia al pensiero logico, inesplicabile e indimostrabile per via concettuale. Senonché una volta risolto Dio nella natura e nella storia e dissolta in Dio la natura e la storia, identificata la mente umana con la mente divina, la prima aporia di un sistema ossessionatamene dialettizzato come quello hegeliano è proprio questa: che in esso non c’è più posto per la filosofia, quali che siano gli sforzi dell’insuperabile virtuosismo del filosofo di Stoccarda. Com’è noto, Hegel aveva criticato genialmente il cattivo infinito schellinghiano, che annulla ogni posizione determinata nella notte dell’assoluta identità dove tutte le vacche sono nere; ma non si avvede che la presupposta rigorosa identità di realtà e ragione rende impossibile al suo stesso pensiero qualsiasi distinzione. La filosofia, infatti, procede con la ricerca che si fa strada attraverso le distinzioni; ma le distinzioni vengono a mancare di ogni fondamento e si rivelano arbitrarie, quando la natura e il suo supremo principio, quando l’effetto e la causa, il contingente e l’eterno, sono violentemente tratti a coincidere in una unità, che invano poi si cerca di discriminare interiormente. Lo Spirito universale degli idealisti si solleva sui suoi prodotti per l’infinita potenzialità che non ristagna in nessuno di essi in particolare, ma di tutti si sostanzia e si riempie. Uno spirito siffatto, forza anonima senza volto e personalità, è piuttosto una cieca e fatale forza naturale, sfornita di intelligenza e di volontà sua propria, in quanto non può né pensare né volere al di fuori delle singole coscienze individuali, e non potrebbe dar ragione di nulla, bisognosa com’è a sua volta di essere spiegata e giustificata al pensiero. Lo spirito universale degli idealisti è l’analogo della materia dei materialisti, è un presupposto in cui si crede, non un principio che si giustifichi e valga a garantire l’intelligibilità del reale. La razionalità è postulata, in quanto non può essere fondata da un infinito che è semplicemente la forma universale della vita. Malgrado le esplicite dichiarazioni del filosofo di Stoccarda la sua Idea, come Logo e come Spirito Assoluto, non è l’equivalente di Dio.
Analogamente, come non si giustifica l’articolarsi di piani e forme diverse di realtà se l’Uno è ed è in tutto, sulla base del presupposto immanentistico non sarebbe più possibile nemmeno quella forma dello Spirito Assoluto che è la religione. Questa non è possibile e sarebbe assurda e ridicola senza la sfera nel del trascendente. Non si può ragionevolmente essere soggetto e oggetto di adorazione e di culto. La religiosità dell’immanente è una forma di narcisismo, diametralmente opposta all’autentico spirito religioso, che sperimenta l’intima comunione di sé con Dio, nell’interiorità della coscienza e nella concretezza delle opere, senza tuttavia pretendere di essere e di sentirsi al posto di Dio. Il ritornello del panteismo antropocentrico, da Hegel a Gentile, è «dire uomo è dire Dio e dire Dio è dire uomo»; ma ciò significa semplicemente annullare Dio nell’uomo, farne «un superlativo umano», e disperdere, dall’altro canto, la spiritualità umana nel convulso agitarsi di un’assoluta anomia. Si dirà: ma non è forse Hegel l’autore di un’alta celebrazione del cristianesimo come religione assoluta in cui «lo Spirito assoluto non manifesta più momenti astratti di sé, ma manifesta sé medesimo» (Enciclopedia, par. 564)? In realtà il cristianesimo nella visione hegeliana è impoverito e svuotato nel suo contenuto eminentemente e specificamente religioso, ridotto com’è ad espressione mitica e simbolica d’un concetto ch’è poi il concetto d’un’aspirazione romantica, la sempre presupposta e mai dimostrata identità di finito e infinito, natura e Spirito, Dio e uomo. Così la religione perde, nell’atto stesso del suo massimo svolgimento, la sua intima ragione d’essere e si dissolve nella filosofia hegeliana, sistema definitivo in cui l’Assoluto prende coscienza di sé. Né la filosofia che la raccoglie e la invera ne esce vivificata e potenziata, in quanto, configurandosi come sapere definitivo, come meta ultima del processo cosmico, umano e divino, rende inconcepibile e vano ogni ulteriore svolgimento storico. Per un equivoco duro a morire e fecondo di tragiche conseguenze, il mito immanentistico nella formulazione hegeliana è stato giudicato come il punto d’arrivo dello spiritualismo cristiano; sì che, rigettando l’uno, si è creduto di aver rigettato e confutato l’altro. Nulla di più falso. Pochi giudizi sono più infondati. Si deve dire, invece, che nella sua storia millenaria poche volte e forse nessuna il cristianesimo ebbe a lottare con un avversario più insidioso e scaltrito. Tra idealismo e cristianesimo non vi è né identità, né continuità di sviluppo: il primo è la più arbitraria e sofisticata deformazione del secondo. È vero che il cristianesimo non è, come talora erroneamente si dice, un dualismo, perché di dualismo si può parlare soltanto quando i termini si trovano sullo stesso piano di realtà e di valore; ma nel pensiero cristiano natura e spirito in metafisica, male e bene in morale non sono affatto sullo stesso piano ontologico e valutativo. È assurdo interpretare il cristianesimo in chiave immanentistica, così come è assurdo concepire la trascendenza cristiana come estraneità, come il «fuori di sé» sentito come «destino ostile» e dunque come alienante. Pure l’una e l’altra deformazione del pensiero cristiano, che hanno avuto e hanno tuttora tanta immeritata fortuna, risalgono ambedue a Hegel, anche se poi Feuerbach e Comte nell’Ottocento, e oggi Paul Van Buren e Thomas Altizer le hanno fatte proprie e rese esplicite, traendone le più diverse conseguenze, fino a configurare quell’aperta e incredibile contradictio in adiectis che va sotto l’etichetta di ateismo cristiano.
