Sono molto grato per questo invito e per la possibilità di questa riflessione insieme. La mia introduzione nasce dall’osservatorio del segretariato del CCEE e cerca di esprimere, in modo piuttosto schematico, alcune delle preoccupazioni che stanno a cuore alle Conferenze episcopali e alle Chiese in Europa circa lo storico momento che il nostro continente sta vivendo.
Le Chiese stanno seguendo con particolare interesse il processo della unificazione europea che avrà una sua tappa storica il 1 maggio 2004 con l’entrata nell’Unione di 10 nuovi paesi, in maggioranza dell’est europeo, e con la firma del trattato costituzionale europeo.
Davanti a questo processo le Chiese hanno sempre guardato a “tutta” l’Europa. Sulla scia di Giovanni Paolo II, esse non amano tanto parlare di allargamento dell’UE, ma piuttosto di “ri-unificazione” dell’Europa o di “europeizzazione” dell’Europa: l’Europa è già quella di tutte le nazioni, dei popoli, delle culture, delle Chiese e non quella di un gruppo di paesi. Con il nuovo sviluppo dell’Unione Europea deve chiudersi il capitolo drammatico di un continente diviso ideologicamente da un muro – eredità della guerra mondiale – e aprirsi un nuovo capitolo: un’Europa “a due polmoni”. Occorre ascoltare con attenzione anche le paure che sono espresse nell’est Europa, specie dalle Chiese ortodosse: cosa ne sarà della tradizione orientale, con i suoi valori, se finirà in braccio a un occidente secolarizzato e relativista? L’occidente non faccia un’opera di imposizione della propria cultura: sarebbe destinata al fallimento.
Inoltre le Chiese non sono interessate ad un’Europa fortezza, chiusa nel proprio benessere, ma ad un continente che diviene più stabile per meglio realizzare lo scambio di doni con le altre regioni della terra e contribuire alla giustizia e alla pace del mondo. Il vero punto di interesse è la fratellanza universale e non il benessere di un solo continente. L’Europa è uscita ferita dalla crisi dell’Iraq e deve oggi riposizionarsi nell’ordine internazionale. Questo implica un ripensare e ricostruire il ponte transatlantico, ma anche un confrontarsi con l’Asia che sempre più diventa protagonista sulla scena geo-politica mondiale, anche per l’andamento demografico della popolazione mondiale. Anche la Chiesa europea è chiamata a nuovi e più intensi rapporti con le Chiese degli altri continenti. Nel mese di febbraio di quest’anno sono stato in Colombia per incontrare i segretari delle Conferenze episcopali dell’America Latina e dei Carabi (CELAM) e dal 7 al12 ottobre scorso ho partecipato all’assemblea dei vescovi dell’Africa e Madagascar (SECAM) a Dakar/Senegal. Per il 2004 abbiamo in progetto un simposio di vescovi europei e africani su temi di comune interesse.
1.2. La Chiesa ed il trattato costituzionale europeo
Perché questo si realizzi, è fondamentale che tutta la costruzione europea sia illuminata da un’”idea”, una “visione”. Essa dovrebbe essere contenuta nel Trattato costituzionale la cui bozza attuale è stata elaborata dalla Convenzione – formata dai delegati dei governi e dei parlamenti degli stati membri dei paesi dell’UE e dei paesi candidati, del parlamento europeo e della commissione europea – che ha iniziato i suoi lavori il 28 febbraio 2002.
Il vertice europeo di Bruxelles del dicembre 2003, con la presidenza italiana, ha fallito nell’approvazione del trattato. Difficile oggi dire se si arriverà ad un consenso prima dell’entrata nell’Unione dei nuovi paesi come qualcuno auspicherebbe.
Riguardo al trattato, nella mia presentazione, mi limito ad accennare a tre temi che sono particolarmente importanti per le Chiese.
