La sorprendente assunzione del rettorato dell’Università di Friburgo da parte di Martin Heidegger nell’aprile del 1933, l’adesione al Partito Nazionalsocialista da parte del filosofo ormai di fama internazionale e le sue molteplici attività nella veste di “Guida dell’Università” fino alla primavera del 1934 hanno sempre tanto attirato l’attenzione pubblica, facendo balzare in primo piano il problema dei rapporti tra “Heidegger e il nazionalsocialismo”: motivo per cui non è prevalentemente sul pensiero filosofico di Heidegger che è impostato questo incontro, che non ha quindi come oggetto l’interpretazione e l’analisi di concetti come “comprensione dell’essere”,”essere-per-la-morte ( decisione anticipatrice della morte )”, “deiezione”, “esserci”, ecc. ecc.
Già nel 1933, in occasione della pubblicazione a Basilea di un breve scritto dal titolo “Ma il signor Heidegger”, la critica pose aspramente il problema dell’atteggiamento politico di Heidegger. Dopo il 1945 si alimentò un aperto dibattito, in cui intervennero, sulla rivista fondata da Sartre “Les temps modernes”, Karl Löwith e Alfons de Waelhens, mettendo in evidenza il carattere contraddittorio dell’atteggiamento e dell’impegno politico di Heidegger. Fino ad oggi numerosi sono gli studiosi che si sono pronunciati in merito o hanno intrapreso ricerche:
Jürgen Habermas, Paul Huhnerfeld, Theodor W. Adorno, Robert Mínder, François Fédier, Hugo Ott, Victor Farias e molti altri.
Pochi di questi autori hanno saputo spiegare perché il “coinvolgimento” di Heidegger inizi non prima dell’anno 1933 e già dopo meno di dodici mesi fosse finito con il suo ritiro dalla carica di rettore; ma qualcuno tenta di mettere il problema in relazione con lontani precedenti, come la giovanile vicinanza all’integralismo cattolico o in generale al provincialismo del rustico ceppo svevo della sua terra natia e del luogo di nascita, Messkirch; o altresì, con visione diametralmente opposta, alla rottura con tale origine, in particolare quando, con la nomina ad assistente, entra in contatto con i protestanti Husserl e Natorp. Non di rado si è parlato perfino di una continuità, che avrebbe abbracciato tutta la vita di Heidegger fino alla morte: nel suo intimo il filosofo sarebbe rimasto sempre un nazionalsocialista, in quanto egli fino alla fine indirizza la sua critica contro la civiltà attuale, l’americanismo, più in generale contro la modernità. Quel che stupisce è che Heidegger abbia caparbiamente taciuto sui crimini dei nazisti, e persino su Auschwitz.
Ben pochi autori, peraltro, hanno posto Heidegger in relazione con quel fenomeno, a cui pure di norma si fa riferimento quando si parla della situazione politico-culturale in cui ebbe partita vinta il nazionalsocialismo, vale a dire la cosiddetta “rivoluzione conservatrice”. I principali esponenti di questa tendenza: Oswald Splenger, Arthur Moeller van don Bruck, Carl Schmitt e Ernst Jünger sono manifestamente rispetto a Heidegger a un livello assai più vicino di quanto lo siano gli Hitler, i Goebbels e Alfred Rosenberg; quei pensatori hanno avuto nei confronti del nazionalsocialismo un rapporto molto singolare, oscillante tra consenso e rifiuto.
E se ci si richiama alla dovizia di nomi che Armin Mohler nella sua opera fondamentale del 1950 assegna a queste temperie culturale, si impone su di essa un giudizio assai più complesso. Nella “rivoluzione conservatrice” rientrano, infatti, non pochi decisi avversari del nazionalsocialismo; in essa ci fu chi venne assassinato come Edgar Jung; altri furono condannati a molti anni di carcere come Ernst Niekisch; altri dovettero prendere la via dell’esilio forzato come Kermann Rauschning, oppure furono in stretto rapporto con i congiurati del 20 luglio come Rudolf Pechel e vari altri. E’ peraltro del pari innegabile che prima del 1933 alla “rivoluzione conservatrice” si sarebbero accostati sia quell’Alfred Baeumler e quell’Ernst Krieck, che sino alla fine restano convinti nazionalsocialisti, che il comunista Harold Schulze Boysen e lo stesso Ernst Niekisch, cioè la figura preminente del nazionalbolscevismo.
