Come il Nuovo Testamento e la Chiesa nascente giudicano il potere politico e si rapportano ad esso? Il Nuovo Testamento mette sotto gli occhi del lettore i due comportamenti, non con-traddittori, ma dialetticamente complementari dei cristiani: da una parte, la piena lealtà verso lo Stato e, dall’altra, la resistenza non violenta, fino all’accettazione del martirio, per non piegarsi a ingiunzioni statuali che ledano le loro coscienze.
I cristiani conoscono bene i loro obblighi verso la polis e non hanno certo bisogno di coerci-zione per fare la loro parte.
Col loro sistema di vita vanno ben oltre l’osservanza delle leggi; essi, infatti, agiscono non per paura di punizioni, ma “per motivo di coscienza”(Rm 13, 5) e “per amore del Signore” (I Pt 2, 13). Non c’è umana convivenza senza una legge e non c’è legge senza un potere che la faccia rispettare.
Lo Stato è necessario, di contro alle numerose e sempre rinascenti forze dell’egoismo e della disgregazione. Garantire la pace, la giustizia, la solidarietà tra i membri di un corpo sociale è un bene comune indispensabile alla stessa sopravvivenza della società e lo Stato è lo strumento non unico, ma preminente per la sua attuazione. Grande, quindi, è il compito assegnato da Dio alle autorità politiche, le quali sono necessarie, vanno rispettate (Rm 13, 7; I Pt 2, 17) e obbedite (Rm 13, 2). Anzi Paolo, con un eccesso di realismo, precisa: “quelle che esistono” (Rm 13, 1) e non solo quelle autorità ideali che vorremmo ci fossero.
Il fondamento della loro posizione è un decreto di Dio che, volendo la socialis vita hominis, ne vuole anche gli strumenti. Insomma “l’autorità politica è al servizio di Dio per il bene” (Rm 13, 14) e, pertanto, a causa dell’importanza decisiva della loro funzione, tutti coloro che sono preposti al bene comune, lo sappiano o no, cooperano al “disegno stabilito da Dio” (Rm 13, 2) e per essi i cristiani devono pregare (I Tm 2, 1). L’assetto sociale e politico richiede per la sua consistenza, stabilità e organicità la potestas, quali che siano i modi contingenti in cui possa esercitarsi e le persone che ne siano investite.
L’ordine sociale e politico è un bene necessario “poiché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità” (I Tm 2, 2), sì che sia consentito allo spirito umano di volgersi sicuramente a più alte mete.
Queste considerazioni volgono per ogni Stato e autorità politica in quanto tali, perché attengono all’ufficio che è loro proprio, alla loro stessa ragion d’essere. Esse esprimono un principo generale e non implicano affatto un riferimento ad alcuna investitura personale. Contro certe forzature in senso anarcoide del messaggio evangelico, appare invece evidente che il cristiano non deve aver paura dello Stato e tanto meno nutrire sentimenti di preventiva ostilità nei suoi confronti. Su questo punto il pensiero delle “colonne” della Chiesa – Pietro, Paolo e Giovanni – è concorde, esplicito, e a noi sembra anche antiveggente, se si pensa che gli apostoli scrivevano quando la persecuzione era incombente o già in atto e si rivolgevano a persone che erano ingiustamente minacciate, braccate e messe a morte come la peggior canaglia.
Né si deve dimenticare che i capi degli apostoli si rivolgevano agli uomini della prima generazione cristiana, tra i quali la diffusa persuasione che la venuta gloriosa di Gesù fosse assai prossima poteva alimentare la tendenza a mettere tra parentesi l’oggi e le sue imprescindibili esigenze.