È pienamente condivisibile la lista dei valori che troviamo nell’articolo 2 del progetto di testo del trattato costituzionale ed il primo posto dato alla dignità umana: “L’Unione si fonda sui valori di rispetto della dignità umana, libertà, democrazia, stato di diritto e rispetto dei diritti umani”. Altrettanto è significativo il primato allo scopo della pace che apre l’articolo 3, dedicato ai fini dell’Unione. Questi elementi sono centrali nel magistero sociale pontificio della Chiesa cattolica: “Invano si cercherebbe di estrapolare dal magistero pontificio una precisa indicazione circa la tecnica istituzionale da adottare nella configurazione di un governo europeo sopranazionale. La Chiesa cattolica ha una sua dottrina sociale che non privilegia sistemi partitici né geopolitici particolari, ma procede come per cerchi concentrici. Al centro dell’attenzione e della considerazione vi è la persona umana e poi, attorno, come appunto per cerchi concentrici, vengono tutti gli ambiti nei quali si sviluppano le relazioni umane, sociali e politiche: dalla famiglia alla comunità locale con le sue varie aggregazioni, fino alla comunità nazionale e ai rapporti internazionali.” (Celestino Migliore, già sotto-segretario vaticano per il rapporto cogli stati, La Santa sede e l’Europa, in Il Regno Documenti, 9/2002, pagg. 317).
Il problema che resta aperto per il capitolo dei valori è quello del loro fondamento, del loro contenuto e della loro interpretazione. Non è sufficiente una vuota retorica dei valori. Nel nome dello stesso valore si possono sostenere posizioni del tutto contrarie: per esempio, la dignità umana viene citata sia per lottare contro l’aborto, sia a favore dell’aborto. L’impegno nell’ambito dei valori e dei diritti umani è urgente per non “abbandonare” un campo in cui la Chiesa ha qualcosa di veramente originale e autorevole da dire. L’impegno è anche necessario per non cadere in forme di impasse tra diritti umani e religione, tra diritti umani e diritto canonico. C’è il rischio, infatti, che alcuni insegnamenti o pratiche vissuti dalla Chiesa vengano ideologicamente visti come contrari ai diritti della persona o ai “nuovi diritti” come ad esempio nel caso del diritto alla vita sessuale. Incoraggiare a scelte come verginità, astensione dai rapporti prematrimoniali… potrebbe essere impugnato come contrario ai diritto alla vita sessuale!
1.2.2. Il riconoscimento giuridico dell’identità e del ruolo della Chiesa
La necessità di avere una luce che fondi e guidi l’interpretazione dei valori e l’importanza di riconoscere che il potere pubblico non è assoluto, sono certo tra i motivi dell’attesa da parte delle Chiese che il trattato costituzionale garantisca spazio alla religione ed alla libertà religiosa.
Giovanni Paolo II è tornato insistentemente e con forza sull’argomento in questi tempi: “Se qualcuno intendesse marginalizzare le religioni cha hanno contribuito e ancora contribuiscono alla cultura e all’umanesimo dei quali l’Europa è legittimamente fiera” ciò “sarebbe al tempo stesso un’ingiustizia e un errore di prospettiva” (Discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 10.1.2002).
a. I primi due paragrafi riprendono la dichiarazione n. 11 già contenuta nel trattato di Amsterdam.
b. Il paragrafo n. 1 offre una garanzia legislativa ai concordati o trattati o accordi o intese esistenti a livello nazionale tra Chiesa e Stato.
c. Sarebbe più coerente collocare il paragrafo n. 2 altrove nel Trattato, per salvare la specificità delle Chiese e organizzazioni religiose.
d. Particolarmente interessante il terzo paragrafo che parla di un dialogo regolare (le Chiese avevano chiesto in realtà un dialogo “strutturato”) e soprattutto riconosce l’identità e il contributo specifico delle Chiese. Questo paragrafo rischiava di essere integrato nell’articolo dove si parla dei rapporti dell’Unione con la società civile. L’opzione di scrivere un articolo a parte è un importante riconoscimento della peculiarità delle Chiese rispetto agli altri organismi della società civile.
Un altro punto che ha suscitato e sta suscitando grande discussione, anche nell’opinione pubblica, con posizioni contrastanti, è quello della possibilità di un riferimento esplicito a Dio o alle radici cristiane nel preambolo o nel testo stesso del trattato.
