C’è un passo di Kierkegaard, poco conosciuto, ma di grande finezza. Eccolo: «L’uccello sul ramo, il giglio nel campo, il pesce nel mare, schiere innumerevoli di uomini lieti proclamano nella gioia: Dio è amore! ma, al di sotto, c’è qualcosa che sorregge tutte queste voci, come il basso, muggente sotto i chiari soprani, che canta il De profundis: è la voce dei sacrificati» (Nota del 1852).
Appunto la voce dei sacrificati. Metterla a tacere, ignorarla per ragioni ideologiche, ecco il crimine che si è consumato, giorno dopo giorno, per decenni, in Europa e nel nostro Paese, soprattutto a partire dal 1945. La cosa più rivoltante cui ho assistito in questi anni è stata l’omertà ideologica, il silenzio di complicità e l’indifferenza cinica nei confronti delle sofferenze dei popoli dell’Urss e dei Paesi dell’Est e, ancora di più, verso i dissidenti perseguitati per motivi di coscienza per la semplice ragione che a perseguitarli, a internarli nei manicomi, a condannarli ad anni di lavoro forzato, a ucciderli, a cacciarli dalla loro patria erano governi comunisti.
Di questa omertà, ben più infamante e immorale di quella mafiosa, si sono macchiati tra i laicisti quelli per i quali essere a sinistra significava impegno a difendere il comunismo, a tacerne i mali strutturali e a osservare il più rigoroso silenzio sui paurosi crimini di Lenin e di Stalin. Se costretti a pronunciarsi, quei signori non esitavano a mentire con spudoratezza tipica di chi crede di «dover» mentire per il trionfo della grande Causa. E i sacrificati?. Per quella sinistra, evidentemente, era miglior cosa dimenticarli là dov’erano, nei gulag approntati per loro. Ad un certo punto, però, la crisi del comunismo in Unione Sovietica e l’insofferenza crescente dei popoli oppressi nell’Europa Orientale sono divenuti fatti di dominio pubblico ed allora ecco la sinistra filocomunista, comunista e ultracomunista scoprire anch’essa le ragioni degli oppositori ai regimi comunisti e inneggiare con lo zelo dei neofiti a quelli che fino a qualche tempo addietro erano bollati come agenti dell’imperialismo e della reazione.
Quelli, invece, che ancora oggi non vogliono stare ai fatti e ragionare sui fatti, quelli che nel loro accecamento sono intimamente incapaci di cogliere il valore epocale della rivolta dei sacrificati, i più spiazzati dal grandioso movimento di liberazione dei popoli europei dalla dittatura comunista sono taluni leaders del clerico-comunismo. Stelle fisse nel firmamento delle tv nazionali, corteggiati dalla stampa di sinistra e ancor più da quella radical-borghese, parlano e scrivono come se nulla fosse successo, continuano a declamare i loro versi a tavole rotonde e dai teleschermi, ti propinano l’ultimo parto della loro fervida fantasia, un Marx che anticipa… Gandhi!
E i sacrificati? Dostoevskij notava che gli «idealisti cinici» non si pongono mai il problema dei sacrificati, i quali agli occhi di quella gente non hanno dignità di fine, sono solo concime, strame necessario al trionfo della Causa. Gli «idealisti cinici» chiamano così umanesimo socialista la loro disumanità. I sacrificati sono solo e sempre le vittime dell’altro sistema, quello che i marxisti combattono, ed è invece sleale chiedersi quali siano i costi umani dei sistemi comunisti. È poi addirittura provocatorio chiedere quanti sono stati i sacrificati, sia pure attenendosi in modo esclusivo alle statistiche ufficiali: come, ad esempio, quella fornita da Roy Medvedev nei primi di febbraio del 1989 sul quotidiano Fatti e argomenti. Per bocca sua infatti, lo stesso potere sovietico ha fatto sapere che le persone arrestate, giustiziate o sottoposte ad altri tipi di violenza durante gli anni di Stalin sono state quaranta milioni. «I conti – assicura Medvedev – li ho fatti io personalmente».
Ma Stalin occupa solo un trentennio nella storia del popolo sovietico: che cosa è accaduto negli altri quarant’anni? E non vanno messi sul conto della ideocrazia comunista quelli che sono stati sacrificati nei Paesi dell’Europa Orientale? Una funzione all’interno del mondo marxista i cattolici avrebbero dovuto svolgerla, quella di lottare per sostituire al giustificazionismo storicistico e alle pretese assurde dell’ideologia il primato della persona e la filosofia dei diritti umani; ma i cappellani della sinistra totalitaria non hanno avuto il coraggio di testimoniare per l’uomo contro il sistema, se il sistema era comunista. Si sono soltanto lasciati omologare.
A un autorevole amico chiedevo un paio di settimane fa: «Tu che li conosci bene, hai notato almeno in qualcuno di loro segni di un serio ripensamento?». La risposta è stata: «Chi ha la disgrazia di identificare se stesso con l’avanguardia profetica della storia non ha l’umiltà di riconoscere di aver sbagliato, di aver servito una causa obiettivamente regressiva per la miseria e l’oppressione che è riuscita a produrre».
I politici possono anche conoscere l’adeguamento gattopardesco o l’autocritica; i più umani tra loro conoscono persino il pentimento. Coloro che Dostoevskij chiamava «i padri mentitori», no. I sacrificati a decine di milioni dei regimi comunisti pesano anche sulle coscienze di chi doveva documentarsi e non lo ha fatto, come di chi sapeva e non ha parlato. Pesano, eccome, in primo luogo sulle coscienze dei «padri mentitori».
Giornale di Brescia, 31 dicembre 1989.