Nel 410, la notte del 24 agosto, aperta per tradimento la porta Salaria, Alarico e i goti irruppero in Roma. Tre giorni durò lo scempio; raro, unico freno la pietà religiosa. Quando la notizia giunse a Gerolamo, che nella pia solitudine di Betlemme stava lavorando al commento dei Profeti, la costernazione del dalmata fu tale che fu incapace per molti giorni di pensare ad altro. Erano morti fratelli e sorelle, amici cari, «Si è spenta la luce di tutto il mondo. Nella sola Roma – egli scrive – il mondo intero è perito». Anche Agostino, vescovo a Ippona, ne fu scosso nell’intimo. Egli vedeva con i suoi propri occhi che anche le civiltà sono periture. Qual è dunque il senso della storia, di quel misterioso intreccio di bene e male che caratterizzano il cammino umano in ogni movimento?
Bisogna riconoscere un valore, un senso al cammino umano, ora trionfale, ora doloroso, che si svolge attraverso la durata della storia, o la storia è nient’altro che un tessuto di cose labili, che inesorabilmente svaniscono nel nulla?
A questa domanda Agostino risponde con l’opera “Città di Dio”, che oggi il lettore italiano può leggere nelle edizioni Rusconi, nella nuova traduzione, bella e fedele, di Luigi Alici. Agostino cominciò a scrivere la “Città di Dio” sotto l’impeto di violente emozioni: il sacco di Roma del 410 da parte dei Visigoti e di Alarico, l’incontro in Africa con i profughi in fuga dall’Italia, le accuse della società pagana contro i cristiani. Gli dèi sono sdegnati, si diceva, ed hanno abbandonato la custodia dell’Urbe e dell’Impero. L’opera fu scritta lentamente, nell’arco di quasi un ventennio, interrotta spesso da altri impegni pastorali e dottrinali (le controversie con i donatisti e con i pelagiani), giungendo a compimento negli ultimi anni di vita del Santo. Allora anche la sua città, Ippona, stava per essere investita ormai dalle ondate barbariche dei Vandali. Nella prima parte (libri I-X) l’opera è come l’ultima delle apologie cristiane contro gli dèi «falsi e bugiardi». Ma nella seconda parte (libri XI-XXII) la “Città di Dio” rappresenta l’espressione più viva della speranza cristiana nella disperazione d’una civiltà in rovina e stabilisce i fondamenti per inscrivere in un significato generale i grandi eventi storici, la piccola vicenda personale come le grandi svolte dell’umanità, così che l’oscuro non-senso si dissolve. E ciò basta a sorreggere le forze e ad animare la pazienza dell’uomo.
Al di là della spinta che ad Agostino venne dagli avvenimenti sconvolgenti di quegli anni, a veder bene, il preannuncio della “Città di Dio” è nelle “Confessioni”. La percezione e la misura del tempo nella coscienza, l’indagine sulla struttura del tempo e sulla memoria senza di cui non c’è coscienza e non c’è storia, l’interrogarsi continuo sul destino dell’uomo, di cui è ben presente la dimensione sociale e storica, diventano nella più vasta opera della maturità sforzo poderoso di abbracciare «l’intero, ampio arco dei secoli» (Ep. 102, 3) e di collegare la «rivoluzione delle età» alla rivelazione della sapienza di Dio, Coscienza delle coscienze, a cui tutto si commisura. Nella “Città di Dio” Agostino scruta gli abissi di miseria e grandezza dell’uomo nella storia con lo stesso stupore con cui li aveva scrutati in se stesso. Quell’opera, «grande e ardua» come egli stesso la chiama, meriterebbe già un posto di primo piano nella storia della cultura per il grande apporto critico di Agostino; egli, infatti, sgombra il terreno con un netto rifiuto nei confronti dei miti che dominavano gli animi e la cultura: la teoria dell’eterno ritorno, il perfettismo utopico, il conservatorismo come categoria storiografica e come forma mentis. Sono tre miti che uccidono il senso storico, perché rendono impossibile spiegare il tempo, il cammino umano nel tempo, quella distensio humanitatis che è la storia. Quelle concezioni, che circolano ancor oggi in modi diversi, suonano come altrettante negazioni della storia, anche se nessuno dei loro sostenitori osa apertamente dissociarsi dal progetto di Erodoto di «impedire che le azioni compiute dagli uomini si cancellino con il tempo».