Il testo è migliorato, perché si è eliminato il paradosso di riferirsi alle radici dell’Europa senza nominare il cristianesimo. La frase più incriminata è stata semplicemente eliminata. Tuttavia si è scelto la strada dell’impersonalità, del generico e del tentativo di trovare un consenso su un minimo comune denominatore: “retaggi culturali, religiosi e umanistici”.
1.2.4. Qualche osservazione circa il dibattito sulla religione e il cristianesimo
Il dibattito è stato particolarmente vivo, interessante ed anche doloroso. Perché tanta difficoltà a citare il cristianesimo? Pesano: contrasti ideologici già piuttosto datati; l’autoritarismo di un certo laicismo; ma soprattutto una incomprensione di fondo del fatto religioso e cristiano: alcuni pensano a una questione di privilegi, altri alla necessità di dividerci una torta; alcuni ritengono che citare il cristianesimo sarebbe un torto alle altre religioni, altri che sarebbe un pericolo per la laicità… C’è una sorta di paradosso. Da un lato le istituzioni europee sono aperte alle Chiese in quanto comprendono che esse hanno un grande contributo da dare specie riguardo la base etica, l’”idea” dell’Europa e sul versante della pace e del senso della vita. Dall’altra si sente una specie di allergia diffusa verso tutto ciò che è legato alla religione o la tendenza a considerare la religione come fatto esclusivamente privato o almeno la convinzione che Dio e religione hanno niente a che fare con un trattato giuridico. Non possiamo anche negare problemi “nostri”, interni, che creano difficoltà: l’incapacità di mostrare che non si tratta di difendere dei privilegi; la divisione fra le Chiese; lo sfruttamento della religione o del nome di Dio per posizioni violente come nel caso della crisi dell’Iraq.
2. Per una nuova prospettiva
Invece di tentare la via di trovare un consenso su un minimo comune denominatore, sarebbe il tempo di cercarlo sul massimo. Occorre volare più in alto. Non si tratta di trovare un minimo su cui tutti si trovano impersonalmente e “noiosamente” d’accordo, ma esplorare la ricchezza più vera e profonda che ognuno e ogni esperienza può dare. Il cristianesimo ha qualcosa di grande da dare non tanto come generica esperienza religiosa, ma come la specifica rivelazione di Gesù Cristo morto e risorto. È Lui il punto interessante per tutti! Il tentativo di accontentare tutti annacquando ogni cosa non contiene alcuna novità ed è sottilmente violento, perché non rispettoso della vera e profonda identità di ciascuno.
2.1. Il problema o la domanda
Invece di dare l’impressione di spartirci privilegi o briciole, proviamo a partire “insieme” dai problemi “seri” che gli europei devono affrontare. Per esporre la sfida fondamentale che è presente nella storia di oggi, faccio a riferimento ad un’esperienza culturale tipica del Mediterraneo: le tragedie dei greci. In un paese “mediterraneo” come l’Italia, mi viene spontanea una domanda: perché i greci, padri della cultura europea, in questo nostro sud dell’Europa hanno scritto le tragedie? Spesso si è affermato che i greci erano un popolo amante della vita, solare, capace di divertirsi, danzare, giocare con l’esistenza. Perché allora proprio essi, così vitali, hanno scritto le tragedie? I greci in realtà erano ben consapevoli del fatto che la vita è tragica, in quanto è segnata dal male, ma essi hanno tentato l’impresa più ardua, cioè hanno cercato di trasfigurare il tragico della vita, il male, il negativo, in un’opera d’arte, in un teatro, per farne un oggetto di meraviglia, di ammirazione, di spettacolo. Questa mi sembra la più grande sfida, quella estrema: c’è un segreto per trasformare il tragico della vita e il male in un capolavoro artistico, in uno spettacolo? o si tratta di pura illusione? Forse possiamo trovare un consenso sul fatto che questo è il problema radicale di tutti.
