Voce del Popolo, 19 dicembre 2013
Nei bresciani, spesso, la durezza della parola non coincide con la grandezza e la tenerezza del cuore. Due episodi che vengono da un non troppo lontano passato e che volevano comunicare alle generazioni più giovani un semplice concetto: fa parte della nostra tradizione bresciana uno stile di bontà, di altruismo, di attenzione agli altri che non possiamo e non dobbiamo rinnegare
Mons. Enzo Giammancheri una volta a scuola ci disse, con una commozione visibile di ritorno, di aver trovato più volte, durante gli anni della guerra, quando anche in Seminario si pativa la fame, grosse fette di pane bianco e fragrante nel suo armadietto. Era il pane fatto in casa probabilmente da qualche mamma di seminaristi di campagna. Non ha mai saputo quale dei suoi compagni ha ripetuto questo gesto.
E il prof. Matteo Perrini, fondatore della Ccdc, raccontava in una conferenza, con il pianto negli occhi, che quando dal Centro Italia arrivò fresco di laurea a Brescia per iniziare il suo lavoro, rimase stupito per la civiltà, cortesia e autentica bontà che trovò subito in tutti. Dal bigliettaio dell’autobus, fino all’operaio che in piazza Arnaldo lo aiutò spontaneamente ad arrivare in via Cadorna, all’Editrice La Scuola, con le troppo pesanti valige.
Eppure era capitato in una città dove chi veniva dal Po in giù era chiamato “terrone”. Chiamato ma non considerato tale. Nei bresciani, spesso, la durezza della parola non coincide con la grandezza e la tenerezza del cuore.
Due episodi che vengono da un non troppo lontano passato e che volevano comunicare alle generazioni più giovani un semplice concetto: fa parte della nostra tradizione bresciana uno stile di bontà, di altruismo, di attenzione agli altri che non possiamo e non dobbiamo rinnegare.
La bontà innata del bresciano affonda le sue radici nella civiltà contadina che ci ha generato, permeata anche da secoli di cristianesimo vissuto. La tipica solidarietà dell’uomo della terra e il vangelo che ci spinge a farci prossimo dei malcapitati ha fatto fiorire meravigliose storie di bontà.
Non solo quelle della Di Rosa che lasciò la sua vita aristocratica nella Brescia ottocentesca per curare coloro che, pur in ospedale, nessuno voleva o poteva assistere, o del Pavoni e del Piamarta che si presero a cuore adolescenti e giovani senza futuro o di padre Marcolini che volle dare, dopo la guerra, una casa a buon prezzo ai tanti bresciani che, dai paesi, erano arrivati in città per lavorare nelle fabbriche…ma anche le storie di tanti volti anonimi di uomini e donne, di ogni età e ceto sociale che hanno sempre teso la loro mano e aperto il cuore ai bisogni degli altri.
La bontà dei bresciani si è spesso fatta anche più efficiente diventando, potremmo dire, quasi istituzionalizzata in gruppi, associazioni, cooperative, enti… Una costellazione che ha affiancato alle tradizionali opere cattoliche della San Vincenzo e delle Caritas tante realtà laiche e civili.
La Brescia di oggi può dire di essere ancora una città dove la bontà è di casa?
Ci sono tre pericoli.
Il primo: per combattere il buonismo, patologia della bontà, pigra reazione al male che favorisce malviventi e criminali, qualcuno spinge a favorire egoismi, cattiverie e chiusure.
Il secondo: la crisi economica, inculcandoci la paura di diventare tutti più poveri, ci fa chiudere gli occhi su vere e drammatiche povertà.
Il terzo: la presenza di tanti stranieri che hanno bisogno un po’ di tutto porta spesso i bresciani a vederli come una massa di diseredati da “escludere” più che persone da “includere”. Riusciremo a superare questi rischi?
Da quanto emerge dal Premio Bulloni sembra proprio di sì. O almeno speriamo.