Ma è tempo che la deformazione polemica ceda il passo all’informazione storica, la quale ampiamente attesta che nel pensiero cristiano Dio non è separato dall’uomo, né da alcun’altra sua creatura, e nel contempo la sua ineffabile presenza non comporta alcuna confusione di natura, di sostanza, di personalità. Lo dice a chiare lettere san Paolo nel discorso agli ateniesi (Actus Apostol. XVII, 22-29): «Dio è creatore» e non abita in nessun tempio fatto dalla mano dell’uomo, «quamvis non longe sit ab unoquoque nostrum», «in ipso enim vivimus et movemur et sumus». Espressioni di straordinaria energia che stanno a significare l’ineffabile onnipresenza divina, presenza che non implica alcuna confusione o sostituzione dello Spirito divino con l’uomo. La trascendenza è un concetto che significa assenza del limite nell’assoluto, limite che troviamo invece non solo nella natura che ci circonda, ma anche dentro noi stessi, in ogni nostra attività per alta che sia. Trascendenza vuol dire che Dio non si confonde con la natura e la storia, altrimenti non sarebbe più Dio, in quanto sarebbe travolto dall’odissea dei fenomeni naturali e nella multiforme e spesso fangosa fiumana della storia. Il più grande africano, il berbero Agostino di Tagaste, ha espresso con stupenda effusione l’originalità unica del cristianesimo, in cui si congiungono interiorità e trascendenza nella loro inseparabile armonia: «Tu es interior intimo meo, superior summo meo» scrive nel libro III delle Confessioni, al capitolo 4, e tutta la sua metafisica della vita interiore può essere assunta a commento della verità scolpita in queste parole. La Verità prima, che a noi si dona, non si fa strada in noi se non col nostro concorso. Dio non viene in noi dal di fuori, ma dal di dentro e non può nemmeno salvarci senza il fiat del nostro volere. «Qui fecit te sine te non justificat te sine te». In seguito, san Tommaso così riassume e precisa il pensiero cristiano sull’ineffabile onnipresenza, che è la sola immanenza possibile, e sulla trascendenza di Dio nel rapporto tra l’universo e il suo Supremo Principio: «Deus in omnibus; per potentiam in quantum omnia eius potestati subduntur. Est per praesentiam in omnibus, in quantum omnia nuda sunt et aperta oculis eius. Est in omnibus per essentiam, in quantum adest omnibus, ut causa essendi» (I, q.VIII, a. 3). E le citazioni potrebbero continuare, puntuali e inequivocabili, da Anselmo a Erasmo, da Campanella a Vico, da Pascal a Gioberti, da Kierkegaard a Blondel, da Rosmini a Romano Guardini, da Gabriel Marcel a Erich Przywara, perché il tema in discussione tocca la sostanza stessa d’una Weltanschaung cristiana del mondo. Sulla deformazione hegeliana della dottrina essenziale del cristianesimo, si è poi innestata l’equazione trascendenza=alienazione. Non c’è da meravigliarsi: ciò accade quando si concepisce la filosofia come genealogia (Fiche genuit Schelling, Schelling genuit Hegel, ecc.), cioè fuori di ogni contatto col mondo concreto dell’esperienza e col valore della persona; e ancor più certe equazioni diventano dogmi acriticamente concepiti quando alla disamina, più o meno corretta, ma ancora filosofica, si sovrappongono categorie socio-economiche o psico-sociologiche, più idonee a descrivere e tipizzare le anomalie e le insufficienze di certi atteggiamenti, che non a cogliere l’essenza profonda di una dottrina e di un’esperienza di vita cristiana in cui l’amore di Dio e l’amore degli uomini sono due porte che si aprono e si chiudono insieme e non è consentito a nessuno scaricare in Dio l’attuazione dei suoi compiti, essendo morta una fede senza le opere che la incarnino. Nel cristianesimo autentico l’uomo di fede per eccellenza è un creatore per eccellenza perché «la sua azione, intensa di per sé, è capace d’intensificare anche l’azione degli altri uomini e d’accendere, generosa, dei focolai di generosità» (Henri Bergson). Gli originali ma imperfetti imitatori di Cristo sono proprio coloro che da Paolo a Francesco, da Bernardo a Schweitzer, da Gregorio Magno a Giovanni XXIII, da Gandhi a Luther King, hanno aperto all’umanità vie nuove. «Hanno un bell’essere al culmine dell’evoluzione – osserva Bergson – essi sono più vicini alle origini e rendono sensibili ai nostri occhi l’impulso che viene dal profondo».