Sono soprattutto due gli spazi del tragico che i greci ben conoscevano e che anche oggi, mi sembra, costituiscano le due domande di fondo che l’Europa pone ai cristiani e alle Chiese.
a. Il primo spazio dove la tragedia può esplodere è quello della convivenza tra i popoli, le culture, le etnie, le religioni. È la questione della pace. Sono stato a visitare Dachau e Auschwitz. Nel mese di agosto 2002 ho pregato con una delegazione europea nel Lager di Karaganda (Spassk) nelle immense steppe del Kazakstan. Il 3-6 ottobre 2002 abbiamo realizzato l’assemblea plenaria del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (CCEE) a Sarajevo, città simbolo di una catastrofe. Come costruire una “casa” europea capace di ospitare popoli diversi, senza, da un lato, annientare le singole identità con sistemi totalizzanti e senza, dall’altra, cadere nel conflitto distruttivo tra le differenze o nel terrorismo? Come assumersi, in quanto europei i problemi dell’umanità intera, specie del sud del mondo, in una logica di scambio di doni? È giunta l’ora di un salto di qualità storico nei rapporti fra gli uomini?
b. Il secondo spazio di tragedia, ancora più radicale, è quello del senso della vita. Esiste un senso al vivere e alla storia? Il dolore e la morte sono l’ultima parola per l’uomo e come tali sono lo scacco ad ogni mio desiderio? È emblematico un testo di Nietzsche: “L’uomo era principalmente un animale malaticcio: ma non la sofferenza in se stessa era il suo problema, bensì il fatto che il grido della domanda “a che scopo soffrire?” restasse senza risposta (…) L’assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che fino ad oggi è dilagata su tutta l’umanità”[2]. Questa domanda esistenziale di fondo è ridiventata più udibile in un’Europa post-ideologica. Essa rimanda immediatamente alla domanda sul trascendente, su Dio. Ad essa sono anche legate le grandi questioni etiche che l’umanità affronta: dalla biomedicina all’ecologia. C’è un bene o qualcuno a cui posso affidare la mia vita in grado di rispondere al mio desiderio di vita, di felicità, di festa, di affetto e di eternità e che sia criterio per il mio agire?
Probabilmente siamo ancora tutti d’accordo sul fatto che questi sono i reali spazi di tragedia che dobbiamo affrontare.
2.2. Il segreto del cristianesimo
Davanti a queste domande di fondo o spazi di tragedia, ci ridomandiamo anche noi oggi in Europa: c’è una via per passare dentro il tragico della vita e trasfigurarlo in “opera d’arte”? Chi può dirci qualcosa o offrirci una luce per queste domande di fondo decisive per l’umanità? In realtà queste questioni appartengono al cuore dell’esperienza cristiana.Per trovare il segreto possiamo ripartire da quella cattedra „inattesa e scandalosa“ che è il Dio Crocifisso, quando si fece buio su tutta la terra e il Figlio giunse a gridare l’abbandono da Dio: la grande tragedia della storia. È dalla Pasqua che possiamo ripartire per incontrare la nostra cultura europea. Il Cristianesimo ha nel suo cuore una „morte di Dio“ e una notte che sono andate aldilà di ogni proclamazione culturale del nulla o della „morte di Dio“.
Nella tragedia della vita il Cristo ha introdotto la novità dell’amore. Egli ha vissuto la sofferenza e la morte come la più grande chance per amare. “Non c’è amore più grande di colui che da la vita per i propri amici”. L’amore vissuto dal Cristo e da Lui portato sulla terra è l’origine della casa e della comunione tra gli uomini: nasce una nuova socialità che ha le sue radici nel seno della Trinità di Dio dove il vivere coincide con il dono totale di sé all’altro. Quando le nostre identità, le nostre diversità ed i nostri talenti diventano dono e questo è vissuto reciprocamente si aprono sentieri di riconciliazione in ogni ambito: da quello ecumenico a quello politico.
