I Gesammelte Werke, voll. 10 (Mohr Siebeck, Tübingen 1985 ss), curati dall’Autore stesso, iniziano proprio con l’opera maggiore di H. G. Gadamer: Wahrheit und Methode. Grunzüge einer philosophischen Hemeneutik e che offre organicamente i tre grandi ambiti nei quali si è esercitato il suo pensiero.
L’opera Verità e metodo (la prima ed. tedesca è del 1960), che segna la maturazione dell’ermeneutica come koiné filosofica, dispiega totalmente il comprendere non più come un possibile atteggiamento del soggetto, ma come, e ciò è già in Heidegger, “il modo di essere dell’esistenza come tale». Il termine “ermeneutica” indica “il movimento fondamentale dell’esistenza, che la costituisce nella sua finitezza e nella sua storicità, e che abbraccia così l’insieme della sua esperienza nel mondo” (Verità e metodo, trad. it. Di G. Vattimo, Bompiani, Milano 2000, Milano). Per questo significato l’ermeneutica non è semplicemente metodo (l’opposizione, anche se non radicale, già presente nel titolo), ma filosofia, anzi la maniera più autentica del filosofare, che Gadamer attua nell’analisi di tre esperienze fondamentali: quella estetica, quella storica e quella linguistica. Sono tre ambiti di discorso che possono essere presi per se stessi: Gadamer, infatti, nel delineare l’esperienza estetica dominata dall’ontologia dell’opera d’arte ci presenta una vera estetica, nel descrivere la costitutiva finitezza dell’esperienza storica quale emerge dalla categoria della Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) ci offre una filosofia della storia e, infine, nel rilevare il rapporto rivelativo tra essere e linguaggio una vera filosofia del linguaggio.
1. L’ontologia dell’opera d’arte. – In polemica con l’estetica romantica del genio, che ha operato l’estraneazione dell’artista e l’alienazione dell’opera dal mondo della vita reale, il pensiero di Gadamer s’incentra tutto nella tematizzazione del primato dell’opera, nella sua compiutezza linguistico-rappresentativa. Non nella genialità dell’autore né in quella del fruitore si offre la verità dell’opera d’arte, ma nell’essere in se stessa un gioco (Spiel) compiuto, nei tre sensi che Gadamer specifica riferendosi all’etimo e all’uso metaforico che il termine ha nella lingua tedesca. Il gioco è prima di tutto una auto-rappresentazione, un movimento autonomo in se stesso, con regole proprie non finalizzate ad altro, per cui più che giocare si è giocati; secondariamente il gioco fa pervenire i giocatori allo loro auto-rappresentazione e, infine, è un rappresentare per qualcuno, è sempre rivolto allo spettatore. Nell’opera d’arte si esprime un gioco in cui il mondo viene trasformato. Evento di verità e conoscenza, l’opera intrattiene un rapporto di distacco radicale e insieme rivelativo con il mondo abituale: l’opera d’arte è una trasmutazione in forma (Verwandlung ins Gebilde).
La trasmutazione vuol dire che il mondo dell’opera non è più soggetto alla accidentalità del mondo abituale: esso si dà a una contemporaneità con tutti i tempi, sciolto dalla contingenza della vita effettuale. Radicalmente trasfigurato, il mondo dell’opera si presenta come forma, érgon, compiutezza linguistica che non si misura con altro che con se stessa. Ma ciò non vuol dire ricadere nell’avulso regno del bello estetico: l’opera d’arte trasmuta il mondo abituale ponendolo nella sua verità. Qui Gadamer recupera il concetto di mímēsis nel suo significato conoscitivo: la mímēsis non è una duplicazione dell’essente, ma è un rendere presente ciò che è conosciuto. Tutt’altro dall’essere un’estenuazione del reale, la mímēsis libera l’essenza del reale dalla sua casualità, manifestandola nella sua compiutezza ideale.
