«L’inconveniente più grave dell’odierno metodo di studi è che, laddove ci consacriamo con maggiore impegno a coltivare le discipline naturali, non facciamo poi il medesimo conto delle scienze morali» (G. B. Vico)
LA VITA
Gian Battista Vico nacque a Napoli il 23 giugno 1668 in un bugigattolo sovrastante la misera bottega del padre, terz’ultimo di otto figli. Il padre, Antonio, era un povero libraio di umore allegro, che precedentemente era stato contadino, mentre la madre, Candida Masulla, figlia di un lavoratore che costruiva carrozze, era di tempra malinconica.
A sette anni ebbe una tremenda caduta, che gli provocò la frattura del cranio con la perdita di molto sangue. Il piccolo Vico sospese gli studi elementari, divenne malinconico (gli fu dato il nomignolo di Master Tisicuzzus).
Al decimo anno tornò a studiare, riguadagnando in poco tempo gli anni perduti, «avendo a maestro sé medesimo».
A dodici anni, collocato presso i gesuiti, offeso dalle ingiuste preferenze di quei padri, si chiuse in casa e «da sé apprese». Lo sforzo compiuto per l’avviamento allo studio della filosofia gli nocque talmente da costringerlo ad abbandonare i libri per un anno e mezzo. Gli sembrava d’essere privo d’intelligenza e ne soffriva.
Nel 1683 riprese a studiare filosofia con padre Giuseppe Ricci, ma presto lo abbandonò e «si chiuse un anno in casa a studiare Suarez».
Avviato agli studi legali per l’avvocatura, quanto gli piaceva l’indagine sui principi del diritto universale e del diritto romano e il possesso della lingua latina, tanto si sentiva soffocato dalla pratica leguleia. A sedici anni colse il primo e ultimo successo forense, difendendo suo padre in tribunale, ma la conclusione fu quella di consacrarsi ad una «sapienza intera». «Andava egli frattanto a perdere la delicata complessione in mal d’etisia; ed eran a lui in troppe angustie ridotte le famigliari fortune ed aveva ardente desiderio di ozio per seguitare i suoi studi, e l’animo aborriva grandemente dallo strepito del foro».
Nel 1686 accoglie l’invito di monsignor Geronimo Rocca, vescovo di Ischia – che aveva intuito la grandezza d’ingegno di Vico in un colloquio – di diventare precettore dei nipoti a Vatolla, nel Cilento, «bellissimo sito e di perfettissima aria». Vi si fermò nove anni, i più decisivi della sua formazione intellettuale e spirituale. Platone, Aristotele, Agostino, Cartesio, Malebranche, Grozio, Bacone, Pico, Ficino furono gli autori più assiduamente studiati, insieme a Cicerone, Valla, Tacito e ad altre opere classiche e rinascimentali.
Antonio Corsano, Benedetto Croce e Guido De Ruggiero hanno voluto dimostrare che Vico ha avuto altri «incontri ideali» che il filosofo napoletano ha voluto o dovuto tacere. In particolare Vico avrebbe partecipato al movimento epicureo, ateista, lucreziano, contro il quale il S. Uffizio intentava un processo nel 1691. Lo conferma il fatto che tra i condannati v’erano amici di Vico, che tra le carte del processo furono trovate parole e pensieri che tornarono nella Scienza Nuova trent’anni dopo. La composizione poetica Gli affetti di un disperato e alcune frasi di una sua lettera sarebbero ulteriori indizi di una sua adesione al materialismo lucreziano.
L’insistenza della critica idealistica su tale motivo si spiega nel fatto che si vuol trovare nella eterodossia della vita un qualche appoggio alla presentazione eterodossa della dottrina. La partecipazione di Vico al movimento illuminista napoletano non è provata; se fosse anche vera potrebbe convertirsi in un saldo criterio d’interpretazione della vicenda mentale del filosofo, ma in direzione opposta ai voleri degli storici idealisti: nella sua attività giovanile di illuminista Vico avrebbe trovato l’occasione, la spinta a reagire in modo originale e radicale alla cultura di moda. Ritirandosi da questa avventura agli studi umanisti, Vico avrebbe, con diversa originalità e fecondità, attraverso la meditazione filosofica, riscoperto il valore della religione. Inoltre Gli affetti e la lettera incriminata esprimono non dubbi filosofici o crisi religiosa, ma quella sfiducia in sé e quel senso di solitudine che ogni giovane pensoso non ignora.
In ogni caso a noi sembra che la questione delle fonti, troppo considerata in periodo positivistico, sia d’una importanza molto secondaria. «Quello che ci interessa infatti è il pensiero del filosofo, che è un organismo in cui le singole parti ricevono il loro significato dal tutto; in cui le fonti non rimangono più né Lucrezio, né Marsilio, né Agostino, ma diventano tutte Vico. Solo quando si è afferrata la posizione fondamentale di un filosofo si può impostare con oggettività e con equilibrio il problema delle fonti» (Franco Amerio).
Nel 1695 Vico rientra a Napoli, dove si fa apprezzare come letterato. Divenuto professore di retorica all’Università di Napoli (1699), per arrotondare il magro stipendio di 100 scudi annui assume incarichi per dediche e iscrizioni commemorative di eventi pubblici o privati. Si sposa con Teresa Caterina Destito: un signum crucis da lei apposto all’atto matrimoniale ce la mostra per lo meno scribere nescientem. Il 17 settembre 1700 nasce la primogenita Luisa.
Scrive numerosi libri: Le orazioni inaugurali (1699-1707), De nostri temporis studiorum ratione (1708), De antiquissima Italorum sapientia (1710) e De universi juris uno principio et fine uno (1720).
Bocciato all’unanimità al concorso per la più remunerativa cattedra di giurisprudenza nel 1723, dovette vendere l’unico oggetto di pregio che possedeva, un diamante di cinque grani, per pubblicare nel 1725 il suo capolavoro, la Scienza Nuova prima (dedicata al cardinal Corsini, di cui invano aveva sollecitato il mecenatismo) e l’Autobiografia (aggiornata poi nel 1731). La Scienza Nuova non fu capita. «Sfuggo tutti i luoghi celebri per non imbattermi in coloro ai quali io l’ho inviata» (così scrive in una lettera nell’ottobre del 1725).
Nel 1730 pubblica la Scienza Nuova seconda, mentre la terza edizione – dedicata al cardinal Acquaviva d’Aragona – viene pubblicata pochi mesi dopo la morte nel 1744.
Accanto alle umilianti sofferenze del Vico pensatore, vanno ricordate quelle di Vico padre. Dalla moglie affettuosa ma inetta ebbe otto figli: cinque morti innanzi tempo; Luisa, gentile e colta, prediletta dal padre; Gennaro, studioso ma mediocre, successore alla cattedra di retorica; Ignazio, studente fallito, impiegato disonesto alle dogane. Quando Vico denunciò Ignazio alla polizia, non potendone più oltre tollerare la condotta riprovevole, gli parve di compiere il suo più doloroso ma inevitabile dovere; ma al momento in cui il figlio stava per essere agguantato, il padre affannosamente lo ricercò perché si mettesse in salvo.
Nel 1732 Carlo di Borbone gli raddoppiava lo stipendio, e nel 1734 lo nominava «regio storiografo».
Una forte amnesia afflisse Vico per quattordici mesi tra il 1742 e il 1743: dopo essersi ripreso Vico continuò a lavorare sul suo capolavoro. Lo tormentava da tempo «un mal ipocondriaco», che alcuni malevoli fecero passare per pazzia.
Il 23 gennaio 1744 chiudeva la sua vita terrena. Chiese egli medesimo i sacramenti e diede con grande serenità le disposizioni per i propri funerali. Vico mostrò come sapesse lasciar la vita chi, secondo il suo ideale di filosofo, congiungesse nel grado eminente religiosità e saggezza. Spirò recitando i salmi di Davide.
LA CRITICA A CARTESIO E IL VERUM IPSUM FACTUM
La contrapposizione a Cartesio
Il cartesianesimo si presentava come filosofia, ma si diffondeva soprattutto come mentalità e come metodo: il metodo dell’evidenza (l’idea chiara e distinta); l’ideale della matematica universale che domina misurando e quantificando i fenomeni del meccanicismo materiale. Vico colpisce in Cartesio l’ispiratore fondamentale dell’illuminismo allora trionfante, astrattamente razionalistico, scientista, antistorico, e denuncia la perniciosità di questo indirizzo.
Le sue argomentazioni sono essenzialmente tre.
Qualunque idea falsa può apparire evidente: dunque quel criterio non può darmi la scienza vera. Mi darà probabilità, non certezza di verità. Tra i cartesiani medesimi una stessa idea per uno sarà chiara e distinta, oscura e confusa per l’altro.