Il Risorto, vita e bellezza eternizzata, presente fra noi, rende eterno anche il nostro desiderio di festa, di bello, di vero e lo salva dallo scolorimento e dalla morte. Il senso esiste perché l’Eterno è entrato nel tempo ed ha assunto in Sé la nostra storia concreta.
2.3. Il contributo delle Chiese per l’Europa.
2.3.1. Il primo contributo che le Chiese possono dare all’Europa è il cristianesimo stesso, il vangelo. Da alcuni anni ormai parliamo, anche sulla scia di Giovanni Paolo II, di una evangelizzazione di nuova qualità per l’Europa. A questo riguardo vorrei fare alcune osservazioni.
a. La responsabilità di ridonare il vangelo all’Europa non nasce solo dal fatto che l’Europa ha radici cristiane (questo è un fatto che direi ovvio: non si può comprendere nulla dei due ultimi millenni dell’Europa senza il riferimento al cristianesimo), ma dal fatto che il cristianesimo in se stesso – direi in termini oggettivi – è un dono per l’umanità. Parlando un po’ paradossalmente direi: se anche scoprissimo che l’Europa non ha radici cristiane, sarebbe responsabilità dei cristiani donare ora, per la prima volta, all’Europa il grande dono di umanità, di socialità, di fraternità e di trascendenza che è contenuto nella rivelazione cristiana. Questo non significa introdursi in vicoli fondamentalisti. L’essere cristiani e il credere nella verità cristiana è essere discepoli di un Signore che dà la vita per l’altro, perché l’altro esista.
b. Mi sembra importante ancora un chiarimento. Non dobbiamo rischiare di confondere cristianesimo e occidente: se vogliamo comprendere cosa è il cristianesimo dobbiamo guardare a Gesù Cristo. Il cristianesimo non coincide mai con nessuna realizzazione storico-culturale e quindi neppure con l’Europa o l’occidente, pur riconoscendo la “vocazione” speciale e il ruolo storico dell’Occidente per la storia del cristianesimo.
2.3.2. Co-essenziale alla dimensione dell’evangelizzazione è quella della comunione. Vedrei nel futuro dell’Europa in particolare tre luoghi di comunione o tre sentieri prioritari da percorrere. Essi mi sembrano tre contributi essenziali per la “ri-unificazione” dell’Europa.
a. La universalità o cattolicità. Nel suo senso più ampio la cattolicità è la possibilità di realizzare una comunione universale, un’unità, senza alcun tipo di frontiera, in modo che le differenze non siano cancellate, ma piuttosto si realizzino nella loro identità.
b. L’ecumenismo. Nonostante le situazione di „crisi“ che tutti conosciamo, viviamo segnali di speranza. Durante l’assemblea ecumenica europea che si è svolta a Graz nel 1997 si è percepito che c’è un popolo ecumenico che abita l’Europa, e che incarna uno stile di vita di comunione e una ricerca della riconciliazione e della collaborazione a tutti i livelli. L’ecumenismo è uscito dalle strutture istituzionalizzate, dalle facoltà, da cerchie ristrette di pionieri e sta diventando un’esigenza di tanti cristiani d’Europa, un fatto “normale” e questo indica che è iniziata una nuova fase del cammino di riconciliazione.
Un’esperienza paradigmatica è il processo avviato dal Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) insieme alla Conferenza delle Chiese d’Europa (KEK) costituito dalla Charta Oecumenica – Linee guida per la crescita della collaborazione tra le Chiese in Europa. Si tratta di un documento, firmato ufficialmente a Strasburgo il 22 aprile 2001. La Charta Oecumenica contiene 26 impegni che le Chiese in Europa sono invitate ad assumersi per rendere di nuovo visibile storicamente l’”una, santa, cattolica, apostolica” Chiesa di Cristo[3].
La terza parte della Charta Oecumenica – la più ampia – delinea i contributi fondamentali che le Chiese sono chiamate ad offrire all’Europa: ‘La nostra comune responsabilità in Europa’.