Si è già detto in che cosa consiste il presupposto immanentistico di Hegel: l’identità di finito e infinito. La sua formulazione più celebre è contenuta nella pagina introduttiva della Filosofia del Diritto: «ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale». Formula a cui fanno riscontro altre, quali ad esempio quelle contenute nel paragrafo 6 dell’Enciclopedia o nelle Lezioni sulla filosofia della storia. Noi abbiamo visto che questa Ragione, invocata a suprema garanzia della razionalità del reale, si è rilevata essa stessa spoglia dei più essenziali caratteri della razionalità. Ma è indubbio che il famoso aforisma esprime con molta efficacia e con perfetta coerenza lo spirito animatore del sistema. Esso potrebbe essere assunto a compendiare in maniera epigrafica ogni sistema immanentistico. Hegel, si badi, non esprime col noto aforisma la possibilità che la realtà possa essere intesa, penetrata ed entro certi limiti trasformata dalla ragione: no, la formula afferma nient’altro che la totale, sostanziale, necessaria identità di realtà e ragione. Se ragione è uguale a realtà e realtà è uguale a ragione, la realtà, così com’essa è, viene interamente giustificata e ogni pretesa di contrapporre ad essa un dover essere cade nel nulla. Ciò che è accaduto o accade era giusto che accadesse, è giusto che accada: ciò che è stato doveva essere. E, reciprocamente, tutto ciò che deve essere è. Non vi può essere disequazione tra quel che la ragione esige e la realtà. Di qui la sprezzante polemica di Hegel contro Kant, per il quale la vita morale si afferma nella lotta fra il comando razionale della volontà buona e la dialettica naturale degli istinti. Per Hegel il dovere, il Sollen, il dover essere è nient’altro che «sterile declamazione», «parto di fantasie esaltate», «chimera particolarmente cara all’intelletto astratto che tiene i sogni delle sue astrazioni per alcunché di verace». Se il tempo non fosse inesorabile nel suo scorrere scenderei a motivare, a cuore aperto, la profonda verità della concezione morale di Kant, la cui posizione non può essere assolutamente confusa, come Hegel fa, con quella del soggettivismo etico contrapponente l’arbitrio di una vuota interiorità alla concreta realtà morale. Kant non ha teorizzato né il «principio del Nord», cioè «la fuga dal reale», né «il sospiroso velleitarismo delle anime belle», l’irrequietezza dei sognatori perduti dietro il vagheggiamento di mete imprecisate e cangianti. Contrariamente a quanto Hegel afferma, l’imperativo categorico, nella sua autenticità, ci dice quello che dobbiamo fare, non certo nell’empirica e puntuale determinazione di fini particolari infinitamente vari e variabili, che è estranea ad ogni legge, per natura sua sempre generale, se non universale. Specialmente nella formula che indica l’uomo come fine in sé, l’imperativo categorico è sufficiente all’autodeterminazione della volontà. L’uomo non può essere strumentalizzato da nessun uomo. Questa è la grande lezione di Kant, che Hegel e i suoi seguaci non intesero affatto. Kant scopre che la legge morale, scaturente dall’intimo della natura razionale dell’uomo, è il più certo documento della libertà umana e la premessa di ogni vita sociale, che riequilibri l’insocievole socievolezza dell’uomo in giusti rapporti, in cui si rispetti la natura di fine in sé che spetti ad ogni individuo. Non fiat iustitia et pereat mundus, come diceva lo stoico, ma fiat iustitia ne pereat mundus, perché il mondo umano, intessuto da rapporti intersoggettivi, non sussiste, non è più un mondo umano senza giustizia.