L’ideale sta nel congiungere topica e critica, assegnando a ciascuna la prevalenza dovuta in rapporto all’età e allo sviluppo delle facoltà.
Il cogito e il criterio dell’evidenza sono dottrine errate non in se stesse, ma nel significato che vengono ad assumere nella filosofia cartesiana.
Per Cartesio il cogito è pura constatazione, datità, un «così» incondizionato. Per Vico la peculiarità del conoscere intellettivo non è ciò a cui Cartesio riduce lo stesso conoscere; è, sì, anche dato e presenzialità psicologica, ma in quanto oggetto di mediazione razionale, di ragione, spiegazione, illuminazione, penetrazione. Cartesio schematizza l’intelletto a guisa del senso, tattilizza – per così dire – l’intelligenza («empirismo della ragione»). E allora, datità per datità, l’evidenza delle idee chiare e distinte immediatamente percepite ha lo stesso valore dell’evidenza sensibile di Epicuro.
Il cogito è una certezza vuota, psicologica e non critica, sfiora la coscienza psicologica, non raggiunge la consapevolezza critica della scienza. La coscienza si identifica con l’avvertenza e l’accettazione del fatto, la scienza invece con le cause e gli elementi costitutivi del fatto. Ora, il cogito svela e attesta l’esistenza del pensiero e quindi la coscienza di esso, non le sue cause e quindi non porta alla scienza. Non bisogna accettare una forma, una zona privilegiata di certo (l’idea chiara e distinta) a scapito di ogni altro certo (ad esempio la tradizione, la storia), ma inverare ogni certo e certificare ogni vero, senza esclusioni e privilegi ingiustificati, ma con una progressione ordinata e tenace del pensiero, in cui il cogito deve acquistare un più alto valore: affermare l’unità dell’essere al pensiero, e del pensiero – che è una delle forme più alte dell’essere – all’essere; ridare al pensiero il suo oggetto, e cioè l’essere, e non il fenomeno intelligibile dell’idea cartesiana.
Inoltre il metodo cartesiano della chiarezza e della distinzione misconosce il mondo tipicamente umano della storia, della morale, della poesia e della fantasia. «L’inconveniente più grave dell’odierno metodo degli studi – scrive Vico nel De Antiquissima – è che laddove ci consacriamo con maggior impegno a coltivare le discipline naturali, non facciamo poi il medesimo conto delle discipline morali, e segnatamente di quella parte che concerne l’indole dell’animo umano e delle sue passioni correlativamente alla vita civile e all’eloquenza, le proprietà dei vizi e delle virtù, le buone e le male arti, le caratteristiche dei costumi giusta l’età, il sesso, la condizione, la fortuna, la stirpe, la razionalità di ciascuno, nonché quell’arte del decoro che fra tutte è la più difficile, ragion per cui la scienza quanto mai estesa e importante dello Stato giace presso di noi abbandonata e incolta». Ma come sorreggere il cogito per risollevarne la probabilità universale a certezza di verità, a consapevole criterio di vero? Con un principio nuovo, il verum ipsum factum.
Il verum ipsum factum
Conoscere veramente è conoscere «per causas», ossia afferrare di un essere la struttura essenziale e il processo causale. La scienza è possesso delle cause generatrici di una realtà, è penetrazione del processo per cui le cose si generano e si svolgono. Natura deriva da nascor e cogliere la «natura» di un avvenimento significa seguirne il nascimento, «le guise del nascimento», il «quo modo fiat».
Ma non basta avere di queste cause una conoscenza astratta e meramente intellettuale: per convertirsi in verità la conoscenza delle cause deve essere sperimentata, vissuta, attuata dallo stesso soggetto conoscente. In tal modo la conoscenza del vero coincide col «mandarlo ad effetto», col realizzarlo: «verum ipsum fecisse». Può dire di conoscere quello che fa solo chi lo ha fatto. Il vero si converte col fatto, il fatto col vero: verum et factum convertuntur, verum est facere. Ed è per Vico assai significativo che nell’antica lingua italiana verum et factum erano espressi e compresi dalla stessa parola «verifica».
Ma questa scienza ideale, in cui si perviene ad un vero di evidenza oggettiva, non spetta solo a Dio? E che cosa può conoscere l’uomo?
Vico risponde distinguendo il facere divino da quello umano. Il facere divino è senza dubbio creativo: Deus intelligendo fit omnia (Dio crea ogni cosa attraverso l’intelletto), pone in essere realtà esistenti. Il conoscere divino è un intellegere, un «veder dentro» (intus legere) le cose interamente e senza residui.
Il facere dell’uomo può essere anche di natura intellettuale come quello del geometra, che è nel suo mondo uti Deus, dal momento che è l’autore dell’oggetto che studia. Perciò aritmetica e geometria danno luogo a verità certe, che noi conosciamo a fondo. Viceversa il fisico trova la cosa che studia già fatta, ed è costretto a studiarla dall’esterno, non avendone in sé la matrice. Può solo trasformarla, mutarla superficialmente. Il suo conoscere è un «raccogliere insieme» (cogitare, che deriva da coagitare). Vi sono però degli ambiti nei quali l’uomo è il protagonista incontrastato, e sono quelli di natura pratica, storica e poetica, sui quali insiste la Scienza Nuova.
Se il Vico esclude dall’interesse e dalle possibilità della filosofia la natura, pur senza negarne la realtà, dischiude alla conoscenza umana gli ampi orizzonti della storia. Nella conoscenza storica si realizza la conversione del vero col fatto, perché l’uomo è il soggetto della storia, l’artefice immediato degli eventi storici. Il mondo civile, ossia il mondo storico – sostiene Vico – «certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritrovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque rifletta, dee recar meraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiano di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini» (Scienza Nuova) Nello spirito umano vanno dunque ricercati la ragione e il ritmo stesso della storia.
In conclusione, nel verum ipsum factum Vico parte da un principio non ignoto ad Aristotele e riplasmato da Bacone: il conoscere autentico è conoscere per causas, nelle cause e attraverso le cause. Questo è soprattutto il conoscere di Dio.
C’è un analogo conoscere umano che si attua nella matematica e geometria, a cui il Vico della Scienza Nuova aggiunge la storia. Il fare degli uomini in quanto artefici di storia realizza una realtà che non preesisteva e che scaturisce dalle modificazioni della mente umana, ossia dagli atteggiamenti e dalle esigenze dello spirito umano. Il fare dell’uomo nella storia è l’operare pratico, da cui sorgono una serie di eventi e un tessuto di rapporti umani e sociali che hanno quella peculiare esistenza che spetta alla storia. Nella Scienza Nuova la scoperta dell’attività umana della storia implica la concezione della «metafisica della mente umana», i principi fondamentali della metodologia storica e conduce alla scoperta dell’attività provvidenziale di Dio.
LA FILOSOFIA DELLA STORIA
La metafisica della mente umana e le guisa della mente
La concezione della storia si fonda su principi filosofici e sulle leggi dello spirito umano e delle sue attività. La filosofia, nel suo sguardo universale sul reale, non può prescindere dalla storia senza perdere in ogni sua concezione elasticità di vedute ed ampiezza di orizzonti. Ma alla filosofia si chiede soltanto un concetto della storia, che tenga conto delle forze o fattori o agenti storici universali che agiscono nel corso della vita umana, delle leggi dello spirito umano, agente immediato, ma non unico della storia, del significato generale di questa in relazione ai fini stessi dell’umanità.
È questo il concetto vichiano di filosofia della storia come metafisica della mente umana: intuizione geniale che slargava l’oggetto della meditazione filosofica, essendo la storia ciò in cui tutto comincia e si svolge. La storia intesa non come serie di cose, di accidenti, di eventi, ma come successione di pensieri, giudizi, costumi umani: di tutto ciò la mente umana possiede gli elementi poiché di tutto ciò essa è l’immediata costruttrice.
La filosofia come metafisica della mente umana non considera l’uomo indebitamente isolato dall’umanità: la filosofia deve essere politica, nel senso che, studiando l’individuo deve averlo presente nella relazione concreta che esso ha con i suoi simili, non perdendo il contatto con la sapienza volgare, che è la sapienza dei popoli. Sia però chiaro che Vico, delineando la metafisica della mente umana, si richiama ad ogni passo alla metafisica nel senso più vasto e generale dell’espressione, all’esistenza della natura e di Dio, alla teologia sia naturale che positiva.