Le Chiese, senza pretendere di avere una riposta esaustiva su tutti i problemi della società e della cultura, si sentono responsabili di contribuire a plasmare l’Europa.
c. L’incontro tra le religioni. L’incontro con le altre culture e fedi è diventato un fatto in conseguenza del fenomeno delle migrazioni o più in generale della mobilità umana. Ma il tema ha assunto un’impressionante attualità dopo l’11 settembre: sembra quasi che la religione sia divenuta di moda! Paradossalmente si può dire che il terrorismo ha richiamato l’attenzione del mondo sulle religioni e sul loro ruolo per la costruzione (o la distruzione!) della pace.
Nella Chiesa questo tema è stato affrontato da decenni, ma la novità è che esso, ora, è affrontato anche dalla politica, dai governi, dalla società civile. Questo può avere un lato positivo, ma contiene anche il rischio che le religioni si ritrovino il dialogo fra loro come un’imposizione, secondo criteri politici, cioè esterni al fatto religioso. La Chiesa deve riprender in mano questo dialogo alla luce della sua grande esperienza.
Per realizzare questo senza equivoci o pericolose superficialità, è giunto il momento dell’approfondimento. È urgente in particolare un approfondimento dei concetti di verità, identità, dialogo, carità, annuncio, per evitare sterili contrapposizioni o riduzioni.
È emblematico il fatto che la terza parte della Charta Oecumenica dedichi il maggior numero di capitoli al tema della riconciliazione tra culture e religioni: “Riconciliare popoli e culture” (n.8); “Approfondire la comunione con l’Ebraismo” (n.10); Curare le relazioni con l’Islam (n.11); “L’incontro con altre religioni e visioni del mondo” (n.12). C’è coscienza che il primo contributo che possiamo dare all’Europa è l’esperienza di riconciliazione, di dialogo, di pace che possiamo vivere tra noi credenti in Dio, insieme alla difesa della centralità della persona umana e la proposta di un senso.
2.3.3. E infine un accenno sulla vocazione culturale dell’Europa. Nonostante tutti i sentieri interrotti, smarriti o anche devianti che l’Europa ha intrapreso, essa ha prodotto enormemente nel campo della cultura ed è stata anche il luogo in cui la cultura si è lasciata rinnovare dal cristianesimo. Nell’Europa ci sono idee impazzite, ma ci sono idee! La nostra responsabilità è di ridare ordine, unità e senso a queste idee. L’Europa può tentare un salto di qualità storico a livello di umanità, socialità, diritti, doveri, dignità, libertà, fraternità… se ritorna a quella sorgente che rende possibile questa novità. Dall’Europa sono partiti i testimoni del vangelo verso tutti i confini del mondo: questo appartiene alla sua vocazione ed è quindi irrinunciabile anche oggi. Un’Europa nuovo laboratorio di inculturazione del cristianesimo, dell’evangelizzazione e dell’incarnazione storica del cristianesimo, sarà molto significativa per gli altri continenti. Se l’Europa sarà se stessa – “diventerà ciò che è” – potrà sperimentare il dono che è contenuto nelle altre regioni e culture e potrà comprendersi più in profondità.
In conclusione
Da queste veloci osservazioni forse si intuisce che dietro alle attese dei cristiani non c’è solo l’interesse di vedere riconosciuto il ruolo e la libertà delle Chiese, che pur sono fondamentali. Quello che interessa è soprattutto il non chiudere il cielo dell’Europa nei puri confini del terrestre e del mortale, che finalmente coincide con il non senso. Desideriamo lasciare il cielo aperto per una trascendenza ed un mondo di valori che, come cristiani, riteniamo sia la via per disinnescare l’odio e per realizzare pienamente la persona umana.
C’è un proverbio arabo che mi piace particolarmente: “Se vuoi tracciare un solco diritto, attacca il tuo aratro ad una stella”. Il nostro primo compito come Chiese e comunità ecclesiali in Europa è quello di indicare la stella per eccellenza: Gesù crocifisso e risorto. Da lui derivano anche le tracce per un cammino diritto per l’Europa. Sono grato di poter percorrere questo cammino con tanti amici, fratelli e sorelle nella fede in questo momento storico.
NOTA: testo rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 6.2.2004 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.