Come si vede, la “rivoluzione conservatrice” costituiva un orientamento oltremodo diffuso, che è difficile cogliere appieno con precise demarcazioni. Sembra, quindi, inevitabile domandarsi: non si cerca forse di estrapolare il comportamento enigmatico di Heidegger da circostanze di fatto enigmatiche, quando si parla del suo rapporto con la “rivoluzione conservatrice”? La prima cosa che si impone allo storico è, dunque, cercare di definire che cosa si intende per “rivoluzione conservatrice” e verificare tale definizione sia in rapporto con la crisi politico-culturale della Repubblica di Weimar, sia attraverso il pensiero e le scelte di alcuni dei suoi maggiori esponenti; sarà poi necessario prendere in considerazione documenti poco noti o poco frequentati, o pubblicati solo di recente, per dare una risposta all’interrogativo se Heidegger sia da collocarsi all’interno o al di fuori di quel movimento. E’ quanto qui cercheremo di fare.
L’espressione “rivoluzione conservatrice” entra in scena per la prima volta solo quando nel gennaio del 1927 Hugo von Hofmannsthal l’adopera nel suo discorso su “La letteratura come spazio spirituale della nazione”. Hofmannsthal parla di chi è in ricerca, del “cercatore”, una figura che nella Germania del periodo si incontra endemicamente, sempre però a livello individuale, mai come “una folta schiera”. Sotto l’impulso di questa molteplicità di singoli uomini si evolve secondo von Hofmannsthal – il processo di una lenta grandiosa sintesi, una sintesi tra coloro che finora erano stati divisi e nemici: “Il processo di cui parlo, null’altro è che una rivoluzione conservatrice di tale dimensione che nella storia europea non si era mai vista. Il suo obiettivo è una forma, una nuova realtà tedesca, cui l’intera nazione possa partecipare”.
Una prima paradossale sintesi è evidentemente già il concetto stesso, in cui si fondono due realtà e due termini che per definizione si contrappongono, secondo l’interpretazione corrente di conservatorismo e rivoluzione. La rivoluzione, nella sua normale accezione, è il superamento, anzi l’annientamento, della situazione esistente, e quindi anche del conservatorismo. I conservatori possono, secondo una tale prospettiva, essere semmai controrivoluzionari. Ma un’argomentazione del genere vale solo in quanto si postuli il caso di una rivoluzione “pura” o “totale”, che produca condizioni tali da determinare il cambiamento globale di tutto il preesistente. Ma neppure la rivoluzione francese nella sua fase più estremistica fu rivoluzione “totale”. E d’altra parte i liberali, che per i democratici erano conservatori, non combatterono in nome del liberalismo contro l’assolutismo, a favore del costituzionalismo e infine della democrazia?
Già con Friedrich Julius Stahl, e tanto più con Bismarck, sopravviene una generazione alla testa del conservatorismo rispettivamente prussiano e tedesco, che nel costituzionalismo e nel suffragio universale non vedeva più il diavolo come i vecchi conservatori; e parimenti la “destra storica”, quella che in Italia sotto Cavour fa prevalere contro Mazzini e Garibaldi un’unificazione nazionale che appariva di segno conservatore, più modernamente innovatrice dei suoi critici. E che dire di Benjamin Disraeli, che proveniva dal radicalismo e che fu a lungo il capo prestigioso del partito conservatore in Gran Bretagna? Ad ogni generazione emerge, dunque, anche un ramo del conservatorismo che si accosta più da vicino a una sorta di “rivoluzione”, così come era accaduto nella generazione precedente, mentre frattanto la tradizione si perpetua in un altro ramo, cosicché sempre in forma diversa sussistono e si scontrano un “veteroconservatorismo” e un “neoconservatorismo”.
Nella seconda metà dell’Ottocento un grande cambiamento batte alle porte. Esso è rappresentato dal movimento operaio, sotto la guida preminente del marxismo la cui concezione rivoluzionaria diventa la forza trainante di una fascia della “sinistra”. Il movimento operaio suscita allora tra le forze conservatrici di tutta Europa l’emergere di una corrente che si pone primariamente in opposizione al marxismo e che, nondimeno, è più vicina al marxismo di quanto i seguaci e gli stessi avversari pensassero.