La tautologica conversione del reale nel razionale e del razionale nel reale induce a domandarci: il panlogismo non conduce inevitabilmente al giustificazionismo e all’ottimismo? E allora per l’immanentista Hegel che cos’è il male? Il Croce con accenti di grande indignazione ha cercato di respingere da Hegel la taccia di ottimismo. E certo, negare sic et simpliciter il male e l’errore sarebbe non ottimismo e tanto meno filosofia, ma cecità intellettuale e follia spirituale. Hegel dunque riconosce l’esistenza del male, ma la riconosce solo in quanto apparenza. All’irrazionale spetta una realtà deteriore e caduca che è presente e agente solo nella sfera empirica. Ed Hegel con uno dei colpi di scena della sua magica dialettica non esita a nullificare il problema con una battuta: «il polo nord del mondo fenomenico è in sé e per sé il polo sud e viceversa. Quello che dell’esistenza apparente è male, è in sé e per sé un bene» (Logica, II, Laterza, Bari 1925, pp.160 – 161). Intendere il male, l’irrazionale significa, tutt’al più, farne un momento fenomenico nel processo di attuazione della realtà che è sì intrinsecamente ragione, ma solo in quanto è sintesi e non frammentaria unilateralità, solo in quanto supera l’immediatezza degli opposti che insieme sintetizza. La risposta di Hegel ha una sua sofisticata sottigliezza, ma è il presupposto immanentistico che non gli permette, da un punto di vista logico, di dir neppure questo. Infatti Hegel ha ripetuto fino alla noia che non c’è palpito di vita, non c’è aspetto anche della realtà empirica, classificata come apparenza e accidentalità solo in relazione ad un ulteriore momento dialettico, che non s’affermi come momento necessario del divenire dell’idea. E allora: se tutto ciò che è è dominio della necessità razionale, donde l’accidente e l’irrazionale? E ammettere una reale accidentalità non significa forse sconfessare il principio che tutto il reale è razionale? Hegel non è mai riuscito a dare una spiegazione coerente ed esauriente del disvalore.
In conclusione il male per Hegel è un’apparenza, priva di consistenza e di valore, o un momento dialettico destinato ad essere riassorbito nella superiore bontà del tutto. Ma le favole sono favole anche quando le raccontano i filosofi. La concreta realtà della vita e della storia è ben diversa. La storia, che si distende e realizza in un processo dinamico e multiforme, non conosce le sintesi rapide, disinvolte, immancabili della logica hegeliana. Il male ha nella storia una sua propria dialettica, che non è quella di Hegel e ne ignora il comodo e immancabile automatismo. La storia civile e politica dei popoli è per gran parte, non meno di quella degli individui, storia del male e storia degli sforzi dolorosi per riscattarsi dal male. «…la man degli avi insanguinata / seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno / coltivata nel sangue…». E pur senza concludere col disperato sospiro di Adelchi: «e ormai la terra altra messe non dà», la filosofia non può vanificare in un facile ottimismo dialettico questo innegabile retaggio di dolore e di lotta.
In questa giustificazione dialettica del male, il panlogismo hegeliano riesce alla più aperta e completa consacrazione dell’irrazionalismo. Per chiunque abbia una sia pur elementare conoscenza della storia della filosofia, la negatività e la funzione dialettica del male non sono una scoperta moderna. Si pensi per un momento al contributo di Agostino su questo problema. Il male non ha per sé stante un’ipostatizzabile entità metafisica, come immaginava la torbida fantasia manichea. «Il male non rappresenta nessuna natura e non sta a significare altro che privazione di un bene» (De civ. Dei, XI, 22). In questo solo consiste la sua negatività, che non esclude quella peculiare realtà etica e psicologica di cui si colora tragicamente la vita. E il bene nasce dal male accidentalmente, ossia non perché sia causato da una forza produttrice che spetti al male e ne faccia l’assurda matrice del bene. Non vi è meccanico trapasso (o coincidentia oppositorum) dell’uno nell’altro opposto, dal bene al male, e dal male al bene, ma qui più che altrove è lo spirito, in quanto volontà consapevole, che produce il bene e argina, con le sue opere della sua creazione morale, la forza distruttrice del male, neutralizzandone gli effetti. Se l’artificio dialettico fosse davvero legge immancabile, se tutto ciò che accade deve accadere secondo un gioco di necessarie antitesi, dunque ogni risultato è scontato: il dialettismo conduce così alla narcosi spirituale, al quietismo. «Principium scientiae moralis est reverentia fato habenda», aveva proclamato Hegel fino dal 1801.