La teoria dell’eterno ritorno circola in tutta la tradizione greco-classica. «Secondo la concezione ciclica del tempo – annota Agostino – la natura si rinnova e si ripete continuamente nelle cose, e così lo svolgersi dei secoli, che vanno e vengono, si prolunga senza fine, sia che questi cicli si manifestino nel mondo che permane, sia che il mondo, nel suo nascere e nel suo morire a intervalli ben definiti, mostri sempre la medesima realtà, passata e futura, come se fosse nuova» (“Città di Dio” XII, 14). Questa dottrina appare agli occhi di Agostino «falsa e inqualificabile», un «oltraggio» (ludibrium) alla dignità dell’uomo. Essa, infatti, compromette il carattere di novità di ogni essere che viene a questo mondo, l’immortalità personale, la salvezza dell’uomo nella sua singolarità ed eleva assurdamente la ripetizione dell’identico – principio su cui si può fantasticare, ma di cui non si dà dimostrazione alcuna – a supremo postulato metafisico: tutto quel che può accadere deve esser già una volta accaduto. E l’eterno ritorno rimane insostenibile anche nella contraddittoria interpretazione etica che cercò di darne, sul finire dell’Ottocento, Nietzsche, sovrapponendo, secondo le sue stesse parole, «il supremo fatalismo, identico col caso, con la creatività», sì che il compito da realizzare è insieme, inseparabilmente, fatto, necessità ineluttabile («agisci in modo che tu debba desiderare di vivere di nuovo – tanto ciò accadrà in ogni caso» è l’imperativo di “Così parlò Zarathustra”, III). Occorre una nuova nozione del senso della durata per affrontare i problemi elusi dalla teoria ciclica. L’eterno ritorno è un mito che nega il carattere originale e contingente di ogni evento storico ed è un pessimo surrogato dell’eternità di Dio. Per Agostino è impossibile trasformare il relativo, il contingente – ciò che l’esperienza e il ragionamento ci attestano che può essere o non essere, e può essere in un modo piuttosto che nell’altro – in qualcosa di assoluto e di necessario. Nel flusso della storia c’è compenetrazione del passato, del presente e del futuro atteso o temuto, c’è continuità nella novità, come in una coscienza, ma non c’è mai ripetizione dell’identico. Ciò che è stato, è unico, è irreversibile. Può tornare la lancetta d’un orologio sullo stesso posto, non torna mai identico il tempo vissuto, il tempo come vita della coscienza. Ciò che è, fiorisce una volta sola come l’agave mediterranea. Vi sono spesso analogie significative, talora fortemente ammonitrici, poiché la natura umana accomuna tutti i figli degli uomini, anche in tempi diversi; ma i soggetti, gli operatori degli eventi sono altri e altri sono gli eventi stessi.
Non meno energica suona in Agostino la critica di quell’illusione ricorrente per la quale il nostro Antonio Rosmini coniò la felice espressione di «perfettismo utopistico». Ai tempi di Agostino ed in altre epoche il perfettismo utopistico aveva un nome: si chiamava millenarismo. Alle sue attese palingenetiche impresse un nuovo slancio Gioacchino da Fiore (1130 circa – 1202), che teorizzò l’idea di una «terza età» a venire, che avrebbe realizzato su questa terra, nel tempo, il pieno e totale regno dello Spirito. Per un’ironia della storia un’esegesi ultramistica della Bibbia divenne, nel corso dei secoli, il principale impulso a un’interpretazione secolarizzata e immanentistica del Cristianesimo, che è poi la via più battuta per snaturare la fede, il pensiero teologico, l’azione del cristiano nel mondo, come ha dimostrato Henri De Lubac nei suoi due splendidi volumi “La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore” (ed. Jaca Book, 1981 e 1983). Oggi il perfettismo utopistico si chiama gnosi marxista o gnosi scientista e porta con sé una forte suggestione ipnotica, tanto più incisiva quanto più la prospettiva che propone manca di carattere definito, assomiglia al delirio e si presenta come il passepartout che apre tutte le porte e risolve qualsiasi problema. L’essenza di ogni millenarismo è questa: prospettare una felicità terrena totale ed assoluta. Per Agostino, invece, una tesi del genere è fuori della storia ed implica una sospensione o la fine del corso storico. La storia, finché si va svolgendo, è invece progresso e regresso, è militia et peregrinatio, è lotta, esodo, ricerca ed è assurdo confondere l’impegno perché questo mondo sia umanizzato, con il mito che fa della storia il luogo di una parusìa definitiva in terra, di un regno della giustizia piena e perfetta, senza orrore e senza scacco, l’avvento di una