Si può, dunque, affermare che già prima del 1914 erano riconoscibili tre fondamentali segni distintivi di un conservatorismo nuovo e rivoluzionario, ancorché solo tendenziali e ristretti a gruppi minoritari: un deciso antimarxismo, che sperimentava concetti e impostazioni marxiste; una radicale critica della civiltà moderna, che metteva in discussione non solo il liberalismo ma anche il vecchio conservatorismo; e un bellicismo che nelle aspirazioni alla “pace universale” vedeva un attentato all’esistenza degli Stati, un ostacolo diseducativo all’affermarsi della grandezza umana e dello spirito di sacrificio. Che questo nuovo conservatorismo si potesse assimilare a “pura reazione”, o ascrivere a una tendenza autodistruttiva del conservatorismo, della borghesia e finanche del capitalismo, non è tesi facilmente dimostrabile. Dopo la grande guerra si instaurò una situazione del tutto nuova, nel cui quadro le vecchie forze e le vecchie tendenze si vedevano convalidate o compromesse e si apprestavano a trasformarsi di conseguenza. L’impero germanico aveva perso la guerra, e avevano trionfato proprio quelle forze nelle quali il giovane conservatorismo aveva scorto un sinistro presagio. La Germania, tra l’altro, aveva perduto la guerra anche perché, dopo il giubilo patriottico dell’agosto 1914, la visione della guerra come esperienza negativa era divenuta in definitiva prevalente, dopo l’ecatombe sui fronti e gli anni di fame all’interno, mentre il pacifismo con la sua parola d’ordine “Mai più guerre!” rispecchiava lo stato d’animo dominante di molti milioni di persone. Era diffusa però l’impressione che il pacifismo fosse strumentalizzato dalle potenze vincitrici, dato che alla Germania non solo era stata imposta una pace durissima, ma quelle potenze avevano insieme decretato la supremazia del loro tipo di civiltà, la cultura anglosassone dell’individualismo, della libera economia e della Società delle nazioni, di cui Woodrow Wilson era il tipico rappresentante. E già dodici mesi prima del 9 novembre 1918 sembrava che il marxismo avesse ottenuto una vittoria decisiva, quando l’ala sinistra della socialdemocrazia russa, i bolscevichi, con la loro “rivoluzione d’Ottobre” provavano a mettere in moto nientemeno che la “rivoluzione mondiale” per abbattere dappertutto le classi dominanti e introdurre l’economia collettivista a livello mondiale. In nessun paese le ripercussioni della fede e della risolutezza dei bolscevichi furono forti come in Germania; e se tutta intera la massa degli aderenti e dei simpatizzanti avesse partecipato allo scontro decisivo nel gennaio 1919, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg avrebbero trionfato sul debole governo Ebert, difeso solo da poche formazioni di volontari del disciolto esercito.
Nello stesso tempo in cui la Repubblica di Weimar fronteggia va l’attacco bolscevico, essa era incessantemente attaccata, fino a soccombere nel 1933 all’assalto dei raggruppamenti più demagogici e violenti, proprio da quelle vecchie forze che più si vedevano minacciate dal caos politico ed economico del dopoguerra. Agli occhi delle vecchie forze, i nemici da abbattere erano insieme gli “uomini politici rinunciatari”, che volevano accordarsi con le potenze occidentali, e nello stesso tempo i seguaci di quel marxismo rivoluzionario che in Russia aveva dimostrato di essere in grado di cambiare il sistema economico, di abbattere la borghesia e di mandare in rovina, e in gran parte alla morte, un intero ceto di proprietari e coltivatori della terra. In questa ottica erano visti come avanguardia di quel mutamento, e non solo come un semplice partito tedesco, i comunisti, i quali in verità fino al 1923 avevano tentato e ritentato di arrivare al potere mediante la sollevazione armata, e che in seguito, nonostante le loro discordie interne, avevano registrato una continua ascesa, che permetterà loro nel 1932 di porsi in vista dell’obiettivo intermedio di subentrare ai socialdemocratici come “partito della classe operaia”. E quel partito comunista nella sua opera di agitazione e propaganda cantava con tale fervore il canto del boia e della morte dei nemici di classe capitalisti, latifondisti