La Degnità LIII della Scienza Nuova seconda delinea uno schema fenomenologico che assurge a struttura del corso storico. «Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura». Su questa elementare struttura Vico costruisce il complesso edificio della Scienza Nuova: la concezione della poesia e della sapienza poetica, la teoria del corso che fanno le nazioni, procedendo sopra la divisione delle tre età, e del ricorso delle cose umane. Nella storia ideale eterna, sulla quale corrono nel tempo le storie delle nazioni, il corso e il ricorso sono concepiti secondo un ritmo triadico, che sembra preludere a quello della dialettica idealistica. Va detto subito che i momenti del corso non sono tra loro in rapporto di antitesi e di sintesi nel senso della successiva dialettica postkantiana. Certo, la fase culminante dell’umanità, che realizza il fine delle umane passioni divenute umane virtù e rappresenta la serenità della ragione, che controlla il senso e la fantasia senza sopprimerli, potrebbe essere concepita come sintesi, ma non come sintesi dialettica di opposti. Un’interpretazione del genere sarebbe più che altro l’applicazione e la proiezione di un abito dialettico, a noi familiare, dopo l’uso e l’abuso di Hegel e degli hegeliani, ma estraneo alla mente di Vico, nel quale potrebbe se mai riconoscersi il precursore della dialettica dei distinti, con la quale Croce volle correggere e integrare Hegel.
Ma, di là da ogni particolare precorrimento, l’importanza della concezione vichiana è nella tesi centrale, secondo la quale la storia, almeno sul versante umano, scaturisce dalle «modificazioni della mente umana», ossia dai momenti, dalle attività dello spirito umano, che è sensibilità, immaginazione, ragione. Il limite di questa intuizione è il suo irrigidirsi in uno schema e in artificiosa simmetria, croce e delizia dei mediocri interpreti del Vico.
Senso, fantasia e ragione logica («mente pura») sono i modi universali di atteggiarsi di fronte alla realtà per averne conoscenza, e si convertono in modi di agire corrispondenti, e cioè «ferinità» (stato della corruzione seguita al peccato: l’uomo si fa estraneo al suo simile nell’oblio di Dio), soggezione a una legge di forza e arbitrio, e infine libera osservanza dei dettami della ragione.
Nel primo grado l’anima è tutta senso, tutta impeto di disordinata passione e di torbida violenza: è lo stato di natura hobbesiano. Stato primitivo, questo, non in quanto cronologicamente anteriore, ma nel senso di originario, stato che le fasi ulteriori superano ma non annullano, perché è il fondo permanente della vita umana. Se nessuna forma di pensiero e nessuna società sono possibili nel disordinato tumulto del senso e delle passioni, nessun pensiero è possibile senza il senso, e nessuna società è possibile dove ogni passione sia spenta.
Nel secondo grado l’opacità della vita bestiale s’illumina quando il soggetto «avverte» la commozione che lo perturba e afferma se stesso, e s’esprime: nasce il linguaggio, la poesia e il mito. Analogamente nell’ordine pratico-sociale il passaggio agli «ordini civili» è segnato e determinato dal diritto, che originariamente s’impone con la forza.
Infine si giunge al terzo grado dello sviluppo della mente umana: quello della riflessione ragionata, dell’indagine filosofica. E quindi nell’ordine sociale si viene gradualmente formando la coscienza della subordinazione necessaria a una legge suprema che comprende deboli e forti.
Filosofia e filologia
La necessaria integrazione della filosofia con la filologia resta il principio fondamentale di ogni efficace metodologia storica. Il vero va prima di tutto accertato; ma il certo dev’essere inverato. Il fatto come tale, preso nella sua frammentaria esistenza, nel puntuale significato del suo singolo apparire non potrà mai costituire il tessuto sufficiente di una valida ricostruzione storica. Nel particolare, ricostruito con tutti i sussidi della filologia, bisogna ad un certo momento saper leggere l’universale, conoscere le linee dello sviluppo dell’umanità, il significato umano del fatto.
Che il Vico sia rimasto inferiore all’ideale intuito e vagheggiato è tutt’altro discorso e si spiega agevolmente se si tien conto della condizione dei tempi e del destino di ogni precursore, che si accinge ad un compito che solo le generazioni dei posteri potranno, oltre che attuare, intendere appieno. Si tratta, in ogni caso, di riflessioni che non menomano affatto la funzione storica e il valore intrinseco delle intuizioni del Vico. Le sue intuizioni più valide sono ricavate dalla storia intelligentemente interpretata a passata, per così dire, attraverso il filtro della legittima astrazione di una mente filosofica, capace di formulare principi di valore universale. La compenetrazione del certo e del vero resta un canone metodologico fondamentale per l’intelligenza della realtà storica. Chi rompe il circolo di questa vitale funzione e di questa logica compenetrazione non si renderà mai conto appieno della grandezza del Vico.
La storiografia che non tragga alimento dalla realtà storica, qual è indagata e accertata da tutte le scienze sussidiarie e dai vari mezzi d’indagine, che Vico compendia col nome di filologia, non può avere alcun fondamento scientifico. La filologia è dunque la ricostruzione, attraverso il reperimento di materiale documentario – linguaggi, istituzioni, eventi rilevanti – della storia umana e ha come scopo il certo.
La storia come scienza non ha nemici peggiori dell’arbitrio, della presunzione individuale e nazionale («boria delle nazioni»), dell’immaginazione incontrollata ed esuberante, ribelle ai freni dell’intelletto e alle cautele dello spirito critico. La storia si costruisce con «mente pura». Dall’altra parte, l’aridità intellettuale – o piuttosto intellettualistica – caratteristica della «boria dei dotti», che si rifiuta d’intendere le intenzioni del senso comune e il significato riposto presente nella sapienza poetica, perviene ad un’immagine scialba e unilaterale della realtà storica.
La distinzione tra scienza storica e filosofia della storia è netta. La scienza storica indaga gli eventi umani nel loro significato autentico e nelle loro ragioni e cause. Essa deve garantirsi della effettività di un determinato evento umano integralmente inteso. In tal senso può rivendicare il carattere di scienza in quanto non è semplice constatazione, ma ragione e perché. La filosofia della storia è l’indagine degli eventi umani nel loro significato autentico e nelle loro ragioni e cause ultime ed universali, le quali sono la mente umana, in sé considerata, e la Provvidenza di Dio.
Le tre età e la metodologia storica
Come abbiamo visto, studiare la storia è propriamente studiare l’animo umano nella sua evoluzione. Della storia la ragione e il perché è null’altro che la natura umana, la quale è l’universale e il necessario della storia. La storia la posso conoscere dal di dentro, perché il di dentro della storia è la mia stessa natura umana che mi costituisce uomo. Ogni evento, ogni età ha la sua propria ragione, che è la sua anima, che lo illumina e lo riempie di significato: e questa ragione è nella mentalità a lui intrinseca e dalla quale esso è scaturito.
Come sono tre le attività fondamentali dell’anima umana, così sono tre le età attraverso le quali passa necessariamente l’umanità nel suo svolgimento: l’età degli dei (caratterizzata dal predominio della facoltà sensitiva e passionale), l’età degli eroi (caratterizzata dal predominio delle facoltà fantastico-emotive), l’età degli uomini (caratterizzata dal predominio della ragione e della volontà). Si passa da un’età all’altra non per gradazione, ma per continuità. Il predominio di una facoltà sulle altre è intrinseco e qualitativo, in modo da dare la tonalità generale alle manifestazioni della mente, ma l’uomo è sempre tutto intero in ciascun momento.
La mentalità razionalistica, essendo astratta, è anacronistica; ad essa Vico oppone il principio della metodologia storiografica, secondo il quale ogni età va interpretata secondo la sua propria anima, altrimenti si incorre nell’errore funesto dei padri e degli educatori che premiano o puniscono i ragazzi secondo quello che per se stessi – e non per i ragazzi – costituirebbe merito o demerito. Rivoluzionata doveva pertanto risultare la soluzione del problema delle fonti, soprattutto per la conoscenza del più antico periodo della evoluzione storica: rivolgersi non agli storici di professione venuti secoli dopo i fatti narrati, ma a testimonianze sincrone degli eventi di cui costituiscono documentazione, espressione, conseguenza.