società idilliaca. L’illusione gnostica di un sapere totalizzante e definitivo genera dal suo seno non la società buona, ma lo stato totalitario, lo stato-lager, lo stato-gulag; non l’universalizzazione dei diritti degli uomini e dei valori liberali, ma la loro distruzione, la tirannia ideocratica, la pedagogia della coercizione e del terrore di stato esaltate come strumenti necessari per l’instaurazione di una macrosocietà fatta di angeli: senza divisione del lavoro, senza commercio, senza moneta, senza competenze specifiche da cui possono originarsi gerarchie, senza stato! Di che lacrime grondi e di che sangue il perfettismo utopistico, malgrado i suoi progetti di un avvenire luminoso e fraterno, l’umanità lo ha sempre sperimentato, ogni qualvolta esso ha trionfato, impadronendosi del potere. Il suo invincibile dispotismo fu formulato nel XIX secolo in questi termini: in una società perfetta non vi può essere libertà di pensiero, così come non vi è in matematica. nella cosiddetta società perfetta non vi è posto che per un fantasma della libertà, perché questa è ridotta esclusivamente a coscienza della necessità, o a una concessione provvisoria, che può essere tollerata solo in una fase iniziale e transitoria. Se l’eterno ritorno annulla il relativo e il contingente, il perfettismo utopistico li divinizza, confondendo il fine subordinato della costruzione della città politica col fine supremo e trascendentale della vita umana. Di qui il carattere inevitabilmente idolatrico, illusorio, alienante di ogni ottimismo prognostico, il suo cader preda della corrente del divenire. La storia ci attesta che non vi è mai successo perfetto all’interno della storia temporale. Ogni civiltà è sempre perfezionabile, proprio perché non esiste «in nessun luogo» (utopia), né poté mai esistere, una civiltà perfetta. Costruire una civiltà è un compito sempre incompiuto e sempre da riprendere ed ogni millenarismo è una menzogna.
Agostino ha anche attaccato l’assunto conservatore, fatto proprio da Porfirio, il più affezionato discepolo di Plotino, secondo cui ogni trasformazione è trasformazione in peggio, la novità è sempre peggiore della stabilità e il presente non è mai da preferirsi al passato. «Ogni uomo sagace può constatare – scrive Agostino – la falsità di questa tesi, solo guardandosi attorno» (Ep. 136, 2). Non per questo, però, diventa ipso facto vera la tesi opposta. In realtà occorre far riferimento a ben altre categorie, che non il vecchio e il nuovo, la stabilità e il mutamento, quando si vuol afferrare il carattere intensamente drammatico della storia. Non ogni novità è condannabile e non è vero affatto che tutto il passato sia degno di essere giudicato positivamente. Certo, ciò che è assai distante può essere idealizzato senza pericolo, ma non è lecito confondere storia e mito. La critica di Agostino a non pochi tabù della storia romana si fa spesso radicale e penetrante; a lui sembrava che fosse ormai l’ora di dire «basta con i vani schermi dell’opinione corrente», «basta con la vernice», «basta con tutte quelle millanterie». I meriti grandi di Roma e il suo effettivo contributo alla civiltà non legittimano la menzogna celebrativa, né l’occultamento dei lati negativi della sua pur straordinaria vicenda. Le qualità morali dei romani, assi più che l’estensione delle conquiste, avevano fatto sì che il loro Impero, se non lo si poteva considerare privilegiato come nessun altro e meritevole di durare indefinitivamente (come pretendevano i pagani), fosse almeno migliore di tutti quelli che l’avevano preceduto. L’atteggiamento mentale per cui ci si rifiuta di considerare relativi i valori terreni realizzati nel corso di una qualsiasi epoca storica è acritico e improduttivo: chi si rinchiude nel fragile mondo che ha ereditato o che ha contribuito a costituire è costretto a idealizzarlo ad oltranza, negando la presenza di ogni male nel suo passato e la certezza della morte nel suo futuro. Tentazione del resto spiegabile, come quella antitetica del perfettismo utopistico, persino per un ingegno onesto e acuto qualora non abbia altra città da lodare che quella politica e se il suo orizzonte coincida inesorabilmente con essa. Da parte sua, il grande Africano nutre ben altri pensieri. Egli ci invita a «guardare alla nuova eredità del mondo nuovo e, pertanto, da ora, in questo nostro tempo, a camminare nella speranza, avanzando di giorno in giorno (proficientes de die in diem, “Città di Dio” XXI, 15)». Senza ansietà e senza inerzia.
La nuova secondaria, 15 novembre 1987.