e ufficiali sull’esempio dei compagni russi e cinesi, tanto che non pochi ne erano preoccupati e sconvolti. Altri, invece, confidavano che il sistema dei partiti con l’aiuto della polizia prussiana e delle forze armate potesse pur sempre avere il sopravvento superando la situazione di guerra civile, come era già avvenuto in Francia e in Inghilterra durante i primi anni del dopoguerra. Tuttavia era assolutamente inevitabile che, in quella situazione, parti non trascurabili del conservatorismo divenissero militanti e rivoluzionarie in opposizione ad altre formazioni militanti e rivoluzionarie. La loro critica della civiltà moderna si sarebbe spinta fino alla tesi che il liberalismo significava la morte dei popoli. Quelle componenti avrebbero sbandierato con fierezza la loro “esperienza bellica positiva”, contrapponendola, con disprezzo all'”esperienza bellica negativa” dei vili e dei disertori. Si trattava adesso in primo luogo di tradurre l’antisemitismo in antibolscevismo, dimostrando di non essere inferiori., per fermezza e volontà di combattere, ai nemici, ai bolscevichi russi e tedeschi. Certamente antibolscevichi erano anche i socialdemocratici e il Zentrum (il Centro) per tacere dei nazional-tedeschi; ma era pacifico che, trattandosi di forze liberaldemocratiche, esse non avevano alle loro spalle una tradizione di lotta armata e di energia rivoluzionaria che a lungo andare potesse aiutarle a resistere vittoriosamente e a prendere il sopravvento sulle forze eversive.
Sul fronte opposto di chi rifiutava la democrazia nascente di Weimar, a cui si addebitavano peraltro le pesanti conseguenze della sconfitta, la spinta a unire in un unico grande partito con una guida carismatica tutte le tendenze venne proprio dall’inasprirsi della situazione politica e sociale. Si pensò allora a un partito che fosse sostanzialmente radicale, ma pur sempre meno radicale dei comunisti, tale cioè che nel quadro della povertà di massa, generata dalla crisi economica mondiale, potesse esercitare una grossa attrazione in una società che, malgrado l’apparenza contraria, era in realtà una “società di ceti medi”. In quel contesto la critica della civiltà poteva tradursi in impulso alla rinascita nazionale e al risanamento attraverso la conquista dello “spazio vitale”; l’esperienza positiva della guerra poteva in qualche modo conciliarsi persino con il pacifismo giacché una “guerra di razza” postulava la pace almeno tra i popoli di razza bianca; infine, nella ricerca delle cause che avevano prodotto il bolscevismo, l’antibolscevismo puntava decisamente sugli ebrei, ai quali assegnava ormai il ruolo di nemico razziale per antonomasia, scatenando contro di essi una tragica volontà di annientamento.
In nessun singolo individuo le tre tendenze, in questo loro estremizzarsi, erano tanto strettamente connesse l’una all’altra come in Adolf Hitler, e Hitler era il capo carismatico del partito di massa, il partito della NSDAP, che giustificava la sua violenza come arma e metodo per far uscire la Germania dalla guerra civile, così come la teorizzavano e la praticavano i comunisti.
Il concetto di “rivoluzione conservatrice” appare, quindi, come fenomeno distintivo della lunga crisi post-bellica della Germania, anche se un “conservatorismo rivoluzionario” esisteva in quasi tutti i paesi d’Europa. Alla “rivoluzione conservatrice” sono da collegare tutti quegli “spiriti in ricerca” o “cercatori” che hanno fatto proprie le tre componenti fondamentali del nuovo conservatorismo, o anche solo una di esse, e che ancora non si sono accostati all’uno o all’altro dei due poli radicalmente antagonistici, quali sono appunto il partito comunista e il partito nazionalsocialista. Molti “cercatori” potevano provare in una certa misura attrazione verso l’uno o l’altro polo, anche senza arrivare mai ad aderirvi; e anche quando ci si trova di fronte a una loro adesione, occorre spesso prenderla con una qualche riserva.
Tre esempi possono servire a fare chiarezza in queste astratte classificazioni. Mi riferisco ai tre maggiori esponenti di quel movimento composito e vasto che fu la “rivoluzione conservatrice” tedesca: Spengler, Schmitt, Jünger.