Tre sono quindi gli strumenti di primaria importanza nell’indagine storica: l’etimologia, la mitologia e l’intelligenza di alcuni antichissimi monumenti letterari. Esaminiamoli separatamente.
a) Etimologia: il linguaggio, nato fantastico, spontaneo, e non già logico e artificiale, conserva nelle radici un’impronta su cui si è potuto poi sviluppare l’ulteriore evoluzione: è quindi un documento prezioso.
b) Mitologia: gli uomini antichi, di fronte ai grandi avvenimenti della vita umana, non usavano la ragione logica; il processo astrattivo avveniva mediante la fantasia, foggiando così degli universali fantastici. Ad esempio, di fronte a diversi uomini che smuovono massi, uccidono belve, eccetera, io mi formo il concetto di «forza». La mente rozza dei primitivi trova, invece, più facile prendere uno di quegli uomini o crearsene uno ben definito nella immaginazione, come Ercole, e attribuirne il nome agli uomini di simile carattere. Per noi dire «quel tale è un Ercole», è un artificio retorico; per la mente primitiva non era un artificio, ma un parlare naturalissimo, spontaneo, anzi l’unico parlare di cui fossero capaci. L’immagine mitica diventa un personaggio vivente nella mente primitiva, perché ad esso vengono poi attribuite e con il suo nome espresse tutte le cose appropriate che si riferiscono ad un certo settore, come nel nostro caso alla forza. Quelli che vennero nelle età successive non capirono la veridicità dei miti, perché non ne intendevano più il senso, e li trattarono come invenzioni, insinuando in essi quel che loro suggeriva la malizia o la scostumatezza: i sensi oscuri dei miti sono posteriori alla loro genesi. Ancora più tardiva è l’interpretazione dei miti come allegorie filosofiche.
c) L’intelligenza di alcuni antichissimi monumenti letterari: Vico esamina soprattutto Omero e si può ben dire che è il fondatore della moderna critica omerica. Secondo Vico, Omero non è una persona fisica, né è dotato di altissima sapienza filosofica, ma è un «universale fantastico» esprimente il popolo greco in quanto cantava le sue storie. I poemi hanno origine collettiva e spontanea, e la loro inarrivabile bellezza sta proprio nell’essere opera naturale di menti essenzialmente fantastiche e quindi sublimemente poetiche. Un altro esempio, con riferimento alla storia romana, è costituito dalla legge delle XII Tavole, che costituiscono un caso particolare di un’ipotesi generale, e cioè la capacità spontanea di ciascun popolo di darsi quelle regole che disciplinano aspetti fondamentali della convivenza umana. È «boria delle nazioni» vantarsi di aver trovate per primi istituzioni estremamente necessarie a regolare la vita sociale e di averle comunicate agli altri. In ciò tutte le nazioni sono, in varia misura, istruite dal senso comune.
In conclusione, Vico è il fondatore della metodologia storica, anche se talora sbaglia per la precipitazione e l’assenza di specifiche competenze archeologiche e linguistiche – scienze non ancora nate nel suo secolo – nell’applicarne i principi.
Vico, un uomo di scarsa erudizione, con la sua genialità ha però compiuto scoperte che aprivano la strada ai progressi dei secoli successivi per la loro grande, feconda originalità di metodo.
L’evoluzione della civiltà
1- Le origini
Il punto di partenza della storia è l’uomo decaduto. L’umanità post-diluviana nello stato ferino, dispersa, è l’umanità dei bestioni. I bestioni, caduti nell’anarchia, nell’isolamento, nella selvatichezza, nell’oblio di Dio, sono tuttavia uomini anch’essi ed è quindi inclusa in essi la capacità di ogni umana evoluzione: differenza essenziale questa rispetto a ogni ipotesi materialistica che si rende assurda prescindendo dalla struttura metafisica dell’uomo. Ad Hobbes e ai materialisti di ogni tempo il Vico fa notare che se dal bestione venne la civiltà, non è perché ivi null’altro fosse che materia ed egoismo, ma perché vi era umanità – sia pure sfigurata – e Provvidenza.
Il bestione inizia il suo cammino verso l’umanità spiegata col primo riaccendersi nella mente e nel cuore della vibrazione religiosa. Ma per qual fatto succederà che le rozze menti acquistino la prima nozione di Dio? Il ritrovamento di questo «come» (mito del primo fulmine) gli è «costato la fatica di venti anni», confessa Vico. Il contenuto è il seguente: duecento anni dopo il diluvio la terra divenne abbastanza asciutta da ingenerare vapori secchi dai quali provengono i fulmini (!); così finalmente per la prima volta «tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi». I giganti dispersi alzarono atterriti gli occhi al cielo e videro come un gran corpo che, con i tuoni e i fulmini, significasse la propria volontà. Giove tonante e fulminante fu la prima nozione di divinità. Immaginandosi Giove e il cielo in tal maniera, capirne i voleri e intendere il significato dei cenni divini – variamente identificati – fu una delle prime forme religiose: la divinazione. I giganti di fronte a Giove, sentito e immaginato, provarono naturalmente pudore della loro sfacciata condotta. Incominciò in essi il conato per ordinare il loro istinto secondo il nuovo sentimento nato nel loro animo: dai concubiti ferini e instabili si passò al matrimonio monogamico, da cui nasce la famiglia. I tre principi dell’umanità furono infatti la divinazione, testimonianza rozzissima di una verità eterna, la Provvidenza; il matrimonio, testimonianza della necessità di fare della passione virtù; la sepoltura, richiamo all’immortalità dell’anima.
2- I corsi storici
I corsi storici hanno un ritmo triadico, come le tre attività fondamentali della mente umana e le tre età dell’umanità.
A) Le forme di convivenza umana.
a. Famiglia o «monarchia ciclopica»: il padre è sapiente, re e sacerdote. Vi è un’autorità assoluta, teocratica perché in veste sacrale. Vico non giudica aberranti i costumi dei padri, ma vi riconosce il segno delle prime grandi virtù umane. L’oro di questa età è il grano; con l’agricoltura nasce la proprietà. Le condizioni dei giganti empi, non atterriti dai fulmini, rimane bestiale ed è caratterizzata da lotte feroci, selvatichezza, insicurezza. I più deboli cercano rifugio presso i padri nelle famiglie dei giganti pii, di cui costituiscono i famoli, da cui si originerà la plebe delle città.
b. Repubblica aristocratica: è caratterizzata dalla lotta tra eroi e famoli, dal momento che gli eroi hanno tutto, mentre ai famoli non sono concesse le nozze, la famiglia, la proprietà e la religione. I famoli, accresciuti di numero e d’astuzia, insorsero contro i padri. Nacque così la lotta di classe. La prima conquista proletaria fu ottenuta costringendo i senati eroici a concedere la legge agraria, secondo cui i patrizi o eroi, ritenendo per sé il dominio pieno dei campi, ne concedevano l’usufrutto ai famoli. Quando noi esaltiamo gli eroi dell’antica Roma dimentichiamo che i Curzi, i Deci, i Fabrizi fecero di tutto per opprimere la plebe, tanto che non appena uno minacciava di volerla aiutare, subito da essi era spento come Manlio Capitolino e i Gracchi. Dal momento in cui i plebei strapparono ai patrizi anche il privilegio di fare le leggi, la repubblica aristocratica si trasformò in democrazia, o governo umano.
c.Democrazia significa uguaglianza di natura nei diritti civili, politici, economici; libera adesione della mente alla religione; le cariche non sono più in mano ad una sola classe, ma entro un più ampio ordine a cui si accedeva per industriosità e liberalità, espresse dal censo; fioriscono le arti, la filosofia, le scienze, l’eloquenza.
Ma all’apogeo segue la decadenza. La ragione si corrompe in sofistica, al giusto si sostituisce l’interesse individualistico, il particolarismo, il piacere ad ogni costo. È allora che ci si avvia verso il reggimento monarchico. Se questa dittatura interna non infrena l’anarchia, la Provvidenza tenta il richiamo mediante la soggezione allo straniero. L’ultimo rimedio costituisce il rintuzzamento della ragione maliziosa con un ritorno alle condizioni della spontaneità sensitiva e fantastica.
B) Le tre lingue.
Vico suppone che i bestioni avessero perduto, con ogni altra traccia di civiltà, anche la lingua.
a. Nello stato iniziale la lingua nacque per naturale bisogno: il primo linguaggio fu quello dei gesti.
b.Nell’età eroica al linguaggio dei gesti seguì quello dei simboli (segni indicanti ciò che si vuole esprimere) e poi quello articolato. Le prime voci sono onomatopeiche e monosillabiche, interiezioni, pronomi, e poi preposizioni, nomi e verbi. I nomi non hanno un significato concettuale, ma fantastico e metafisico. Poiché il linguaggio sorse in un momento passionale ed è proprio della passione mandar fuori suoni modulati (chi è agitato da amore, gioia o dolore si sfoga cantando), è certo che il canto e il verso vennero prima del linguaggio parlato e della prosa.
c. Nell’età della ragione il linguaggio diviene pienamente articolato e concettuale.
C) Le tre ragioni.
a. Ragione divina: è espressa dagli auruspici e ad essa l’uomo deve acquietarsi.
b. Ragione eroica o ragion di Stato, non machiavellica ma legittima, perché riguarda il bene della società identificato con l’utilità della classe dominante.
c. Ragione umana o naturale, portata ad attenersi alle ultime circostanze dei fatti e ai motivi intrinseci del giusto.
D) Le tre giurisprudenze.
a. Divina: giudica il giusto per autorità.
b. Eroica: fa cadere il fatto sotto il livello delle parole della legge (dura lex sed lex).
c. Umana: giudica il giusto dal significato, dallo spirito della legge.