Può sembrare strano, ma a Hegel manca la coscienza etica della drammaticità della vita e della storia perché il conflitto di opposte forze storiche e morali non è mai vissuto eticamente, ma è sempre riguardato con l’ebbrezza romantica di chi si compiace di tutto conciliare e riplasmare con un necessitarismo dialettico che può affascinare esteticamente per la sua grandiosità, ma non convince chi si rifiuta di mutilare i fatti e di manipolarli per farli rientrare in uno schema fisso e precostituito, non può convincere chi si rifiuta di imprigionare artificiosamente la realtà viva e il pensiero che si svolge in quella specie di «ruminazione dei tre stomaci» che è il meccanismo triadico, drammaticamente reso coestensivo a tutto il reale. Una filosofia del genere, un dialettismo così intemperante, assoluto, deterministico, meccanico si lascia sfuggire che la vita è spesso dramma proprio perché vi sono certe azioni, certe opzioni tra il sì e il no, che sono scelte autentiche e decisive, in cui è impegnato tutto il valore della vita stessa e che non ammettono mediazioni di sorta. Nel conflitto tra forme autentiche e inautentiche di valori è la vera drammaticità della storia. I valori, infatti, sono nella storia in fase di continuo sviluppo e in uno stato di conflitto con i disvalori e con gli pseudo-valori. La necessità dell’urto, del cimento, del conflitto, che induce spesso a conclusioni pessimistiche e a deviazioni molteplici, è la condizione per incarnare i valori del mondo, per impiantarli nella storia, perché la storia è dramma e non idillio alla Watteau. In questo senso preciso, la legge dell’opposizione ha una sua giustificazione e non nella dialettica idealistica che, identificando fatto e valore, realtà e razionalità, approda alla più aperta consacrazione dell’irrazionalismo. La dialettica triadica può servire come particolare strumento o espediente euristico, in un dato momento della ricerca, così come la critica del linguaggio, o l’epochè di Cartesio o di Husserl. Può essere utile talvolta contrapporre tesi e concetti unilaterali per farne scaturire l’incompiutezza e la necessità ideale di pervenire ad un loro superamento; ma non tutti i concetti sono suscettibili di questo gioco dialettico e, dall’altro canto, la sintesi di aspetti opposti o semplicemente diversi della realtà non si ottiene automaticamente col meccanismo della contrapposizione. Ed è certo strano che in questo nostro tempo di demistificazione programmata la dialettica di stampo hegeliano, avulsa o no dal sistema, sia diventata essa stessa fonte di mitopoiesi, ed un luogo comune, a cui ci si rifà con compiacimento, e di cui ci si serve per i più diversi usi, non escluso quello di dare un’illusione di profondità alle proprie contraddizioni e un alibi in più ai meschini compromessi della prassi.
In coerenza al presupposto immanentistico della giustificazione razionale della realtà quale essa sia, il filosofo prussiano ha affrontato questo compito con maggiore energia proprio là dove esso rischia di confinare nel cinismo: cioè nei confronti della realtà politica, dello Stato, della storia. La realtà effettuale, nel senso machiavellico dell’espressione, in quanto è posta in essere dall’Idea ragione, è un momento necessario alla sua realizzazione. Essa dunque è divina, perché non c’è aspetto anche della realtà empirica, classificata come apparenza e come accidentalità solo in relazione ad un ulteriore momento dialettico, che non s’affermi come momento necessario del divenire dell’idea. Nelle ultime pagine della Filosofia della Storia Hegel scrive testualmente: «ciò che è accaduto e ciò che accade ogni giorno non solo non è senza Dio, ma è essenzialmente opera sua». «Chi non sa riconoscere – ammonisce Hegel – l’immanenza dell’Idea nel presente e presume di oltrepassarlo e di protendersi verso qualcosa di meglio annaspa nel vuoto». La filosofia – scrive Hegel – se ne sta sempre in pace con la realtà. Essa è come l’uccello di Minerva, che spiega il suo volo nel crepuscolo, quando la vita si è già svolta e un’epoca ha concluso il suo ciclo. La filosofia non ha altro compito che dare forma razionale a ciò che intrinsecamente razionale era già».
Non è mio compito nemmeno sfiorare la filosofia della storia di Hegel, ma non si può tacere la sua concezione dello Stato come «ragione incarnata», «ingresso di Dio nel mondo», vita divina che si realizza nel mondo. Lo Stato è detto «etico» non perché trovi un limite al suo potere o un impulso dinamico nelle leggi morali, ma perché si pone al di sopra del bene e del male, esso stesso istituendo nella sua volontà ciò che è bene e ciò che deve essere compiuto. La famosa frase «nulla al di sopra dello Stato, nulla fuori dello Stato» è hegeliana. La volontà statuale è tale che ogni divergente aspirazione individuale si chiarisce perciò stesso fantastica e illegittima, affetta di inguaribile soggettivismo.
Nel tragico e sempre rinascente dissidio tra la coscienza morale dell’uomo, che testimonia verità che superano la sfera statuale, e il potere statale, Hegel prende chiaramente partito per il secondo, satireggiando come coscienza infelice che lotta per il riconoscimento di valori universalmente umani. Per Hegel l’ethos, la conciliazione tra l’individuale e l’universale, ci è dato dallo Stato, nell’obbedienza alle sue leggi. Agli occhi di Hegel, Socrate come l’Antigone di Sofocle e come il dovere di Kant esprimono nient’altro che le esigenze di un’astratta soggettività, perché cercare che cos’è il dovere e vivere per esso è «un’inutile pedanteria» che produce inutili fratture nelle coscienze (Filosofia della Storia). I giudici che condannano Socrate sono quindi giustificati. Hegel aveva scritto in una rivelatrice lettera del 13 ottobre 1806, quando Napoleone entrò a Jena: «ho visto l’Imperatore – quest’anima del mondo (Weltgeist) – cavalcare attraverso la città: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, su un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina». Ebbene solo ai Napoleoni, cioè ai superuomini aureolati di gloria militare, solo agli Alessandri, ai Cesari, che con le loro grandi passioni si fanno inconsci strumenti dell’Idea, si può permettere un’azione storica che culmini nella costituzione di una nuova forma statale, che può essere oppressiva quanto e più dell’antica. E agli altri uomini? Agli altri non resta che la rinuncia al proprio diritto, alla propria coscienza, alla propria vita, alla propria concreta personalità in una passiva acquiescenza a ciò che è comandato dallo Stato o dalla volontà dell’eroe mondiale, perché anche nell’imperversare di criminose passioni si deve adorare la manifestazione dell’Idea.