La lezione di Oswald Spengler relativa all’autonomia e all’autarchia delle “culture” andava chiaramente contro il concetto di progresso implicito nell’interpretazione cristiana e illuministica della storia, che vedevano “l’umanità” proiettata verso una meta comune attraverso varie fasi; traguardo della solidarietà fraterna, per gli uni; oppure regno della libertà e del libero scambio, nel senso di Adam Smith e John Cobden; o l’utopia di una società mondiale senza classi, come era ipotizzata dal marxismo. Per Spengler non c’è un medioevo, bensì molti medioevi, tanti quante sono le culture, e ogni fase finale di una cultura, creativa quando era aurorale, si manifesta nella connotazione negativa di una civiltà diventa sterile e senz’anima, cosicché la fioritura, il periodo aureo di ogni cultura alla fine si isterilisce e muore, proprio come nel caso della civiltà meccanica che è solo un prodotto dell’Occidente e della sua anima faustiana. Nondimeno Spengler vuole che l’anima tedesca sia arbitra del proprio destino, talché le concede un ruolo predominante all’interno di questa civiltà, un ruolo predominante che poteva essere legato anche a una ripresa della guerra mondiale, a cui Spengler peraltro accenna soltanto senza postularla in maniera inequivocabile. A sbarrare il passo a questo ruolo della Germania sono gli “intellettuali” delle metropoli ed è soprattutto il marxismo, tipico prodotto dello spirito “antinazionale” e contraffazione del socialismo, il quale ultimo nella sua vera essenza altro non è che l’ordinamento statale prussiano con il suo spirito di servizio e di sacrificio. Perciò solo la Germania prussiana poteva opporsi al destino, quel destino che profilava all’orizzonte una doppia rivoluzione mondiale, la rivoluzione del proletariato e quella dei popoli di colore. Con questo Spengler scaglia una lancia contro tutte le forme di progressismo e ancor più lo fa con la sua definizione dell’uomo come “belva”, sebbene debba essere chiaro che questa affermazione vada intesa correttamente nel senso che l’uomo è l’unica belva che nella sua storia si autoaddomestica e ottiene con ciò un mutamento di essenza. I paradossi e le provocazioni che si incontrano ad ogni tratto nel “Tramonto dell’Occidente” sono molteplici. E comunque Spengler sarebbe rimasto a pieno titolo un pensatore di grande rilievo se nel 1933 avesse ceduto alla propaganda di Goebbels e dello stesso Hitler, schierandosi apertamente dal lato del il risveglio nazionale”. Ma Spengler non lo fece. Carl Schmitt nel 1933 fu nominato membro del Consiglio di Stato prussiano e ricevette l’incarico, insieme con il vicecancelliere von Papen, il ministro degli interni Frick e il ministro prussiano delle Finanze Popitz, di elaborare la legge che istituiva per tutti gli Stati tedeschi dei governatori del Reich, abolendo così i poteri distinti degli Stati e assoggettandoli all’autorità centrale. Arrivò inoltre ad essere presidente dell’associazione dei giuristi del Terzo Reich. Ma neppure a lui le SS perdonarono il suo passato cattolico e centrista, tanto che dal 1936 ebbe motivo di ritenere che la sua vita fosse in pericolo. Nondimeno egli aveva, come nessun altro, sviscerato la specificità del concetto di “politica” come distinzione di amico e nemico, concetto aveva su cui il nazionalsocialismo aveva fatto perno e che tanto contribuito a imbarbarire, la sua politica. Gli avversari di Schmitt, tuttavia, fecero rilevare che quel concetto derivava dall’esperienza del marxismo e delle rivoluzione del 1918 19, e che si trattava solo di un’immagine speculare del “Wer Wen?” di Lenin. Quando però mette in discussione il liberalismo, Schmitt cerca di sciogliere il concetto di nemico in quello di concorrente o di avversario in una discussione, cui ci si può scontrare, senza per questo tendere alla sua eliminazione. Ma con nettezza pari al marxismo proletario Schmitt rifiuta il razzismo nazionalista e combatte la strumentalizzazione di ogni pretesa missione mondiale, soprattutto perché essa non può avere come conseguenza che la più tremenda di tutte le guerre. In conclusione: che Schmitt lo si possa far rientrare nell’ottica dell'”esperienza bellica positiva”, nonostante non fosse stato combattente, ci pare incontestabile anche per il fatto che la sua opera più importante, il concetto di politico, egli la dedicò a un amico caduto in Francia nel 1917.