E) I tre diritti.
a. Divino: tutto è creduto derivante da comando divino.
b. Eroico: la fortuna e la forza intese come espressione di volontà divina sono fonte di diritto.
c. Umano: il diritto è dettato dalla ragione tutta spiegata.
3- Corsi e ricorsi
Giunta l’evoluzione dell’umanità alla terza età, come potrà ulteriormente procedere? «Il greco – scrive il teologo Oscar Cullmann – non conosce altro tempo che il tempo ciclico, eternamente riveniente su se stesso in un circolo infinito. Perciò il pensatore greco non può non concepire che la salvezza possa e debba compiersi nel tempo. Per lui la salvezza significa sempre speranza di evasione dal quadro del ritorno eterno degli esseri e delle cose». Il «grande ritorno» dei pagani si esprimeva con due modalità: nella reincarnazione, o palingenesi spirituale dei teosofi, e nella metempsicosi, o migrazione anche in esseri di natura diversa. Anche in Polibio qualcosa della storia umana ritorna periodicamente: le forme di governo nelle loro logiche implicazioni. Campanella estende il circolo alla detenzione del primato di potenza fra le nazioni e alla vita delle religioni.
Per Vico il progresso dell’umanità è reso possibile o sviluppando lo stato di ragione spiegata o, se in questo stato la ragione si corrompe («barbarie della ragione»), rinnovando le proprie energie attraverso un provvidenziale ricorso per i momenti sensitivo, fantastico e razionale. Non ritornano gli eventi, ma la mentalità di cui saranno impregnati gli eventi, i quali rimangono intatti nella loro originalità, novità e contingenza più assoluta. Il ricorso del corso deve pensarsi come continuamente arricchentesi e crescente su se stesso. Il Vico parla di un solo ricorso: il Medioevo, o barbarie ritornata a causa dei barbari.
La storia ideale eterna, anche se postula i ricorsi, non esclude il progresso, checché ne dicano i critici superficiali. Da un lato il ricorso non è mai fatale, dall’altro non è mai puntuale. Se si parte dal mito del progresso in linea retta, o del progresso concepito comunque come incessante, continuo arricchimento, non se ne troverà nel Vico l’assertore e il campione. Ma un progresso c’è non solo nel corso, in quanto culmina nell’umanità che riflette con mente pura, ma attraverso i corsi e ricorsi insieme secondo un processo a spirale, perché il ricorso non ripete sic e simpliciter il passato, ma presenta con esso soltanto alcune analogie attraverso una maggiore complicazione di fatti e di eventi. Il termine perenne del progresso umano, di là della contingenza non pure di eventi particolari, ma dall’avvicendarsi dei corsi e ricorsi, resta pur sempre l’umanità, che riflette con mente pura e fa delle passioni umane virtù.
Dalla concezione di Vico scaturisce un monito di bruciante attualità: quando l’azione trae ispirazione e norma dalla ragione, dalla «mente pura», l’umanità e la storia attingono il loro più profondo significato; ma l’uomo, «esse, velle, posse finitum quod tendit ad infinitum (essere, volere, potere finito che tende all’infinito)», è limitato e debole; onde il rischio della involuzione, della barbarie ritornata, che scaturisce dalla dissolutezza e dal benessere eccessivo.
Il ricorso non spegne le strutture esteriori e con esse l’apparenza e l’illusione del progresso, tranne quando la barbarie si trasforma in guerra devastatrice. La barbarie della riflessione non solo è compatibile con il progresso tecnico-scientifico, ma lo presuppone e concorre a deviare verso un uso voluttuario ed egoistico le risorse della scienza, che dovrebbero favorire un mondo più giusto e più umano. Essa nasce dall’estensione della pseudo-cultura, della sofistica fuorviante, produce il disorientamento degli spiriti e la dissolutezza degli individui.
L’uomo, osserva Vico, costruisce la civiltà costruendo e sviluppando se stesso; ma il progresso in linea retta, continua e ascendente, senza interruzioni, è un mito caro all’ottimismo superficiale, un mito illusorio, una sorta di fatalismo che esonera dall’impegno personale. Il progresso non è una fatalità ineluttabile, ma una conquista che dev’essere rinnovata per l’impegno di concrete personalità umane, che attuano le esigenze e i valori dell’umanità più autentica.
PROVVIDENZA, RELIGIONE, MORALE
La Provvidenza
Come il cogitare dell’uomo nei confronti della natura non è l’intelligere di Dio, in cui è il «primum verum, quia Deus primus factor; infinitum, quia omnium factor (la verità prima, perché Dio è il primo fattore; infinito, perché è il fattore di ogni cosa)», così il fare dell’uomo non è un fare assoluto, neanche nella storia, in cui l’uomo è fabbro, mentre la Provvidenza divina è architetta del mondo delle nazioni, del mondo storico. La concezione dell’uomo è nel Vico indissociabile da quella di Dio e continuamente commisurata ad essa: Dio è «primum verum ad cuius veri normam vera humana metiri debemus (la verità prima, alla cui regola di verità dobbiamo commisurare le verità dell’uomo)».
Il Vico ribadisce: «Questo mondo senza dubbio è uscito da una mente spesso diversa e a volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari, che essi uomini s’avevan proposti; dei quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini più alti, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra». La divina mente legislatrice, la «mente eterna» che penetra tutto e presentisce tutto – come dice Vico con eccessiva precisione di linguaggio – non può essere evidentemente quella dell’uomo, che anche quando non sia attento esclusivamente alle private utilità, è pur sempre di raggio limitato e incapace di abbracciare il corso e il piano della storia e di piegare la selvaggia irrazionalità degli istinti di tutti gli individui a servire il disegno razionale della storia. La mente divina, senza di cui la Provvidenza non avrebbe senso, non si può confondere con uno spirito immanente e reale solamente negli individui umani, a cui non potrebbero essere presenti i fini ultimi della storia, o con una legge impersonale del processo dal finito all’infinito. La mente divina, di cui parla Vico, è prima di tutto mente eterna e infinita, non legge anonima che condiziona il processo dal finito all’infinito, ma è questo infinito medesimo, che può solo in quanto tale abbracciare e governare il finito, ed è – più che legge – legislatrice, che è cosa ben diversa.
Nulla rileva che il Vico ponga in risalto le vie naturali della Provvidenza, il che anzi è in perfetta sintonia col carattere filosofico della sua opera. La teologia del cristianesimo ha distinto le vie naturali da quelle soprannaturali, ma non ha mai asserito che queste escludessero quelle. «Gratia non tollit naturam sed perficit (La Grazia non elimina la natura, ma la perfeziona)»; così Tommaso condensò una dottrina che ha le sue prime fonti nella Scrittura. Nello stesso Agostino, il filosofo della grazia per antonomasia, vi è già il chiaro preludio dell’eterogenesi dei fini.
La trascendenza di Dio, che significa non estraneità, ma inconfondibilità della natura divina con quella dell’uomo, non esclude dall’altra parte la sua azione nella storia e nella coscienza stessa dell’uomo. «Gli uomini non sono soli a far la storia, perché chi, per mezzo di loro, conduce la storia ai suoi fini è Dio. Gli uomini sono strumenti della Provvidenza: ma ne sono strumenti sempre più consapevoli; e, in questo, vengono a partecipare sempre più coscientemente di quel fare le cose dall’interno che, alla sua origine, è un fare divino… Fa parte dell’ordine provvidenziale il fatto che gli uomini ne acquistino coscienza solo gradatamente: sicché la mente umana è ordinata in guisa da sviluppare via via, in forma sempre più esplicita, ciò che in origine possedeva solo implicitamente. Dunque, il senso della storia è un progressivo convergere della consapevolezza umana con il piano provvidenziale» (Vittorio Mathieu).
Lo studio del soprannaturale è oggetto della teologia positiva e non è senza limiti, perché non si possono penetrare a fondo i disegni di Dio. L’indagine intorno alle vie naturali della Provvidenza costituisce la teologia civile di Vico, che si collega strettamente con la metafisica della mente umana.
Se Vico studia in modo particolare e mette in evidenza le vie naturali della Provvidenza, giungendo quasi a fissarle in paradigma qual è la storia ideale eterna, ciò non vuol dire che egli disconosca le vie soprannaturali e la trascendenza di una «Mente, signora libera e assoluta della natura». Né c’è il minimo accenno al farsi di Dio nella storia, anzi le perfezioni in atto di Dio rendono possibile la storia e condizionano il conseguimento delle mete che il genere umano raggiunge nella storia. Se non ci fosse una Mente superiore e trascendente sarebbero impossibili l’eterogenesi dei fini, la civiltà, il progresso, il mondo stesso della storia nei corsi e nei ricorsi, onde ben a ragione Vico definisce la Scienza Nuova come teologia civile. Parlare di un Vico che arretra dinnanzi al panteismo implicito nelle sue convinzioni o nelle esigenze logiche del suo pensiero solo perché ligio al domma cattolico significa far violenza ai testi per un processo alle intenzioni quanto mai ipotetico.
