I racconti della Genesi hanno un valore archetipico e l’insegnamento che più riluce in essi è propriamente sovrastorico: quello che è detto di Abramo «non è soltanto per lui, ma anche per noi» (Rm 4, 23-24). Delle storie del patriarca si dà, infatti, una polifonia di significati e di forme di ascolto, essendo a noi trasmesse in testi di grande rilevanza spirituale. Abramo ci viene incontro, a distanza di secoli e millenni, perché la sua vicenda è fonte di ispirazione per l’oggi e per il futuro. Il patriarca – al cui nome si richiamano ebrei, cristiani e musulmani – è l’amico di Dio (Is 41, 8; Dn 3, 35; Gc 2, 23) e ciò che riguarda lui attiene sia al mistero e all’agire di Dio, sia alla fede e all’esistenza dei credenti. La riflessione di Giovanni Bazoli nel primo dei due scritti raccolti in questo libro si concentra su un racconto che è tra i più belli della Bibbia: Genesi 18, 20-33. Il modo di procedere è incalzante e il commento pone al centro, sempre di nuovo, la ragione dell’ardito intercedere di Abramo presso Dio, una volta che fu predetta la distruzione di Sodoma: la depravazione spinta fino al parossismo e i delitti di molti possono autorizzare la violenza indiscriminata contro un’intera città? E facendo perire il giusto con l’empio, non è forse vero che il giusto è trattato come l’empio? Abramo con la sua richiesta di giustizia e di misericordia apre un orizzonte nuovo nella vita morale e religiosa del genere umano, ci rivela qualcosa di sublime sul mistero di Dio e sulla dignità del singolo di fronte all’Eterno. Per la prima volta con Abramo si comprende che in Dio non c’è violenza e qui la via di Jahvé appare un luminoso preludio al Vangelo. In realtà la nuova economia della salvezza sarà possibile quando sarà definitivamente separata dalla rappresentazione di Dio la violenza. Dio è amore, agápe (I Gv 4, 8), e il suo amore è una sola cosa con l’amore ch’egli riversa nei nostri cuori. In uno degli scritti che appartiene alla prima metà del II secolo, e dunque alle sorgenti dell’esistenza cristiana, l’ A Diogneto, l’ignoto autore celebra la «inesauribile benevolenza di Dio per gli uomini», con un’affermazione molto precisa: «In Dio non c’è violenza / bía gàr ou prósesti tô theô» (VII, 4). Tutto, però, cominciò con Abramo. A lui Dio insegnò, attraverso la prova più difficile, a distinguere la purezza del religioso dal demoniaco che si cela nella violenza sacrificale e nella ricerca del capro espiatorio. La voce che proibì ad Abramo di versare il sangue del figlio Isacco e la perorazione che Abramo fece davanti a Dio della causa dei «giusti» segnano, con la loro forza di demistificazione, una grande rivoluzione culturale, secondo René Girard «la più grande». Il brano della Genesi preso in esame pone una questione cruciale, che non è solo religiosa e teologica ma investe anche l’ordine etico e giuridico: come punire una comunità colpevole risparmiando gli innocenti? Da quella prima domanda ne nascono altre, non meno inquietanti e ineludibili. Ad esempio, si può veramente pensare che alla violenza programmatica, cioè alla guerra con gli orrori che essa genera, possa essere affidato il compito di ristabilire il diritto? E ancora: fino a che punto è lecito, soprattutto in un regime dittatoriale, parlare di «solidarietà nella colpa» e di «responsabilità collettiva» per un intero popolo? La riflessione sulla guerra e sulla pace ha toccato nell’Occidente europeo vette altissime con sant’Agostino, Erasmo, Kant e Bergson.
Kant e Bergson, è bene ricordarlo, sono stati i due filosofi che hanno difeso con più vigore l’idea di un’organizzazione mondiale per garantire la pace tra gli Stati. La lezione di quei grandi deve ancora dare i suoi frutti, essendo noi all’inizio di un difficile cammino, e tuttavia la loro linea di pensiero sembra abbia avuto un’eco nell’articolo 11 della Costituzione italiana. «Non è fuori luogo ricordare – osserva Bazoli – che la nostra Costituzione, redatta all’indomani di un conflitto mondiale che aveva provocato un numero sterminato di vittime innocenti, ha voluto ripudiare la guerra, non solo come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli, ma anche come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Anche se durante i lavori dell’Assemblea Costituente la concordia dovuta alle necessità della lotta comune contro il nazifascismo stava venendo meno, tuttavia il tempo delle grandi solidarietà di fronte alla morte e al terrore era troppo vicino perché in qualche misura quegli uomini non riuscissero ancora ad intendersi.
