Jean Guitton ha ripreso tra le mani un suo corso universitario tenuto alla Sorbona nel 1966 e lo ha rifuso nel libro “Storia e destino”, sollecitamente tradotto in italiano (Edizioni Piemme, 1992, pp. 200). “Storia e destino” conserva i movimenti e il ritmo di un corso universitario, con le sue reiterazioni, le confidenze, i rinvii. Si sa, a scuola è vietato essere oscuri, persino nel trattare problemi che hanno una loro intrinseca oscurità, e Guitton assolve bene il suo compito nell’introdurci a riflettere, passando da una citazione acuta ad un paradosso, con la naturalezza di chi conversa tra amici. L’opera riesce più intelligibile anche grazie ad annotazioni puntuali di Rodolfo Rossi, che ne è stato il curatore e che l’ha altresì tradotta. Guitton non usa il termine “destino” nel senso più comune, non cerca qui il senso della vita (lo ha fatto, e bene, in altri numerosi scritti), né si prospetta il problema dell’aldilà. Egli si interroga sul misterioso intreccio di scelta e casualità, di corso di una vita individuale e situazione storica (o destino totale della specie), di istanza e circostanza. E quante volte capita, come osservava genialmente La Fontaine, che si incontra il proprio destino proprio attraverso i sentieri presi per evitarlo?
Spesso il giudizio sugli avvenimenti passati è dominato da una supposizione non detta e tuttavia realmente pensata: la supposizione che l’avvenire esistesse già al momento di un atto anteriore. La linea Maginot, con cui i francesi si credevano al riparo dall’attacco tedesco, si rivelò del tutto inutile nel ’40 e noi diciamo: “Quella linea era stupida. Si sarebbe dovuto sapere che sarebbe stata aggirata”. Ed è giudizio tutt’altro che infondato. Il futuro, infatti, è in qualche modo già operante nel passato e nel presente, anche se per altri versi esso sarà “altro” dall’uno e dall’altro. Guitton insiste – e noi con lui – su una constatazione elementare: le ricerche minute, le più filologiche, quelle che si riferiscono ad un iota o ad un apice, mettono talvolta in gioco l’idea che lo spirito umano si fa di Dio o di se stesso. E chi può mai sapere se quello che chiamiamo “un minimo incidente”, “un fatto senza conseguenze”, una vicenda, un episodio, un piccolo dettaglio sia significativo o insignificante? Si pensi all’Egittologia. Che cosa sarebbe se il deserto non avesse conservato un’infinità di dettagli apparentemente insignificanti? Un’altra affascinante domanda è: le più grandi virtualità, che esistono in noi allo stato embrionale, emergerebbero senza lo choc fornito da un’occasione? È concepibile il destino politico di un Cavour, malgrado la forza del suo carattere e l’ampiezza del suo ingegno, senza la magica coincidenza con la rivoluzione culturale del 1848? Il destino di Socrate non fu forse segnato dal suo fronteggiare la prima, grande crisi scettica, quella del relativismo sofista, senza per questo allinearsi con il tradizionalismo conservatore? Gli esempi si possono moltiplicare a volontà.
Guitton sfiora anche il più arduo dei problemi, il rapporto tra predestinazione e libertà, indugiando sul “caso Lequier”, nella cui morte crede di scorgere una specie di suicidio ontologico. Il pensatore francese un giorno si spogliò sulla spiaggia e avanzò nell’oceano fino allo stremo delle sue forze; annegò. Nessuno ovviamente sa quali siano stati i suoi ultimi pensieri, ma da suoi precedenti biglietti Guitton immagina i termini della “scommessa” di Lequier. Se esisteva, Dio lo avrebbe salvato con un miracolo, perché la sua misericordia si estende anche al reprobo. Se egli, Lequier, fosse morto, Dio lo avrebbe ricompensato per il suo gesto di abbandono, cosi come aveva fatto Gesù con il buon ladrone. Questa è l’ipotesi interpretativa di Guitton, attraente ma ai nostri occhi non convincente. Lequier era un pensatore fine e tormentato, ma la sua tragica fine è l’esito della sua malattia mentale e non della sua fede, o della sua filosofia.
Giornale di Brescia, 29.05.1992.