MARCHENO, VIA ALENO 21
QUI ABITAVA
GIUSEPPE MASSIMO CONTESSA
NATO 1917
ARRESTATO COME POLITICO IL 10.12.1944
DEPORTATO A MAUTHAUSEN
ASSASSINATO IL 20.3.1945 A GUSEN
La sera del 10 dicembre 1944 Domenico Contessa irruppe improvvisamente in casa. Arrivava dalla montagna. Era stanco, infreddolito e affamato. Dopo che la matrigna, Maria Ghisla, l’ebbe rifocillato, egli si rifugiò con Francesco, il fratellino di soli 12 anni, nel fienile, per potersi finalmente riposare. Da lì sarebbe stato più̀ facile accedere a una via di fuga, in caso di pericolo.
Erano certamente mesi complicati per Domenico, che nel luglio di quello stesso anno si era aggregato a uno dei gruppi partigiani da cui sorse in segui- to la 122a Brigata Garibaldi, dislocata principalmente nei dintorni del monte Guglielmo e nell’alta Valtrompia, tra la Pezzeda e la Corna Blacca.
Però Domenico mai era stato esposto a tanti pericoli quanto nelle ultime due settimane, durante le quali i nazifascisti avevano intensificato e aumentato i rastrellamenti in Valle. Domenico, insomma, non poteva sentirsi al sicuro neppure nella casa di famiglia ad Aleno, frazione di Marcheno nota come la “contrada del ribelle” e la “piccola Russia”, vista la presenza di numerosi ex-soldati sovietici, che partecipavano alla lotta di Liberazione. Molti partigiani erano stati deportati, altri torturati e uccisi, ma quelli che sopravvivevano non si arrendevano e resistevano strenuamente. Il clima era quello di una feroce caccia all’uomo, che non risparmiava atrocità̀. Domenico cercava di opporsi a quella violenza diffusa: per esempio, quando una spia dei tedeschi venne catturata e rinchiusa in un porcile, si rifiutò di giustiziarla perché dichiarò che non voleva ridursi ad agire con le stesse, ripugnanti maniere del nemico.
Per quanto riguarda Francesco, questi, nonostante la giovane età, aiutava come poteva: alla vigilia della Commemorazione dei Defunti del ‘44, aveva rischiato la vita per salvare due partigiani che erano stati arrestati a Collio, erano stati crudelmente torturati, ma erano poi riusciti a fuggire. Li aveva incontrati mentre portava del cibo al fratello Domenico e aveva capito che i tedeschi che li inseguivano li avrebbero presto raggiunti: per questo non esitò a trascinarli nell’ossario del cimitero per nasconderli. I due si salvarono grazie alla sua prontezza di spirito, nonostante i cani delle SS fossero sulle loro tracce. Tuttavia, Domenico, che aveva assistito da lontano alla scena, non mostrò soddisfazione per tale eroica impresa: da buon fratello maggio- re rimproverò duramente Francesco, il quale, esponendosi al rischio, aveva messo in pericolo sé stesso e il gruppo partigiano. Non che la famiglia Contessa, a causa del profondo disprezzo per l’ideologia fascista, non corresse già tanti rischi!
Si pensi al maggiore dei fratelli, Bepi, che si era esposto in coraggiose azioni di volantinaggio in Beretta, la fabbrica dove lavorava, e che nel novembre del ’44 si era unito alla 122a Brigata Garibaldi. Del resto, già il padre dei fratelli Contessa, Giacomo, aveva dato prova di grande coraggio e forza d’animo quando in seminario, dove studiava, era stato colpito duramente e ferito alla testa per aver protetto i più giovani da coloro che li volevano arruolare forzatamente. Interrotti gli studi in semina- rio, sposò Letizia Milesi, con la quale ebbe tre figli: Giuseppe (1917), detto Bepi, Lina (1918) e Domenico (1921). Rimasto vedovo, si risposò con Maria Ghisla, e da questo secondo matrimonio nacquero altri quattro figli: Letizia (1925), Massimo (1927), Francesco (1932) e Benito (1934). Due anni dopo la nascita dell’ultimogenito, contrasse un’infezione, lavorando nei campi, a quella stessa ferita riportata in seminario e nel giro di pochi giorni morì per setticemia.