Per Ernst Jünger, valoroso ufficiale delle truppe d’assalto, ferito quattordici volte e insignito dell’ordine cavalleresco tedesco Pour le mérite, l’esperienza bellica come mito positivo costituì il fulcro della vita. Ma egli non si limitò a scrivere libri di guerra come “Nelle tempeste d’acciaio”. Con “La mobilitazione totale” del 1930 e “Il lavoratore” del 1932 rispose all’esigenza di calarsi nelle vesti dello storiografo, con una sua propria concezione sociologica, cercando di spiegare il mondo moderno nel suo complesso come un paesaggio dominato da militareschi opifici. Il mondo di Jünger è ben lontano dal liberalismo borghese; ma i suoi libri avversano il marxismo quanto meno nella stessa misura, dal momento che in essi la figura del “lavoratore” trova la sua forma compiuta negli ufficiali della guerra mondiale e negli ingegneri, che divergono diametralmente dal “proletario” marxiano. Poiché Jünger si richiama esplicitamente all’Italia fascista e all’Unione Sovietica, si potrebbe parlare, forse, di una teoria del totalitarismo positivo. Si trovano però parecchi indizi che stanno a indicare quanto meno un’effettiva adesione alle principali guerre tedesche per il dominio del mondo e per la neutralizzazione dei sostenitori del concetto di “civiltà dell’Occidente”. Verso il nazionalsocialismo egli mantiene, invece, una marcata forma di distacco, restando anche durante il Terzo Reich uno di quei “solitari” e “cercatori” di cui aveva parlato Hofmannsthal, un uomo e un pensatore indipendente, un tipico rappresentante della “rivoluzione conservatrice. Con il profilo di Schmitt, Spengler e Jünger, abbiamo posto le premesse necessarie per capire il rapporto di Heidegger con la “rivoluzione conservatrice”. Fin dai primi scritti Heidegger esprime un giudizio negativo sulla “banalità dei contenuti dell’esistenza odierna”, sulla sua “sradicata febbrilità”. Nella sua dissertazione per il conseguimento della libera docenza egli vedeva questa critica ancora come parte di una “filosofia del divino”; e, quando scoppiò la guerra in una storia della filosofia avrebbe dedicato una nota a piè di pagina all’osservazione di come egli sia stato un filosofo cattolico formatosi alla scuola dell’aristotelico Franz Brentano e dell'”antimodernista” Carl Braig.
Già prima del 1914 lo studente Heidegger si era aperto alla stimolante novità delle opere di Nietzsche, Dostoevskij e mentre la nomina ad assistente di Husserl a Friburgo preannunciava l’allontanamento dal “cattolicesimo come sistema”: Ben presto, partendo da Hussserl e da Emil Lask, egli sosterrà che l’ontologia autentica è sempre un’analitica esistenziale, e scorgerà la ragione della “superficialità” dell’esistenza moderna nell'”oblio dell’essere”.
Rimarchevole è il fatto che nella sua corrispondenza durante il periodo di guerra, tranne nel caso delle lettere a Oswald Spengler, non si trovi in sostanza alcuna osservazione sulle vicende belliche o sulle prospettive del conflitto, benché non sia lecito dubitare che si immedesimasse con la patria e la sua guerra – non meno di Husserl e Lask, al quale Heidegger nel 1916 dedicherà uno scritto come segno di riconoscenza pensando alla sua “lontana tomba di soldato”. Verso la fine della guerra viene pubblicato “Il tramonto dell’Occidente” di Spengler, libro dal quale Heidegger trae una profonda impressione, così come la maggior parte degli appartenenti alla sua generazione in Germania, e sappiamo che nel 1920 nell’ambito di un ciclo di lezioni parlò su Spengler. Ma le lezioni che tenne come libero docente a Friburgo e poi come cattedratico a Marburgo non hanno alcuna consonanza con la morfologia delle culture di Spengler; poiché in esse non si tratta di popoli, di imperi e delle loro evoluzioni storiche, bensì di verità, asserzione, evidenza, schematismo trascendentale ecc. Per molti suoi allievi, tra i quali Hans Georg Gadamer e Hannah Arendt, Heidegger era fin d’allora “il re nel regno del pensiero”, tra l’altro a motivo della profonda dignità con cui lasciava dilatare i ragionamenti astratti a un appello esistenziale all'”essere-se-stessi”.
