Giornale di Brescia, 19 marzo 2014
“Comprendere non significa negare l’atroce; significa piuttosto esaminare e portare coscientemente il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle, non sottomettersi supinamente al suo peso. Comprendere significa affrontare spregiudicatamente, attentamente la realtà, qualunque essa sia”. La necessità di dare un nome al male che ha insanguinato il XX secolo, la responsabilità di riflettervi e di domandarsi incessantemente “perché?” sono le coordinate dell’esistenza di Hannah Arendt, la filosofa e pensatrice ebreo-tedesca nata ad Hannover nel 1906. La sua giovinezza fu segnata dall’incontro con grandi maestri – seguì le lezioni di Heidegger e Husserl, si laureò con Jaspers, divenne grande amica di Jonas -, e da esperienze traumatiche: arrestata a Berlino nel ‘33, giunse a Parigi dopo un viaggio avventuroso, internata nel campo di Gurs, riuscì a fuggire e ad arrivare a New York nel ‘42. Negli Stati Uniti trovò la tranquillità necessaria per studiare e riflettere sugli eventi che l’avevano condotta al di là dell’Oceano. Nel 1951 fu dato alle stampe Le origini del totalitarismo, elaborato gli anni successivi alla guerra nell’urgenza di ricostruire le origini storiche e di cogliere l’essenza del fenomeno totalitario, novità e segno distintivo del mondo moderno. Il libro, che contiene in nuce tutte le problematiche sviluppate successivamente, conobbe un immediato successo.
Nel 1960 il geraraca nazista Adolf Eichmann venne arrestato e Hannah Arendt decise di recarsi in Israele per assistere al processo come inviata del New Yorker. Dopo anni di profonda crisi filosofica ed esistenziale, nel ’63 uscì La banalità del male. Il reportage delle centoventi sedute di Gerusalemme suscitò scandalo: l’autrice sostenne che Eichmann non era “uno Iago o un Macbeth”, ma un uomo comune, semplicemente incapace di pensare e povero d’immaginazione. La lezione della banalità del male è dunque la consapevolezza che la normalità di queste persone sia “più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme”, poiché questo nuovo tipo di criminale commette i suoi crimini “in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”.
Una furente polemica seguì la pubblicazione del libro. La Arendt fu accusata di essere anti-israeliana, ricevette minacce e perse alcune delle amicizie più importanti. Da allora e fino alla morte, avvenuta nel ‘75, Hannah Arendt continuò a riflettere sul tema del male nella storia, trovandovi come antidoto l’esercizio del pensiero e del giudizio. Tale capacità di “distinguere il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto”, era per lei l’unico mezzo per “impedire le catastrofi nei rari momenti in cui si è arrivati a un punto critico”.