Il Nuovo Testamento, però, non mitizza lo Stato, le sue istituzioni, i suoi rappresentanti, né assolutizza mai la sfera politica. Non nutre illusione alcuna nei loro confronti. L’azione politica – statuale o no – non è mai trasfigurata e associata all’azione salvifica. Mai nel Nuovo Testamento si pone l’annuncio religioso a supporto di un’ideologia politica, come facevano al tempo di Gesù i “rivoluzionari messianici” (Barabba era uno di loro e, a quanto pare, anche Giuda il traditore). I cristiani debbono portare il loro ethos, il loro senso di responsabilità e di servizio anche nei rapporti politico-sociali e nelle strutture statali, per umanizzare sempre di più gli uni e le altre; ma essi non configurano affatto lo Stato come una specie di riflesso terreno della Gerusalemme celeste e della sua gloria. Desideri del genere potevano ancora essere presenti nell’Antico Testamento, ma sono screditati per sempre nel Nuovo Testamento, che sconfessa ogni esercizio clericale del potere. Cosa del tutto diversa è porre il problema – e il Nuovo Testamento lo fa apertamente – della mutua, funzionale, necessaria indipendenza e convivenza tra Chiesa e potere politico. Ma perché una possibilità pratica, estranea alla mentalità onninclusiva dello Stato dell’antichità classica, potesse sorgere, occorreva che lo Stato riconoscesse – cosa non facile e interamente nuova, rivoluzionaria! – accanto alla sua, un’altra basiléia, la sovranità di Dio.
Il testo base del Vangelo sull’argomento è il racconto della moneta del tributo. I seguaci del partito di Erode e i discepoli dei farisei pongono a Gesù una domanda subdola; infatti, una qualsiasi risposta, il sì come il no, avrebbe reso Gesù gravemente sospetto all’autorità romana di Palestina, o a quella parte, certamente considerevole, del popolo d’Israele che univa attesa messianica al rifiuto della soggezione allo straniero. La domanda era: “È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Gesù, conoscendo la loro astuzia, rispose loro: “Mostratemi una moneta. Di chi porta l’immagine e l’iscrizione?”. “Di Cesare”, gli risposero. Allora disse: “Date dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Gli interlocutori malevoli di Gesù, non potendo davanti al popo¬lo trovare niente da riprendere nelle sue parole, colpiti per la sua risposta, stettero zitti. Que¬sto l’episodio presentato dai Sinottici in poche battute e negli stessi termini (Mc 12, 13-17; Mt 22, 15-22; Lc 20, 20-26).
Le parole di Gesù sono particolarmente efficaci nel rendere vana la trappola che gli era stata tesa, ma vanno ben oltre la situazione polemica che le aveva provocate: poche altre, in verità, ebbero nel mondo una risonanza tanto vasta, che si accresce col passare dei secoli. “È la prima volta – è Fustel De Coulanges, lo storico della Città antica, a ricordarlo – che si distingue così nettamente Dio dallo Stato. Perché Cesare, in quell’epoca, era ancora il sommo pontefice, il capo e il principale organo della religione romana; era il custode e l’interprete delle credenze, teneva nelle sue mani il culto e il dogma. La sua stessa persona era sacra e divina: era, infatti, precisamente uno dei caratteri della politica degli imperatori che, volendo riprendere gli attributi della regalità antica, avevano cura di non dimenticare quel carattere divino che l’antichità aveva attribuito ai re pontefici e ai sacerdoti fondatori. Ma Gesù Cristo spezza quest’alleanza che il paganesimo e l’impero volevano rinnovare; proclama che la religione non è più lo Stato, e che obbedire a Cesare, non è più lo stesso che obbedire a Dio”.
Il principio formulato con estrema brevità e chiarezza da Gesù ha immesso nella storia un dinamismo di eccezionale importanza, un valore che a partire dal Vangelo è diventato costitutivo per la civiltà, un sicuro criterio di giudizio e autenticazione della vita propriamente religiosa. “È lì la sorgente della libertà di coscienza”, il “grande fatto” innovativo della storia che ebbe inizio con la Chiesa nascente – scrive il Guizot nella terza lezione della sua Storia generale della civiltà in Europa. E la riflessione dello storico francese coglie nel segno.
Giornale di Brescia, 24.6.1995.