Da questo statuto ontologico dell’opera d’arte Gadamer deduce, tra l’altro, l’essere dell’opera come rappresentazione (Darstellung), concetto che sviluppa in tutti i suoi sensi e che applica variamente a tutte le espressioni artistiche. La rappresentazione è “un universale momento strutturale ontologico dell’esteticità…. La presenzialità peculiare dell’opera d’arte è un venire-alla-rappresentazione (Zur-Darstellung-kommen) dell’essere” (Verità e metodo, p. 197). Se la rappresentazione è un evento in cui l’essere si manifesta, ciò significa che ogni opera d’arte è la verità del reale trasmutato in forma, alla cui conoscenza partecipano, non come creatori ma come coinvolti nell’evento, sia l’artista sia l’interprete o esecutore. L’incontro con l’opera d’arte non è una fuga momentanea in un mondo incantato, ma reale esperienza di verità che modifica chi la compie.
2. La coscienza della determinazione storica. – L’analisi dell’esperienza storica, che Gadamer conduce anche in polemica con la coscienza storica dello storicismo, in particolare con Dilthey, è in modo più stretto collegata alla costruzione dei momenti strutturali dell’ermeneutica. Il circolo ermeneutico, il pre-giudizio o anticipazione del senso, il legame con la tradizione e l’autorità, il senso distaccante e familiarizzante della distanza temporale, il principio dell’applicazione emergono tutti dalla fondamentale storicità dell’esperienza storica e ne affermano l’impossibilità radicale di oltrepassarla. Questa storicità si configura innanzi tutto come coincidenza tra sapere storico e essere storico: una reale coscienza storica sa prima di tutto di essere essa stessa storica. Quei momenti, ineliminabili nel processo interpretativo, definiscono in ultima istanza l’essere dell’uomo come essere essenzialmente appartenente alla storia. Appartenere alla storia significa essere inserito dentro una tradizione, una lingua, una cultura, dentro un divenire storico che determina già originariamente le proprie precomprensioni.
La storicità, in secondo luogo, è anche ciò che caratterizza l’oggetto e il processo del sapere storico: tra fatto storico e i suoi significati non c’è scissione. Il fatto si identifica con la storia dei suoi effetti, per cui l’autentica consapevolezza metodologica non è lo historisches Bewusstsein, ma il wirkungsgeschichtliches Bewusstsein, non la coscienza storica, ma la coscienza della determinazione storica. L’interpretazione di un fatto, per la sua essenziale storicità, accade già dentro la catena delle interpretazioni e l’accresce. Questa coscienza evita sia l’oggettivismo storicistico e la sua fiducia incondizionata nel metodo, sia il sapere assoluto, dove la storia giungerebbe alla sua piena autotrasparenza.
Infine, la storicità vuol dire esperienza della finitezza. Qui proprio sul concetto di esperienza (Erfahrung), Gadamer si confronta soprattutto con Hegel. Scartato il concetto di esperienza elaborato dalla scienza moderna, che per la sua essenziale ripetibilità non tien conto della dimensione storica, Gadamer passa a esaminare il concetto hegeliano di esperienza come itinerario della coscienza, che dall’essere inizialmente uno “scetticismo in atto” giunge al suo compimento nella scienza come certezza di sé. Hegel è guidato dal criterio che esperire è sapersi, un sapere di sé che non ha più nulla di estraneo da sé. Concludendosi nella piena identità di coscienza e oggetto, la dialettica hegeliana dell’esperienza si risolve in realtà nel superamento di ogni esperienza. Per Gadamer, al contrario, l’esperienza è segnata dalla sua essenziale finitezza e perciò è sempre aperta: “La dialettica dell’esperienza non ha il suo compimento in un sapere, ma in quell’apertura all’esperienza che è prodotta dall’esperienza stessa” (Verità e metodo, p. 411). L’apertura vuol dire che l’esperienza ci rende disponibili ad altre esperienze: l’uomo esperto sa la propria finitezza e la limitatezza dei propri progetti.