Tutti quegli appelli prendevano appiglio dai problemi politici o da dati di fatto storici; nella misura in cui questi erano negativi, gli appelli erano improntati alla critica della civiltà ed erano sferzanti verso una “autocompiacente modernità scaduta nella barbarie”, o “il mestiere del logoramento della propria anima”, come egli scriveva in riferimento alla pratica corrente della psicologia e della psicoanalisi. Si potrebbe supporre che la turbolenza del pensiero storico e politico del periodo della Repubblica di Weimar – e in quel contesto la rivoluzione conservatrice – gli fosse rimasta in sostanza sconosciuta, se non ci fossero a darne testimonianza in contrario molti passi delle lezioni in cui ricorrono specifici riferimenti. Così, nel corso tenuto a Friburgo nel semestre invernale 1929 30 sui ‘Fondamenti della metafisica”, c’è un capitolo dal titolo “Quattro interpretazioni della nostra situazione odierna”, e si parla di quattro pensatori che più direttamente affrontano la tematica della rivoluzione conservatrice: Oswald Spengler, Luwig Klages, Max Scheler e Leopold Ziegler. Ma tutti e quattro sono presi in esame solo sotto il punto di vista storico del contrasto tra vita e anima, mentre tutta la massa delle loro analisi storiche e la molteplicità delle loro posizioni politiche Heidegger le trascura, come sembra, con un certo sussiego. Così, quando quell'”esistenzialismo” che fino ad allora aveva affascinato solo un ristretto numero di allievi, nel 1927 con “Essere e tempo” si era disvelato al grosso pubblico rendendo Heidegger famoso in tutto il mondo, che il supposto filosofo cattolico aveva assorbito in sé tanta parte del clima nichilistico e disperato del periodo di Weimar, da elaborare ora una sua filosofia anarchica della risolutezza dell’individuo nell’anticipazione della morte e della insignificanza del mondo del “si dice”, del “das Man”. In Heidegger degli elementi fondamentali della rivoluzione conservatrice solo uno è percepibile, e cioè la critica della civiltà moderna; manca invece ogni accenno al marxismo e alla guerra.
Evidentemente colpiva solo pochi lettori il fatto che nel paragrafo 74, peraltro senza eccessivo rilievo, il supposto individualista definiva il “destino” come “con-essere con gli altri” e come appartenenza a un “popolo” e finanche a una determinata “generazione”, avallando insieme il fatto che in quel quadro “l’esserci si scelga i suoi eroi”. Sembra che qui ci si trovi di fronte a un punto che schiude la possibilità della transizione alla storia contemporanea e alla politica. Ma se in quel tempo Heidegger che parlava di “attività fondamentali”, subito specificava che queste sono l’arte, la filosofia e la religione – mentre la politica non veniva assolutamente menzionata. Come si poteva fino al 1933 attribuire a quel filosofo un qualche rapporto con la “rivoluzione conservatrice”, e men che meno con il movimento politico di massa del nazionalsocialismo?
La più indicativa di tutte le dichiarazioni di Heidegger in materia politica fu fatta dal filosofo in una conversazione nella sua baita a San Silvestro nel 1931 32, alla presenza del suo allievo Hermann Mörchen, che sessant’anni dopo ha pubblicato questi appunti di diario presi nell’occasione. Mörchen scrive: “E così probabilmente parte della ripugnanza di Heidegger per la penosa mediocrità del partito nazionalsocialista venne a cadere, dal momento che prometteva soprattutto risolutezza e di potersi pertanto opporre efficacemente al comunismo. L’idealismo democratico e la coscienziosità di Brüning ormai non potevano portare più a nulla. In quelle circostanze a Heidegger sembrò di dover approvare la dittatura; e la cosa, grazie ai documenti di Bowheimer, ora non gli ripugnava più”.