Il senso comune delle nazioni risale anch’esso alla Provvidenza, ma non si confonde con lo stesso pensiero provvidente, come un’ipotesi immanentistica richiederebbe. «Idee uniformi nate appo interi popoli tra essi loro non conosciuti debbono avere un motivo comune di vero. Questa Degnità è un gran principio, che stabilisce il senso comune essere il gran criterio insegnato alle nazioni dalla provvedenza divina per diffinire il certo d’intorno al diritto natural delle genti» (Scienza Nuova Seconda, Degnità XIII). E più oltre nella stessa degnità si ribadisce che il diritto naturale delle genti non è «un diritto civile comunicato ad altri popoli per umano provvedimento», bensì «un diritto con essi costumi umani naturalmente alla divina provvedenza ordinato in tutte le nazioni». Il senso comune, da cui scaturisce il diritto naturale, è immanente al genere umano, ma è per così dire l’organo col quale agisce l’uomo nella storia, una Provvidenza divina e trascendente. L’azione della Provvidenza investe la struttura stessa della natura umana, creazione divina predisposta in guisa che le ragioni e, per così dire, le molle riposte nel corso storico fossero «dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana».
La religione
La tensione dell’uomo verso Dio è la condizione metafisica dello sviluppo storico. Poiché siffatta «tensione» si esprime come religione, la religione è condizione dell’umano incivilimento. Vico attribuisce la causa motrice del progresso a nessuna delle religioni, in quanto superstiziose, erronee e aberranti, e nello stesso tempo l’attribuisce a tutte, in quanto cercano, sia pure in modo inadeguato, di interpretare e di esprimere quella vera religione la cui essenza non consiste in altro che nella coscienza della propria indigenza e nel governo provvidenziale di Dio. «Non nelle false credenze sta l’efficacia civilizzatrice della religione, ma nella sostanza di verità che in quelle credenze è implicita: poiché soltanto la verità è l’educatrice dell’umanità, verità pur attinta attraverso mezzi inadeguati e in modo diverso da quello che può essere la consapevolezza critica della ragione» (Franco Amerio).
La religione è l’unica forza civilizzatrice perché solo la fede in Dio, nella sua volontà e nella sua potenza, è tale da fornire all’intelletto e alla volontà le direttive e le energie per emergere dall’anarchia delle facoltà e dominarle: essa è la condizione per la quale l’uomo acquista coscienza di sé e del suo destino, sollevandosi al di sopra della sua condizione. Tutte le altre forze, che concorrono per loro peculiari e insostituibili aspetti, sono strumenti di vero progresso solo se riconoscono la realtà religiosa della vita; diventano invece strumenti di illusorio progresso e di reale disumanizzazione quando si staccano da questo presupposto. Staccarsi dalla religione è rinnegare praticamente Dio; rinnegare Dio è ritornare ad essere l’uomo solo, l’uomo dell’anarchia ereditaria delle sue facoltà. La religione è la condizione storica e permanente dell’umanità e non è fondata sull’inganno e sulla finzione. La violenza infatti – afferma Vico – non è una condizione naturale: «le cose fuori dal loro stato naturale né vi si adagiano né vi si perdurano».
Il timore ha creato gli dei, si ripete con Lucrezio. Sì, risponde Vico, ma non il timore che alcuni suscitano negli altri per renderli schiavi, non un timore nato «da imposture altrui, ma per propria credulità» (Scienza Nuova Seconda, Degnità XL). L’initium sapientiae è ancora e sempre il timor Dei biblico. Il timore – certamente superstizioso dei bestioni – segna il momento psicologico in cui stimoli esterni si interiorizzano per suscitare il conato etico. L’origine della religione nello stato dei bestioni non è puramente umana, ma va ricondotta alla Provvidenza che agisce sempre rebus ipsis dictantibus, dalle cose stesse. Non sono accettabili le affermazioni sull’origine meramente soprannaturale della religione, come quelle che suppongono Dio irraggiungibile con la sola ragione naturale.
Se teniamo presenti le «virtù per sensi, mescolate di religione e di immanità», da cui venne il «costume di consegnare vittime umane agli dei» nella prima età, viene fatto di esclamare con Lucrezio: «Tantum religio potuit suadere malorum (la superstizione religiosa poté portare a così grandi mali)» e di domandarci con Plutarco: «Non era meglio non credere affatto negli dei piuttosto di venerarli così empiamente? Non era meglio non avere nessuna religione piuttosto che coltivare quel fanatismo di superstizione?». Vico risponde di no, perché anche la religione inumana costituisce una forza creatrice di grandezza. Per la ferocia di quei tempi occorreva il fascino del tremendo; l’eticità della credenza esercitò la sua azione catartica sugli uomini sia individualmente che collettivamente presi, per e malgrado il suo contenuto oggettivo. «Non possono gli uomini avere in nazione convenuto, se non saranno convenuti in un pensiero comune d’una qualche divinità».
Alcuni affermano che la religione esercita una indubbia funzione morale, ma ha valore solo per chi non è giunto all’età della ragione tutta spiegata. Polibio diceva che «se fossero al mondo dei filosofi non sarebbero necessarie le religioni». Per Vico la filosofia, legata allo sviluppo della piena ragione, sorge quando l’incivilimento è già verso il pieno sviluppo e pertanto non avrebbe potuto educare l’uomo quando questo era rozzo senso e passione. La religione, invece, è sempre presente col suo contenuto di verità anche sotto la scorza più rozza e più aberrante dei miti primitivi. Senza religione, dunque, non vi sarebbero al mondo filosofi.
L’evoluzione della coscienza religiosa, dopo il progresso da una teologia poetica a una teologia naturale, si è radicalmente trasformata in autentica rivoluzione spirituale con la teologia cristiana. Il cristianesimo «anco per fini umani» è la religione per eccellenza, ma la sua verità integrale è nel messaggio soprannaturale. E così mentre le false religioni svanivano col sorgere della filosofia, il cristianesimo trovava soltanto con lentezza – e sempre in maniera inadeguata – le vie per esprimere con il linguaggio della sapienza umana la traboccante verità del suo messaggio di vita. Da quando il Vangelo fu annunziato agli uomini, la filosofia non può svolgersi senza accoglierne un’eco, senza lasciar operare in sé il divino fermento.
La ragione, riscattata dall’anarchia dei sensi ad opera della religione ed acquistato il dominio su ciò che le compete, si inebria e crede di celebrare la sua autonomia servendosi dei suoi servi per liberarsi di quello che ora le sembra il giogo insopportabile della religione. È la degenerazione della ragione in una «barbarie raffinata».
L’etica
L’etica per Vico è strettamente connessa con la religione, che ne è la sorgente. L’etica si occupa «de animi perturbationibus carnum que remediis, de virtutibus atque inde profluentibus vitae officiis (delle passioni dell’animo e dei rimedi alle carni, delle virtù e dei doveri che ne derivano per la vita)».
L’uomo concreto che agisce nella storia è l’uomo caduto, in lotta con se stesso prima che con gli altri. Nel disordine delle sue facoltà sta l’origine della cupidità («allorché la volontà predomina la ragione»; «si genera dall’egoismo, ossia dall’amor di se stesso pel quale non guardiamo che al nostro utile»), dell’errore («ne viene se alla cupidità si presta la ragione»; «deriva da quella temerità di giudizio per cui ci facciamo a giudicare di qualche cosa innanzi di averla convenientemente conosciuta»), e della passione («procede dalla ferocia della natura corrotta» e «si ha quando la volontà viene a esercitarsi contro la ragione»; produce la schiavitù della ragione definita da Vico «turpitudine dell’animo corrotto»).
Ma l’uomo caduto, in quanto uomo, non può perdere del tutto ogni idea di Dio. «Da Dio procedono tutte le cose, e ciò che da lui non viene non esiste, da che a ciascuno vien fatto di discernere in ogni cosa il lume di Dio se non direttamente, almeno indirettamente». La forza naturale con cui ogni uomo non vuol essere ingannato e cerca il vero e l’ordine delle relazioni universali sono i legami della mente, anche corrotta, con l’Essere Assoluto. Di qui viene che nell’uomo non sono mai del tutto estinti i semi dell’eterno vero che combattono contro la natura corrotta. Questa forza del vero è la ragione; da essa emerge la virtù dianoetica, cioè di conoscere, che, vincendo l’errore, ispira e sorregge «la virtù etica, ossia d’azione, che dicono morale» con cui si raffrenano le cupidità e le passioni.