La dottrina statolatrica di Hegel, se accettata, giustifica ogni tirannia interna ad ogni aggressione imperialistica. Infatti se lo Stato è «la unica vita morale realizzata e realmente esistente», non resta alcun principio con cui moralizzare le relazioni tra gli Stati. Hegel non ha esitazioni a riconoscerlo e a opporsi, anche qui, con rabbiosa polemica a Kant, per il quale il corso della storia, per intrinseca necessità e per una innegabile esigenza razionale, tende, invece, a raggiungere una perfetta costituzione giuridica e politica tra i popoli, in funzione e a premessa di fini più alti, per una attuazione più piena della comune umanità. La certezza del diritto internazionale e la guerra alla guerra sono le mete faticose, ma necessarie, perché la vita sia una vita e una storia da esseri umani. Noi che conosciamo l’angoscia della guerra siamo con Kant e ancora una volta ne sottolineiamo l’autentica, superiore attualità.
Per Hegel, invece, lo Spirito universale, mentre fa decadere a una condizione accidentale quegli Stati che pure sono sue dirette espressioni, pone le sue tende presso lo Stato imperialista che in quel dato momento tende a dominare il mondo. E dinanzi allo Stato a cui tocca in ogni momento storico il primato egemonico ogni altro Stato è spoglio di ogni diritto. C’è qualche dubbio in proposito? Ebbene, risponde Hegel, il ricorso alla guerra lo chiarirà. Il tribunale della storia, il tribunale del mondo non ammette altra azione che la guerra, a cui spetta la sentenza definitiva quando insorgono conflitti fra Stato e Stato. Chi vince ha sempre ragione. L’irrazionalità della guerra e l’eminente casualità del suo risultato sono invocate a risolvere ogni controversia.
Questo è il terrificante, ma logico, sbocco della divinizzazione immanentista della storia. Con lo storicismo hegeliano nascerà la giustificazione di ogni dittatura, di ogni violenza, di ogni imperialismo, di ogni ingiustizia a cui arrida un sia pur precario successo. Il naufragio di ogni criterio di valutazione consacra tutto ciò che fa irruzione nel mondo con successo. Hegel ha inaugurato lo storicismo come dottrina metafisica e ne ha tratto con esemplare coerenza non tutte, ma certo le più importanti conseguenze. Altri, dopo di lui, continueranno a dirsi storicisti, ma non avranno il coraggio di esserlo fino in fondo. E si capisce perché, non essendo, certo, una condizione invidiabile dello storicismo quella di ratificare fatti e sentenze, la cui evidente illogicità e conclamata immoralità grida sui tetti e risulta ormai all’illuminata coscienza dell’umanità.
In Italia, in questo secondo dopoguerra, uscita la cultura italiana dalla lunga soggezione allo storicismo neo-hegeliano di Croce e di Gentile, sono cominciate le ritrattazioni e le palinodie, si è cominciato finalmente a distinguere e si è finito più chiaramente col contrapporre lo storicismo in senso proprio e specifico, da un lato, e la storicità, il senso storico, la coscienza storica, dall’altro. Là dove vigeva un’equivoca, assurda identità, oggi con più chiara coscienza critica si è stabilita una vigorosa contrapposizione. In una parola occorre destare, ravvivare, approfondire sempre più, in ogni campo, la coscienza storica contro lo Scilla e il Cariddi dello storicismo e dell’antistoricismo. Dello storicismo, in ogni sua forma, si è giunti finalmente a vedere il disumanesimo essenziale, le contraddizioni, le conseguenze distruttive e l’emergente relativismo insanabile, così come si respinge a ragion veduta l’antistoricismo di tipo eleatico o di tipo illuministico, da qualcuno rimesso in circolazione. Queste ultime posizioni concepiscono l’essere come incatenato dal fato ad una unità e immobilità granitica, oppure svalutano la storia in quanto passato, non riuscendo a vedere la profonda e tragica solidarietà del genere umano negli errori e nelle graduali conquiste, Erigono a giudice del passato un angusto presente, prolungantesi in un fantastico avvenire, e si lasciano sfuggire nel loro razionalismo astratto il dinamismo del concreto e il rapporto tra fatti e valori. Le ritrattazioni più significative e le prese di distanza dallo storicismo in quanto tale, cioè come dottrina della realtà, sono iniziate in Italia proprio da parte degli ex-crociani o gentiliani, come ad esempio Guido De Ruggiero nel Ritorno alla ragione (Laterza, Bari 1946), Carlo Antoni in Lo Storicismo (E.R.I., Torino 1957), Felice Battaglia da Il valore della storia (Mulino, Bologna 1948) a I valori tra la metafisica e la storia (Zanichelli, Bologna 1957). Studiosi di altra estrazione come Furio Diaz (Storicismo e storicità, Parenti, Firenze 1956), Risieri Frondizi (Lo storicismo e il problema della verità nel volume «Verità e storia», Arethusa, Asti 1956) e Pietro Rossi (Lo storicismo tedesco contemporaneo, Einaudi, Torino 1956), hanno avuto anch’essi il merito di mettere allo scoperto le difficoltà dello storicismo in quanto tale, quale che sia la sua coloritura e matrice metafisica.
