Le vicende degli ultimi anni di Seneca e di Cicerone, nonostante il secolo che li separa, nonostante la diversità dei regimi sotto i quali operano, sono per molti aspetti analoghe. Entrambi hanno tenuto un posto di primissimo piano nella vita politica, entrambi sono stati a un certo punto emarginati e sconfitti. Cicerone aveva toccato il vertice del suo potere quando era stato console e durante la carica aveva represso i tentativi insurrezionali di Catilina. Seneca era stato per lunghi anni il potente consigliere di Nerone. Cicerone è stato via via emarginato, quando sono emersi con prepotenza il potere del denaro (Crasso) e quello militare (Pompeo), contro i quali poco valeva la sua unica arma, cioè l’eloquenza, che in teoria avrebbe dovuto guidare le scelte del senato nella curia e del popolo dalla tribuna. È stato definitivamente messo da parte, quando Cesare è diventato padrone unico di Roma; con lui ha potuto solo appellarsi alla clemenza del dittatore in favore dei suoi amici. Seneca si ritira dal suo ufficio, quando constata che il rapporto costo/benefici del suo rapporto col principe è ormai negativo; al potere non si può chiedere non dico la libertà, ma neanche più il precario surrogato della clemenza. Nerone gli dà volentieri il benservito, aspettando l’occasione propizia per sbarazzarsi anche della sua ombra. Ridotti alla vita privata, nella incertezza della propria situazione, di cui erano consapevoli, i due uomini reagiscono in modo diversamente analogo, ma positivo. Altri nella loro condizione avevano fatto o facevano scelte diverse. La peggiore è quella di Lucullo, che non è rimasto famoso né per la sua carriera politica né per le sue brillanti spedizioni belliche nel Vicino Oriente, ma per la vita voluttuosa, cui si era abbandonato «in pensione». Proverbiali sono rimaste le sue fastose imbandigioni, rese possibili dalle immense ricchezze accumulate nella sua carriera. Anche se avesse voluto, Cicerone non avrebbe potuto seguirne l’esempio, perché al contrario si era fortemente indebitato. Ne avrebbe avuto la possibilità materiale Seneca, che invece sceglie una vita modesta e ritirata, vera o no che sia la sua rinuncia ai propri guadagni al momento del congedo. Sallustio a sua volta aveva scelto di partecipare in qualche modo alla vita politica scrivendo la storia ideologica di momenti culminanti della crisi romana. Varrone, che nella guerra civile aveva, con qualche incertezza, parteggiato per Pompeo, si rifugia interamente nell’erudizione, che è, o sembra, neutra. Eppure proprio a Varrone nel 46, nel pieno della vittoria di Cesare, Cicerone scrive una lettera, nella quale esprime un programma preciso: «Dobbiamo dedicarci agli studi, dai quali un tempo si ricavava piacere e adesso anche la salvezza fisica; ma se qualcuno vorrà impiegarci, non come architetti, ma come semplici operai, nell’edificazione dello stato, non dobbiamo mancare, anzi accorrere volentieri; se nessuno si servirà del nostro lavoro, tuttavia leggere e scrivere di politica» . Quest’ultimo è veramente il mondo di Cicerone; per lui anche il «paradiso» immaginato nel Somnium Scipionis è riservato ai ben vissuti nella sfera dell’impegno civico. Il progetto non riuscito nel reale si amplia e si perfeziona nei trattati sullo stato, sulle leggi, sui doveri. In una condizione forte dell’esperienza, ma libera da compromessi, si fanno più chiari gli ideali e i valori. Seneca ha orizzonti ancora più vasti e non fa più coincidere la moralità con la sola vita politica, anche intesa nella sua accezione più alta. Riflettendo sulle limitazioni imposte dal regime imperiale aveva scritto: «Se non è possibile la carriera politica, ma si è costretti alla vita privata, si faccia l’avvocato; se è proibito anche parlare, si giovi ai concittadini anche in silenzio» e nella vita quotidiana; «se sono andati perduti i compiti del cittadino, si esercitino quelli dell’uomo» . L’uomo dunque va oltre il cittadino di uno stato, è cittadino del mondo, cioè la cosmopoli degli Stoici oltre Roma. La riflessione comunque è considerata propedeutica all’azione. Queste belle proposizioni potrebbero rimanere teoria. Ma la smentisce la fine tragica di Cicerone come di Seneca. La morte di quest’ultimo è raccontata da Tacito sul modello platonico di quella di Socrate: è la morte del saggio, che accetta serenamente la sua condanna ingiusta. L’idealizzazione, che ne fa lo storico, non ne altera la sostanza, che nemmeno l’ostile Cassio Dione contesta. Più drammatica ancora l’ultima vicenda di Cicerone. Dopo il cesaricidio, in cui non era direttamente coinvolto, il vecchio oratore riprende la sua battaglia politica contro il cesariano Antonio, che considera corrotto e corruttore, succube di Cleopatra e del peggiore Oriente, distruttore dell’ultima libertà. La decisa presa di posizione gli costerà la vita: il rozzo avversario ne farà esporre proprio sulla tribuna la testa e la mano destra, secondo l’asciutto resoconto del sunteggiatore di Livio. Ma il testo più ampio dello storico padovano annota che Cicerone aveva ordinato ai suoi di non reagire «e sopportare serenamente quello che la sorte iniqua aveva voluto» . È un tratto socratico. Così finisce l’eroe politico, riscattando anche gli errori e le debolezze del passato.
Giornale di Brescia, 3.11.2003.