I documenti Bowheimer provengono da Werner Best, che in seguito sarebbe diventato un alto ufficiale delle SS e plenipotenziario del Reich in Danimarca. Essi postulano drastiche disposizioni per l’eventualità di un tentativo di rivoluzione comunista. Tali documenti sono generalmente considerati oggi come una testimonianza particolarmente condannabile della nazionalsocialista
D’altro lato, si è sempre trascurato che da tempo erano note testimonianze comunista orientata alla guerra civile ancora più dure dei documenti Bowheimer e che, al di fuori dell’Unione Sovietica in nessun altro paese al mondo esisteva un partito comunista così forte come nella Repubblica di Weimar, un partito che ancora nel 1931 e nel 1932 era in continua crescita. In breve: a me sembra di dover delimitare la storia dell’impegno di Heidegger alla primavera del 1934, impegno che da allora in poi non può più dirsi incondizionato e che, addirittura, si muta nel suo opposto, cioè in un rapido distacco. Le risultanze a cui sono giunto possono essere pertanto così sintetizzate. Nelle su dichiarazioni pubbliche precedenti il 1933 Heidegger lasciava trapelare solo una delle caratteristiche principali della rivoluzione conservatrice, e cioè la critica della civiltà moderna. Di conseguenza solo in un senso molto lato sarebbe possibile annoverarlo tra gli esponenti della rivoluzione conservatrice. Nelle dichiarazioni private, però, egli si spinge inequivocabilmente più oltre, fino ad abbracciare anche l’antibolscevismo e la guerra come esperienza positiva. Heidegger, infatti, nel “risveglio nazionale” dell’anno 1933 vide una grandiosa occasione storica e una via d’uscita da una situazione intollerabile: il che lo accomuna agli altri rappresentanti della rivoluzione conservatrice, anche a quelli che più tardi sarebbero rimasti delusi dai nazionalsocialisti e sarebbero stati costretti all’esilio. Se un’etichetta politica gli era applicabile, allora era quella di “socialista nazionale”, posizione di chi respingeva la “grande soluzione” della rivoluzione mondiale bolscevica per sostituirla con la “piccola soluzione” di una “collettività nazionale” che riconquista la sua identità e il suo posto tra le altre nazioni. Che concordasse con Ernst Juenger, Oswald Spengler e Carl Schmitt anche in merito alla “guerra come esperienza positiva”, Heidegger lo lascia comunque trasparire solo in poche annotazioni. Del tutto indebito oltreché riprovevole, sarebbe però, grazie a riduttive generalizzazioni, questo punto di vista all’ala radicale del nazionalsocialismo e tantomeno al pensiero di Hitler: vale a dire, spostare la valutazione, o se si vuole il criterio dell'”esperienza positiva della guerra” a un programma politico imperialistico di guerra permanente. Che come quasi tutti gli altri conservatori rivoluzionari Heidegger abbia appoggiato il “risveglio nazionale” del cancelliere Hitler, nonostante la molteplicità di funesti auspici, non apparirà del tutto incomprensibile se si cerca di intendere la storia del secolo XX come continuo rischio di falsificazione di esigenze giuste, come incertezza e tragedia e non come ben definita e inequivocabile lotta tra la luce e le tenebre.
Occorre inoltre dire a chiare lettere che tutte le definizioni politiche a cui io stesso ho fatto ricorso in questa mia relazione restano nei riguardi di Heidegger sempre insufficienti. Il suo rapporto con la rivoluzione conservatrice c’è, ma non è in ultima analisi un rapporto di appartenenza, bensì di parallelismo e di parziale convergenza. Heidegger è entrato nella storia perché era un grande metafisico e solo per quella ragione.
Mi sia permessa una osservazione finale. Chi, a torto, ritiene che sia essenzialmente un anarchico l’Autore di “Essere e tempo”, ebbene legga il piccolo saggio “Il sentiero di campagna” e all’ultima pagina troverà riproposto il triplice interrogativo intorno a cui ruota tutta la filosofia di Heidegger: “Parla l’anima? Parla il mondo? Parla Dio?”. A mio avviso ben pochi filosofi hanno saputo esprimere l’intimo pathos della condizione umana, e in un modo così vicino al sentire cristiano, come Heidegger è riuscito a fare in questa espressione di straordinaria intensità: “Ovunque si aggiri, l’uomo, espulso dalla verità dell’essere, attorno a se stesso si aggira in quanto animale razionale”. Sant’Agostino aveva detto: “è animale razionale l’uomo perché egli si fa problema a se stesso, è un gran problema”. I grandi spiriti si incontrano nelle grandi questioni.
Nota: Trascrizione della conferenza rivista dall’Autore.