Lo storicismo, mentre assolutizza la storia, ne compromette l’intelligibilità. Lo storicismo sommerge la storia, in cui contrae il concetto di tutta la realtà, in una fiumana senza dighe e senza foce, che travolge nel nulla uomini, opere, valori. Questa nuova e più raffinata formulazione del divenire eracliteo non lascia sussistere neanche le condizioni della possibilità e dell’intelligibilità del divenire stesso, perché nel momento in cui è stata «pronunciata la qualifica di una realtà, essa non vale più, perché la storia ha prodotto una nuova realtà che aspetta una nuova qualifica» (Benedetto Croce, Breviario di estetica, Laterza, Bari 1953, p. 88). Il labile flusso della storia, storicisticamente intesa, fa naufragare l’idea stessa di valore. Nessun uomo, nessun fatto, nessuna azione ha in realtà valore e risalto storico nell’universale grigiore della tormenta storicistica, che tutti e tutto travolge alla stessa stregua e tutto giustifica e appiattisce su un solo piano, che vuol essere quello d’una fatale necessità storica. Il determinismo storicistico è la forma più moderna di fatalismo, ma non è la meno deleteria o la meno insidiosa per la libertà e la dignità della persona umana.
Ma già sul piano logico lo storicismo si colpisce con le sue stesse armi. In termini logici il karakiri dello storicismo può essere così formulato: «se non c’è nessuna verità che tenga nella bufera infernale della storia anche questa tesi non può essere ritenuta vera, e dunque va soggetta a revisione»; «se tutto muta assolutamente, muta anche il principio che enuncia l’assoluto mutamento». Aveva ragione chi disse: «le affermazioni aventi come oggetto la totalità delle cose non possono essere ridotte ad affermazioni di una sola specie. Accade a tutte le affermazioni di questo tipo quel che tutti sanno: che si distruggono da sé». È come dire: «tutto è vero»; chi lo dicesse, verrebbe a riconoscere come vera anche la posizione contraria alla sua e porre, pertanto, la sua come non vera. «Chi dimostra il relativismo – diceva Wilhelm Windelband – lo annulla, perché dimostrare vuol dire presupporre che di là dal naturale fluire delle rappresentazioni, c’è una necessità superiore che ciascuno dovrebbe riconoscere». Senza dubbio non si tratta soltanto di una questione logica, ma anche la questione logica non si può saltare a piè pari.
Il problema è ormai chiaro: occorre affermare in tutta la sua portata il carattere storico della condizione e del cammino dell’uomo, senza cadere nella disumanità, nella banalità e nell’assurdo dello storicismo relativistico. Con lo storicismo il relativismo ha acquistato la forza di penetrazione che oggi ne fa un pericolo di disintegrazione intellettuale, ma anche morale e civile, poiché esso comporta la perdita del senso di ciò che è universalmente umano, di ciò che lega nel profondo gli uomini tra loro, quale che sia la diversità delle epoche a cui appartengono. Mi limito ad un esempio, che riguarda la filosofia. I grandi pensatori, se sono figli del loro tempo, hanno nella profonda umanità del loro pensiero aspetti eterni che trascendono le contingenze storiche e individuali. Vedere solo queste e trascurare quelli significa guardare la storia con le lenti di uno storicismo volgare quanto borioso, che alimenta una mentalità antistorica, in quanto irrigidisce i momenti della storia in una chiusa e astratta irrelatività e confina il passato in una morta eterogeneità, che renderebbe impossibile una giusta comprensione di esso. Lo storicismo dice: nessuna verità è definitiva. Noi diremo che indubbiamente ogni conquista umana è sfrangiata d’ombra e tuttavia ogni proposizione in ciò in cui e per cui è vera è definitiva, ancorché sia suscettibile di sviluppi, di integrazioni, di rettifiche.