Dio fa sorgere tutte le virtù in maniera naturale e semplicissima, ossia per mezzo di quel pudore col quale punì il peccato d’origine. Il pudore, che Socrate diceva essere «il colorito della virtù», genera la coscienza dell’errore e del male, il timore di Dio, la fede della promessa, la verità nel discorrere, i principi del diritto naturale, la riverenza del senso comune. È insomma causa diretta o indiretta di tutte le fondamentali istituzioni sociali costruite su base etica. Così il pudore è «il conato dell’animo» in virtù del quale l’uomo tiene «imperio sulla mente e sul corpo». Il pudore e l’umanità (che «sta nell’affezione dell’uomo di giovare il simile») rendono l’uomo libero creatore di bene.
Ma l’unica morale capace di far sì che l’uomo conosca il male alla radice e lo combatta eroicamente in umiltà è quella cristiana: le altre sono senza verità perché senza speranza o malate di orgoglio. «L’eroe dei filosofi non è che una congettura fatta da sublimi ingegni intorno all’uomo integro». La virtù ha poi una tale bellezza che – notava Platone – se mai fosse data mirarla cogli occhi del corpo «tutti ne sarebbero accesi di cocentissimo amore».
Il fine della virtù non è l’insegnarci a seguire quelle cose che recano maggior piacere e minor dolore, come pensava Epicuro, il quale pure dovette confessare che la valutazione e la scelta di ciò che può addolorarci o no è della mente e non dei sensi, e che «la filosofia è opera di ben altra cosa che del corpo e del vacuo e che essa non è neanche modificazione del vacuo né del corpo». Il fine della virtù è di renderci agevole «il contemplare l’eterno vero con mente pura».
L’ESTETICA E IL DIRITTO
L’estetica
Vico è il fondatore dell’estetica moderna, avendo individuato per primo il carattere fantastico dell’opera d’arte, in un’età in cui questa era giustificata per il suo contenuto di verità o di moralità («il ver condito in molli versi») e, in assenza di questo contenuto, in gioco o passatempo. «Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura. Questa degnità è il principio delle sentenze poetiche che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenze delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocinii».
La locuzione poetica è nata per necessità di natura prima della prosaica. L’origine del linguaggio è spontanea e fantastica e pertanto è implicitamente soppressa la dualità di poesia e linguaggio. La poesia non è nata per mero capriccio, non è qualcosa di superfluo, ma è scaturita dalla necessità di natura, dal bisogno di esprimere sentimenti. Dove c’è riflessione invece non c’è poesia.
Che cosa ne è allora dell’arte nell’epoca degli addottrinati? Anche nell’epoca umana c’è poesia, perché poeti si nasce, anche se nella terza età è più difficile esplicare le native attitudini alla creazione estetica. In questa fase vi è maggiore consapevolezza nell’artista, ma l’arte come espressione lirica è eternamente viva come attività dello spirito. Caratteristica della poesia è la creatività, mediante la quale dà senso e passione alle cose insensate: questa proprietà dei fanciulli è il più sublime lavoro della poesia.
«Questa degnità filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura furono sublimi poeti». «Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e conoscendole crea le cose; i primi uomini, come fanciulli del nascente genere umano, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza di una corpulentissima fantasia, con una maravigliosa sublimità. Tal e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi che fingendo le si creavano, onde furon detti poeti, che lo stesso in greco suona che criatori». «Come la metafisica ragionata insegna che homo intelligendo fit omnia così questa metafisica fantastica dimostra che homo non intelligendo fit omnia» con la fantasia.
E ciò che la poesia crea è un universale concreto mediante la fantasia, come Vico dimostra nell’interpretazione del mito; il mondo fantastico nasce dunque come mondo vero e una nota esemplificazione dei principi estetici vichiani si ha con la critica omerica. «Il parlare nasce, come poesia, anteriormente ad ogni convenzione (perché il convenire è proprio solo della successiva fase concettuale); ma, pur come linguaggio poetico, può immediatamente dar luogo a concetti, e quindi a significati convenzionali: perché la poesia non è pura immagine, ma è rivelativa dell’essere; è già tutta la verità, che si sta esplicando, sebbene in forma ancora preconcettuale. Dunque il significato universale (che contraddistingue la parola) non ha bisogno di aggiungersi alla poesia dall’esterno, per opera del concetto: esso nasce all’interno della poesia, come universale fantastico da cui il concetto deriva» (Vittorio Mathieu).
Vico ha coscienza di aver battuto vie nuove: «per tutte le finora qui ragionate cose, si rovescia tutto ciò che dell’origine della poesia si è detto da Platone infin ai nostri Patrizi ecc.». Croce ha tradotto la logica poetica di Vico nella prima forma dello spirito, ma la fantasia di Vico non è quella crociana: non prescinde dal vero, ma lo implica e lo rivela, sebbene il suo vero non sia quello della certezza critica, avendo una forma prelogica, ma non per questo trascurabile e rinnegabile.
Diritto naturale e diritto storico
Il Vico, secondo Benedetto Croce, concede l’esistenza di un diritto naturale sovrastorico per indulgere alla tradizione, ma se ne libera passando a negargli di fatto il carattere sovrastorico e collocandolo nella storia. Vico, invece, parla con ampiezza e chiarezza del diritto naturale nei suoi rapporti con il diritto storico.
Figlio eterno del vero, sanzione e quasi voce del diritto divino (secondo la concezione agostiniana), fondato sulla necessità delle cose in base al loro ordine eterno, il diritto naturale è immutabile. La fonte del diritto naturale sta nel volere divino, dal quale ha pure origine la nostra mente.
Vico confuta vigorosamente gli empiristi, che negavano il diritto naturale, lasciandosi fuorviare da inesatte considerazioni sui costumi delle genti e i sistemi di diritto naturale di Ugo Grozio, John Selden, Samuel von Pufendorf, che finiscono col concepire un diritto naturale esistente sempre e per se stesso, come un tutto ideale.
Contro i primi Vico fa valere essenzialmente due considerazioni. «Perché siccome le false persuasioni del volgo, che stima il diametro solare di due piedi, le stelle lumicini, nulla tolgono alla ingente grandezza degli astri dimostrata con invitti argomenti dalla astronomia, così nulla cangiano del diritto di natura, basato sopra l’eterna ragione, o le perturbazioni degli animi o gli assurdi costumi delle genti barbare. Se tal fiata sembra mutarsi, allora non il diritto, ma i fatti mutano», più o meno ispirandosi o allontanandosi dalla norma quale balza dall’ordine del reale per i viventi nella terza età del mondo civile.
Il diritto naturale è attestato inconfutabilmente dal fatto che tutti i popoli svolgono in modo autonomo, in circostanze proprie, il proprio diritto; ma tal diritto è l’aprirsi e lo svilupparsi degli stessi semi eterni, deposti dalla Provvidenza nella coscienza di ciascun popolo, in modo uniforme.
Si capisce dunque perché il diritto naturale delle genti non fu ordinato con leggi, ma gradualmente si manifestò attraverso la progressiva umanizzazione dei costumi, di cui era a un tempo causa ed effetto. È una menzogna creata dalla boria delle nazioni il credere che il diritto naturale sia stato scoperto da una nazione e comunicato alle altre.
L’errore di Ugo Grozio, John Selden e Samuel von Puferdof consiste, invece, nell’aver creduto che «l’equità naturale nella sua idea ottima fusse stata intesa dalle nazioni fin dai loro primi incominciamenti». Essi hanno dimenticato che, come Aristotele ci riferisce, le antiche repubbliche non avevano leggi per punire l’offensore e riparare ai torti privati e che «per lunga corsa di secoli le nazioni avevano a vivere incapaci del vero e dell’equità naturale», attenendosi ad un presentimento della ragione sostenuta unicamente dall’autorità.
Il diritto si realizza nella storia secondo il ritmo triadico proprio della concezione vichiana: prima si ha il diritto divino (tutto è creduto derivante da comando divino), a cui segue quello eroico (la fortuna e la forza intese come espressione di volontà divina sono fonte di diritto), mentre nell’età della ragione si esplica il diritto umano, per cui il diritto è dettato dalla ragione tutta spiegata.
INTERPRETAZIONI E SIGNIFICATO DELLA FILOSOFIA VICHIANA
L’interpretazione positivistica e idealistica
Secondo Pietro Siciliano (Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia, Barbera, Firenze 1871) e Pio Viazzi (Introduzione alla prima Scienza Nuova, Sonzogno, Milano 1902) Vico fu un precursore del metodo positivo dell’indagine dei fatti umani, nella fondazione della sociologia (pur nell’assenza di adatti strumenti di ricerca), e nell’aver accentuato l’agnosticismo, il relativismo giuridico, l’evoluzionismo storico, l’assenza delle cause finali nell’evoluzione, tutti presupposti dottrinali del positivismo. Molti punti particolari della Scienza Nuova sono da spiegarsi nel senso delle dottrine positivistiche, quali la ferinità dei primitivi, l’origine inconscia del linguaggio come onomatopea, la poesia rivelatrice della psiche sociale, le origini della religione.