3. Essere e linguaggio. – Per Gadamer il processo ermeneutico si articola principalmente come dialogo, come dialettica di domanda e risposta tra interprete e testo, la cui possibilità di riuscita non sta tanto nella messa in opera di tecniche comunicative più o meno raffinate, ma nell’intendersi sulla “cosa” che viene alla parola. Il linguaggio qui assume un’importanza fondamentale: se la “cosa” da interpretare è linguisticamente data, se l’atto interpretativo riesce perché si è trovato un linguaggio comune tra interprete e testo, ciò vuol dire che il linguaggio si presenta come il mezzo (Mitte), l’elemento reggente, che opera la sintesi ermeneutica tra passato e presente. L’esperienza ermeneutica è quindi eminentemente un’esperienza linguistica. Il linguaggio infatti ha la stessa struttura aperta dell’esperienza storica: “il discorrere umano è finito nel senso che in esso c’è sempre una infinità di senso da sviluppare e interpretare” (Verità e metodo, p. 524).
Da questo carattere linguistico dell’ermeneutica Gadamer passa alla più generale linguisticità dell’esperienza umana del mondo: ogni esperienza che l’uomo fa del mondo è un’esperienza linguistica. Il linguaggio non è una qualità di cui l’uomo può disporre, ma il fatto per cui l’uomo ha un mondo: esso non sussiste al di fuori del mondo, ma è in quanto rappresenta un mondo. Il mondo è tale per l’uomo, a differenza di ogni altro vivente, in quanto si costituisce in linguaggio. Il mondo degli uomini è essenzialmente una comunità comunicativa, e il linguaggio non ne è il semplice strumento, come la comunicazione non è un fine della società. La comunicazione è l’elemento vitale di una comunità e il linguaggio manifesta il “mondo”, il “ciò su cui s’intendono” coloro che vivono insieme.
L’aspetto dialogico-comunicativo, che è uno degli aspetti più insistiti, trova la sua fondazione ultima nella prospettiva ontologica del linguaggio, vale a dire nell’aspetto rivelativo della parola nei confronti dell’essere. Gadamer analizza il rapporto tra parola e cosa e tra parola e pensiero, facendo i conti con tutta la tradizione del pensiero occidentale. Se parola e cosa crescono insieme, pensiero e parola si accomunano per la loro essenziale inobiettivabilità. Contrariamente alla tradizione convenzionalistica del linguaggio, Gadamer ha sempre affermato il primato della parola sull’uomo; la lingua, tutt’altro dall’essere strumento, ci previene sempre nel nostro conoscere e pensare.
Questo statuto linguistico dell’uomo si radica nella tesi che la natura speculativa del linguaggio corrisponde alla natura speculativa dell’essere che nel linguaggio viene alla parola. Nel linguaggio si dispiega l’essere che prende l’uomo in un gioco che è proprio dell’essere e non dell’uomo: centralità dell’essere che contesta l’antropocentrismo moderno. In questa visione del linguaggio si produce una vera crisi del soggetto, ma non in vista di una mancanza di fondamento, bensì in vista dell’affermazione dell’essere. La preminenza del linguaggio sull’uomo è fatta valere per quell’essere che può venir compreso. La formula sintetica gadameriana: “L’essere che può venir compreso è linguaggio”, se dice certamente una non differenza ontologica tra essere e suo modo di manifestarsi, non afferma però che il linguaggio manifesti tutto l’essere: il venire alla parola dell’essere è solo di quell’essere che può venir compreso. Se è vero che non si giunge all’essere se non attraverso il linguaggio, poiché il linguaggio è il luogo più proprio del suo darsi, è anche vero che il linguaggio non esaurisce tutto l’essere. Per la natura inesauribile del compito ermeneutico, l’infinito del senso, e per la struttura del linguaggio che nel suo dire implica sempre un orizzonte di non detto, la modalità di manifestarsi dell’essere dovrebbe essere pensata come svelamento-velamento.
Testo della conferenza tenuta per la CCDC l’8.4.2011.