Nel secondo scritto Bazoli ci dà la sua lettura della parabola degli operai chiamati all’ultima ora. Il punto chiave del brano evangelico, che si trova solo in Matteo, è il momento finale in cui il padrone della vigna dà la stessa paga a tutti gli operai, nonostante la diversa durata del loro lavoro. Con felice intuito Bazoli cerca all’interno della parabola la chiave per la sua spiegazione e la trova precisamente in quel passaggio del racconto in cui si dice che il padrone della vigna si rivolge agli ultimi operai, per chiamarli al lavoro: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». Ed essi rispondono: « Quia nemo nos conduxit», perché nessuno ci ha chiamati. Con questa parabola il Signore ha dunque voluto sottolineare l’esistenza di una disparità di risorse e di occasioni, ammonendoci che occorre tener conto delle disuguaglianze iniziali, delle ragioni di una diversa «resa» degli uomini. Nell’attribuzione della mercede, cioè della felicità eterna, gli pseudo-valori di questo mondo saranno ribaltati e allora il giudizio di Dio apparirà non soltanto sommamente buono, ma anche infinitamente giusto. In tal modo la parabola del Vangelo, che forse più sfida il senso comune, si rivela essere una delle più consolanti. «Ogni uomo degno di questo nome – scrive Bazoli – sente imperiosa l’esigenza che siano riparate le ingiustizie, i torti, le sventure, le disuguaglianze che su questa terra affliggono le creature. Esigenza che non ha mai trovato una risposta più appagante della pagina evangelica in cui sono proclamate le Beatitudini… Mi azzardo a pensare che il vero discrimine tra gli uomini sia segnato dal loro atteggiamento di fronte a questo "sogno" e che nel giudizio finale la separazione non sarà tra coloro che noi chiamiamo credenti o non credenti, ma tra gli uomini che aderiscono con la mente e con il cuore alla tavola delle Beatitudini e quelli che, indifferenti alle ingiustizie del mondo, sono capaci di ridere sulle lacrime umane perché appagati dalla loro propria vita». Il «risarcimento» nell’aldilà si accompagna, però, all’imperativo che nel nostro mondo terreno, in ogni dimensione del nostro agire, si lavori con dedizione disinteressata a realizzare il più possibile l’eguale dignità di tutti gli uomini, ridando onore e speranza a chi ne è stato privato. Dio, infatti, è offeso là dove la giustizia e l’eguaglianza sono offese ed è colpito nella nostra carne là dove gli oppressi e i perseguitati sono espropriati dei diritti propri dell’essere umano. Appare, dunque, coerente con l’ispirazione evangelica l’articolo 3 comma 2 della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Quando si discusse all’Assemblea Costituente quella norma, vi era in ogni settore politico la consapevolezza della sua novità, ma anche delle sue radici storiche perché in essa, come ebbe a dire il 6 marzo 1947 Lelio Basso, «si incontrano i più antichi motivi della civiltà cristiana». Oltre la democrazia formale, sempre necessaria e mai sufficiente, con l’articolo 3 comma 2 il principio d’eguaglianza sostanziale diventa «il punto di partenza di una rivoluzione, o di una evoluzione, che si mette in cammino» – come osservò Calamandrei ne L’avvenire dei diritti di libertà (Introduzione a Ruffini, Diritti di Libertà, pp. XLI-XLII) – dovendo il legislatore fare leggi che rendano effettiva l’eguaglianza.
Ci sono momenti in cui una lezione o la lettura di un testo aprono all’intelligenza di una verità, sull’una o sull’altra questione, o su di un singolo punto che si rivela decisivo. Per designare questa esperienza Blondel coniò l’espressione fête de l’esprit. Ecco, io sono convinto che queste pagine offrono più di un’occasione perché il lettore si lasci sorprendere da un’emozione di quel genere.
Giornale di Brescia, 20.3.2005.