In realtà l’interpretazione positivistica mutila Vico della filosofia, della metafisica e della gnoseologia, e così può deformare a suo agio la Scienza Nuova e le tesi in essa contenute. In tal modo si può attribuire a Vico un concetto lucreziano della religione (laddove il mito religioso vale non perché fantasia umana, ma perché nasconde ed esprime rozzamente una verità divina), un concetto utilitaristico di progresso (mentre per il Vico l’utile è stimolo e non causa d’incivilimento) e tutto quel che si vuole.
Sul versante della filosofia idealistica, Friedrich Heinrich Jacobi nel 1811 afferma che nell’ipsum verum factum non vi è la limitazione della verità al fatto bruto, ma il primo annuncio dell’identità di conoscere e produrre, della sintesi a priori kantiana e della sintesi creatrice postkantiana.
Per Bertrando Spaventa «Vico è il vero precursore di tutta l’Alemagna». L’attività della mente divina è immanente a quella umana. Tra Campanella e Vico c’è un vuoto, come tra Vico e Galluppi: la causa va ricercata nella Chiesa cattolica, ostacolo al progresso del sapere. Vico continua il panteismo bruno-spizoniano.
Giovanni Gentile aderisce alla tesi dello Spaventa. «Se la mente umana non fosse la stessa mente divina gli uomini sarebbero le marionette messe in movimento dalla Provvidenza, anziché gli autori di questo mondo delle nazioni. E si tornerebbe a smarrire il filo che il Vico ha realmente scoperto, della intelligibilità della Storia». Ritiene invece inadeguata la causa addotta dallo Spaventa a spiegazione dei pretesi «salti» e «vuoti» esistenti nella filosofia italiana.
Benedetto Croce, che ha scritto la classica monografia La filosofia di Giovanbattista Vico (Laterza, Bari 1911), come lo Spaventa afferma: «Coloro che mettono innanzi l’Antiquissima Italorum Sapientia e vedono in essa la chiave metafisica della Scienza Nuova rassomigliano un poco a quei letterati, che vogliono comprendere un dramma di Shakespeare con l’arte poetica di Orazio alla mano». Per Croce la metafisica esposta dal Vico con la sua prima gnoseologia, rimane «senza possibile congiungimento con la Scienza Nuova che procede con metodo sicuro di verità e prescinde affatto dalla Rivelazione». Tuttavia – aggiunge Croce – Vico non rifiutò mai questa metafisica e volle restare cristiano e cattolico: ciò gli impedì di «raggiungere l’unità del reale» ed «anche la conoscenza veramente completa di quel mondo umano che egli aveva così potentemente con opposto principio rischiarato». Per lo stesso motivo Vico ignorò il concetto di progresso e della storia come dramma che ha in sé la sua ragione d’essere. «Il Vico all’affacciarsi di questa visione si ferma ostinato, e il filosofo è sostituito in lui dal cattolico».
Secondo Pantaleo Carabellese, Vico conclude il Rinascimento italiano col portarne il motivo speculativo ad animare quella storia delle nazioni che, già nata con la filosofia del Machiavelli, verrà a costituire il motivo ideale del nostro Risorgimento, e così tramezza l’uno e l’altro movimento culturale, formandone il punto di innesto. La metafisica vichiana scopre «l’immanenza dell’essere assoluto al cogito», e pertanto è idealismo ontologico, immanenza dell’Oggetto o Assoluto a tutti i soggetti.
L’interpretazione idealistica è stata agilmente confutata da Emilio Chiocchetti (1935) da parte cattolica. Da Spaventa a Croce si è voluto capire e valutare non Vico con Vico, ma Vico attraverso un’arbitraria selezione delle sue opere e con gli occhi della filosofia tedesca; invece non vi sono due Vico, ma uno solo. Inoltre vi è evoluzione e approfondimento, non frattura nelle sue opere. Si fa presto a battezzare «residui» tutte le dottrine che non s’accordano col tipo di dottrina filosofica che si ha nell’animo bell’è formata e che si vuole prestare a un autore.
«La Scienza Nuova è il capolavoro in cui il Vico non si rinnega in nessuna parte, ma si ritrova e si potenzia integralmente» (Franco Amerio). In questo senso va intesa l’affermazione vichiana di desiderare che di tutte le sue opere rimanesse la sola Scienza Nuova. Le pretese origini italiane della filosofia germanica sarebbero puramente ideali, perché quella filosofia si costituì e si sviluppò ignorando Vico.
Significato della filosofia vichiana
Vico si oppose agli inizi di quell’indirizzo di pensiero, il cui figlio legittimo e frutto più maturo doveva essere l’immanentismo idealistico. Come Rosmini poi per Kant, così Vico nei confronti di Cartesio sviluppa una critica acuta, originale e costruttiva nella linea della tradizione filosofica italiana. Ha restaurato l’uomo nella sua concretezza della sua umanità, salvandolo dalle pretenziose diffidenze e mutilazioni cartesiane, restituendolo al dominio intero della sua razionalità, riscoprendone l’attivismo interiore gnoseologico, etico, religioso, politico.
Come Agostino ci dette una teologia della storia, permeata di razionalità, così Vico ci ha dato per primo una filosofia della storia, che ha perfettamente inteso il valore basilare delle grandi linee della visione cristiana del mondo agli effetti della salvezza dell’umanità e della filosofia stessa.
«Con la Scienza Nuova il Vico pone, agli inizi del Settecento, i fondamenti di una nuova filosofia istorica, estetica, linguistica, giuridica: insomma, di tutto un nuovo modo di concepire il rapporto tra la verità e il divenire» (Vittorio Mathieu).
Vico non era storicista, a meno che questo termine non si usi nel significato generico ed improprio che designa chiunque si occupi della storia ed attribuisca ad essa un valore. Ma questo non è il significato filosofico dell’espressione. Lo storicismo è una Weltanschauung, secondo la quale la realtà è storia e non c’è altra realtà al di fuori dello spirito che storicamente si svolge, concezione quanto mai estranea alla mente del Vico, per il quale al di là della storia c’è Dio e al di qua di essa c’è la natura, che l’uomo non conosce per cause. Dio «naturae artifex» agisce nella storia, ma non si risolve in essa, come l’architetto trascende la costruzione che ha disegnato e che altri esegue.
Il pensiero del Vico s’inquadra, con un’originalità tutta particolare, nel pensiero filosofico ispirato al cristianesimo: gli echi platonici e le derivazioni agostiniane sono facilmente riconoscibili. In particolare la teologia civile delle nazioni si può ricondurre, pur non essendone esplicitamente preannunziata, alla concezione agostiniana della Provvidenza, che sa trarre dal male il bene.
Le fonti umanistiche e rinascimentali sono anch’esse riecheggiate frequentemente nella sintesi vichiana, senz’avere l’importanza e l’efficacia determinante che qualche studioso ha voluto ravvisarvi. La cultura in senso lato umanistica del Vico è tra le premesse storiche del suo pensiero, ma questo conserva un’originalità irriducibile.
Uomo del suo tempo, Vico conobbe i maggiori pensatori contemporanei, Locke e Leibniz, di cui valutò criticamente la dottrina, nonché Bacone e Cartesio che avevano, per diverse vie, inaugurato la filosofia moderna.
Se la solitudine del Vico è un luogo comune che va preso cum grano salis, dall’altro canto non si può negare che il suo pensiero non fece scuola, nel senso che non svolse un’influenza immediata apprezzabile. Il pensiero europeo, quando Vico morì, si svolgeva già secondo altre direzioni, che si riassunsero nell’Illuminismo.
Infine si può considerare non perfettamente riuscito il rapporto tra l’uomo e Dio nella storia ed osservare al Vico che se la storia non è fatta tutta dall’uomo, evidentemente non è conosciuta integralmente da lui, secondo l’esigenza implicita nel postulato «verum, ipsum fecisse». Ma è certo tuttavia che la concezione vichiana è pregante di alto significato là dove suggerisce l’opera della Provvidenza attraverso il senso comune delle nazioni, che costituisce una delle strutture più importanti della storia, e soprattutto là dove addita l’azione conservatrice e orientatrice della Provvidenza stessa, che neutralizza l’efficacia distruttiva delle passioni umane, in contrasto fra loro e smarrite dietro fini particolari e unilaterali, e fa sorgere attraverso la filosofia e la giurisprudenza dalle umane passioni le umane virtù, da cui trae forza di coesione la vita sociale. L’idea di un’educazione divina dell’umanità, che fu divulgata nella cultura occidentale da Johann Gottfried Herder e da Gotthold Ephraim Lessing, era già chiaramente implicita nella concezione di Vico.
NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.