Ebbene, Hegel non finisce di sorprenderci. Con atto di inaudita presunzione, proprio lui, il fondatore dello storicismo, giunse a pensare e a scrivere che il suo sistema esprimeva in maniera definitiva il sapere assoluto dell’Assoluto, onde tutto ciò che resta al futuro è un’opera priva di interessi ideali, in quanto nessun principio nuovo e originale può subentrare a quello espresso dalla sua filosofia. L’autorilevazione dell’Assoluto immanentisticamente intesa è chiusa nel giro della speculazione hegeliana, in cui l’Intero si è fatto sistema. E così quel dialetticismo, del cui «cominciamento» e del cui ritmo spasmodico non era mai stata fornita una spiegazione soddisfacente, si conclude, di colpo, trasformando il resto della storia e del pensiero in un caput mortum, in un vegetare ai margini dello Spirito, pari alla vita che si svolge ancora nei paesi e nelle nazioni, su cui un tempo passò l’afflato del Weltgeist, ormai permanentemente installato nella sua dimora elettiva, la Prussia della Restaurazione e della Santa Alleanza.
Per raccogliere in atto sintetico tutta la verità, il pensiero umano dovrebbe non solo estendere i suoi limiti, spostabili ma insopprimibili, ma mutar natura in un’inconcepibile deificazione. Nessun uomo può aver l’assurda pretesa di esaurire nel suo pensiero quella graduale conquista del vero, che è travaglio di individui e di secoli. Di qui la necessità in filosofia della cautela antidogmatica, il dovere della revisione e della collaborazione di coloro che marciano, sia pur per vie diverse, verso la stessa meta. Per la natura discorsiva e per il limitato angolo visuale della mente umana gli infiniti aspetti della verità, che è totalmente inesauribile, sono evidenziati separatamente nei vari pensatori e nelle diverse epoche storiche: perché non c’è dialettica capace di annullare la distanza tra finito e infinito, onde la storia dell’umana ricerca del vero è per forza di cose costituita da sintesi parziali, le cui verità tendono ad una reciproca solidarietà.
L’immensa potenza speculativa di Hegel, la genialità di alcune sue vedute e osservazioni su cui sarebbe stato bello indugiare, l’aspirazione ad elevarsi ad una visione ricca e vibrante di concretezza costituiscono le maggiori attrattive della sua filosofia. Senza dubbio con Hegel bisogna fare i conti, e chi vi parla è convinto che la maturità storica e speculativa di una dottrina non può non commisurarsi oggi anche al grado di profondità raggiunto dalla sua critica all’idealismo. Hegel fu un grande agitatore di problemi. La sua fecondità storica è stata immensa, l’edificio del suo sistema è il più alto nel cielo della filosofia, ma anche il più ingombrante, il più pericolante. Il contenuto di verità della filosofia hegeliana è assai scarso così come disumane e assurde sono le conseguenze che si dovrebbero trarre dal suo immanentismo e dal suo storicismo. Russel ha detto, con uno stimolante paradosso, che Hegel è un esempio di un’importante verità, secondo la quale quanto peggiore è la logica, tanto più interessanti sono le conseguenze a cui essa dà origine. Ciò può spiegare il persistente fervore degli interpreti e dei commentatori e l’ambigua presenza di Hegel in tante correnti di pensiero. Ma oggi, con la crisi in atto dell’ immanentismo e dello storicismo, se si riscrivesse il Ciò ch’è vivo e ciò ch’è morto in G. F. Hegel, la prima parte si ridurrebbe davvero a un tractatus brevis. «Il tragico destino di Hegel – ha scritto Ernst Cassirer in Il mito dello Stato (Longanesi, Milano 1950, p. 100) – fu quello di scatenare inconsapevolmente le forze più irrazionali che mai siano comparse nella storia», e di legittimarle con la sua filosofia, contribuendo a rendere più disumana, più alienante la cultura e la vita. Hegel è stato detto il Napoleone della speculazione contemporanea. Ebbene, sì, il paragone ci aiuta a definire meglio il giudizio conclusivo. Non si può condividere l’ammirazione comune che il genio multiforme del còrso e del prussiano ispirano, ma tale ammirazione non implica necessariamente il consenso e la simpatia, né ci esonera dal più stringente dei doveri, quello di non rifugiarci nell’ipse dixit e di cercare la verità con tutta l’anima. Questa è l’esigenza costitutiva della filosofia medesima.
NOTE
1 Per Edmund Husserl la fenomenologia è la dottrina del manifestarsi all’intuizione di essenze ideali (Ricerche Logiche, 1900 – 1901). La fenomenologia pura o trascendentale è una scienza di essenze e non di dati di fatto: essa è resa possibile, appunto, dalla «riduzione eidetica» di fenomeni psicologici, liberati dalle loro caratteristiche empiriche e portati sul piano dei significati universali. La riduzione eidetica è il metodo fenomenologico per essenza, in quanto trasforma dei fenomeni in essenze. La messa tra parentesi di ciò che non è riconducibile alla pura essenza è detta «epoché».
2 Testo della conferenza tenuta nell’Aula Magna dell’Università Cattolica di Brescia il 15 marzo 1971.
NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.