Che cosa avrebbe pensato Giacomo se avesse saputo che Domenico e Giuseppe, i suoi ragazzi, l’avrebbero raggiunto in breve tempo? Che sua moglie, Maria, nel disperato tentativo di difendere i figli, sarebbe stata brutalmente picchiata? Come avrebbe reagito venendo a sapere che Domenico sarebbe stato oggetto di violenza poiché cercava di soccorrere la madre, mentre Bepi, che arrivava per portare aiuto dalla casa dello zio Luigi Zerlotin, chiamato familiarmente Bruno, veniva arrestato insieme al fratello?
E ancora, che cosa avrebbe detto Giacomo se avesse saputo che Luigi Bruno Zerlotin, suo cognato, si sarebbe immolato, condividendo il triste destino dei due giovani, dopo aver udito che, se non si fosse costituito, le SS avrebbero ucciso immediatamente sia Domenico che Bepi? Bruno, nato a Castagnaro (Verona) l’11 ottobre 1919, ma residente a Marcheno, insegnante elementare, era stato inviato a Tripoli come ufficiale dell’esercito e da lì, dopo l’8 settembre del ‘43, si era rifugiato in Valtrompia, dove si era unito alle squadre partigiane, e ora si consegnava volontariamente alle SS con un ultimo gesto di generosa lealtà.
Tutti gli episodi ricordati potrebbero sembrare la prova di un fallimento, ma certo nulla di quanto narrato è accaduto inutilmente, perchè ogni grido, ogni morte, ogni sacrificio che, preso in sé, risulta vano, sommato a tutte le altre grida, a tutte le altre morti, a tutti gli altri sacrifici, è stato necessario per la Liberazione, concorrendo al bene di ciascuno di noi.
La fatidica notte del 10 dicembre 1944, quando i nazifascisti irruppero nel fienile, Francesco si svegliò di colpo. Il chiarore della luna aveva reso possi- bile la retata, probabilmente favorita da una delazione, e ora gli consentiva di vedere tutto con nitidezza. Nel giro di due ore, Domenico prima, Bepi poi, Bruno infine, furono arrestati in quanto oppositori politici. I tre furono tradotti nella caserma di Gardone Valtrompia e poi nel carcere di Canton Mombello di Brescia. Il 27 gennaio 1945, su ordine delle SS, furono trasferiti nelle cosiddette “celle nere” del campo di Bolzano-Gries, dove efferati omicidi e terribili torture erano prassi quotidiana.
Il 1° febbraio 1945, con il convoglio 119, i tre furono deportati a Mauthausen, dove giunsero il 4 febbraio. Giuseppe venne trasferito al sottocampo di Gusen il 16 febbraio, Domenico e Bruno lo raggiunsero il 17.
Nel lager nazista Giuseppe muore il 20 marzo 1945 di polmonite, Domenico il 2 aprile per insufficienza miocardica e infiammazione all’intestino crasso e Bruno il 24 dello stesso mese per insufficienza miocardica, sepsi e catarro del colon. Così sono riportate, nei registri del campo, le cause ufficiali dei decessi, ma sappiamo bene che le cause vere per cui si moriva nei lager erano il freddo, l’inedia, il lavoro forzato, la violenza.
A cura degli studenti della classe 5a B del Liceo Moretti – I.I.S. Beretta di Gardone Valtrompia, coordinati dalla prof.ssa Giordana Sala. Si ringraziano il sig. Francesco Contessa, fratello di Giuseppe e Domenico, per la sua testimonianza, fonte principale del nostro lavoro, la prof.ssa Donatella Contessa, il prof. Franco Ceretti, il sig. Bruno Doloni, la sig.ra Elesia Pozzi, il sig. Ezio Rambaldini.