Nel 1970 l’«Enciclopedia filosofica sovietica» osava dedicargli tre pagine e concludeva in modo enigmatico: «Cadde vittima della repressione nel 1933, fu riabilitato nel 1956». Padre Pavel Alexandrovic Florenskij, matematico, filosofo, teologo, mistico, fu deportato in Siberia per le sue convinzioni religiose appunto nel ’33 e vi morì presumibilmente nel ’43, mentre le armate dell’Urss furono aiutate a conseguire la vittoria sugli invasori proprio da una straordinaria scoperta: l’invenzione del petrolio incongelabile! Bulgakov lo considerava «il Leonardo da Vinci russo», Jakovenko «pensatore e santo degno di essere messo accanto al Sant’Agostino delle Confessioni».
Di lui ha parlato al convegno internazionale di studi sul dialogo tra la cultura russa e la tradizione occidentale, seconda giornata dei lavori a Bergamo, Elémire Zolla, uno studioso molto attento ai fenomeni religiosi. Pavel Florenskij è ancora clandestino in patria e sconosciuto in Occidente. In italiano si possono leggere di questo grande pensatore e scienziato Le porte regali, nell’edizione Adelphi, il capolavoro La colonna e il fondamento della verità, nella Rusconi, l’antologia La luce della verità. Nelle Edizioni Studium Attualità della parola, presso la Guerini e associati, oltre ad alcuni saggi tradotti da «Russia cristiana» e da «Conoscenza religiosa». Restituire alla Comunità culturale e spirituale il messaggio di una personalità così eminente: ecco un modo concreto di pensare la Russia oggi e di fare l’Europa.
Noi occidentali, spesso molto presuntuosi nella nostra autosufficienza, non possiamo che essere arricchiti ed elevati dalla conoscenza di Florenskij, «compagno di Platone, Sant’Agostino, Pascal e Kierkegaard nel saper congiungere speculazione rigorosa e arte appassionata». Nella cultura russa sono molte le interruzioni, le crisi, gli entusiasmi, le delusioni; eppure, nonostante tutto, la storia spirituale della Russia è dominata dalla fedeltà a un tema fondamentale, dalla concentrazione su di esso, dagli sforzi insistenti per risolverlo. Al suo centro sta – e Florenskij è lì a testimoniarlo – la ricerca della verità, del significato dell’esistenza terrena alla luce della sua trasfigurazione. «Dal profondo dell’anima – scrive quel grande – si innalza un irrefrenabile bisogno di appoggiarsi alla colonna e fondamento della verità (1 Tm 3, 15); della verità appunto e non di una delle verità, non di una verità particolare, umana, minuta che come polvere mossa dal vento si solleva e poi si disperde lontano, ma di quella veridicità (pravda) che, secondo il poeta Euripide è sole al mondo».
I fattori costitutivi della civiltà europea sono Atene, Roma e il Cristianesimo. La Grecia ha posto le basi dell’unità culturale, la «repubblica romana» ha unificato il primo nucleo in Europa, oltre al Mediterraneo, politicamente e, quel che più conta giuridicamente; il Cristianesimo ha dato al nostro continente l’unità morale e religiosa. E quel che ha fatto Roma cattolica per l’Europa Occidentale e Centrale, dall’Irlanda alla Polonia, dalla Spagna alla Svezia, lo ha fatto nell’Est prima Bisanzio e poi la «terza Roma», Mosca. Ma il quarto elemento che caratterizza la storia di questa patria più grande che è l’Europa è costituito dall’irrompere dei popoli germanici e slavi e, quindi, dal loro ingresso in quell’area di civiltà che noi chiamiamo appunto Europa. Come si sono intrecciati questi nuovi elementi etnici a quelle popolazioni romanizzate e cristianizzate preesistenti? In particolare, come si è delineato il rapporto, nel passato sempre difficile, tra slavi e germani? E negli ultimi secoli come si è delineato il contrasto tra i due miti dell’occidentalismo e della slavofilia?
Al primo interrogativo ha cercato di rispondere l’intervento di Alberto Krali, illustre germanista e presidente infaticabile del Centro Studi e Ricerca sull’Identità Culturale Europea, autore di un libro fondamentale su La formazione della civiltà occidentale (Cristianesimo e tradizione germanica), edito di recente dalla Jaca Book. Tra slavi e germani, indubbiamente, non è mai corso buon sangue. Persino la cristianizzazione degli slavi fu un tentativo di germanizzazione, almeno fino a quando essa non passò nelle mani dei «re santi» e il papato si eresse a difesa del diritto di quei popoli ad essere se stessi. Ma il punto di vista scelto da Krali per centrare la questione è quanto mai interessante: «L’identità culturale slava nella tradizione storico-letteraria della Germania moderna». Il messaggio di Herder, il filosofo romantico discepolo di Kant, era stato recepito: ogni nazione ha diritto ad essere sentita e rispettata nella sua individualità, ad uno sviluppo naturale delle sue attive potenzialità. Ma un’identità nazionale può trovare piena realizzazione anche in un contesto statuale a lei diverso, aggiungeva opportunamente il pensatore tedesco.
Come la Germania moderna cercò di applicare questi principi alla questione polacca negli anni in cui essa fu unificata dalla Prussia bismarckiana? Ebbene negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso non si voleva l’annullamento della cultura polacca, ma la sua elevazione e si credeva di promuoverla meglio sostituendo la nobiltà viziosa con una classe dirigente che conosce i suoi doveri verso il popolo contadino. La Kultur tedesca può dunque mettere in valore la forza vitale delle masse contadine. L’innesto tedesco potenzierà la nazione polacca. Questa politica «herderiana» in senso lato fu poi bollata dai tedeschi come «sentimentale» (wehmuthig) e Bismarck stesso inaugurò nella fase del Kulturkampf la guerra totale alla lingua polacca e lo sradicamento dei contadini polacchi dalle loro terre. E alla fine venne Hitler.
Oggi però l’Europa avverte quel suo tragico passato come lontano e altro da sé. Non solo sono crollati i disegni egemonici, ma l’Europa sa che per respirare ha due polmoni e non uno: l’Oriente e l’Occidente. Espressione che non è nostra, ma del primo Papa slavo che la Chiesa cattolica abbia avuto: Giovanni Paolo II. L’Europa, almeno dal punto di vista culturale e religioso, è già Pan-Europa. Va già dell’Atlantico agli Urali.
Igor Vinogradov, dell’Università di Mosca, ha invece delineato in breve i tratti negativi della celebre disputa fra slavofili e occidentalisti. se questi misconoscevano la specificità della presenza russa nella storia e non vedevano i mali dell’Occidente, quelli univano due pretese apparentemente contraddittorie: esaltare la propria autarchia e, nello stesso tempo, assegnare a se stessi il compito di indicare a tutti gli altri popoli le vie da percorrere. Autarchia e messianismo non sono certo le vie più idonee a salvaguardare la propria identità culturale e religiosa. I russi di oggi conoscono il loro ritardo in campo politico e quanto sia grave la bancarotta del loro sistema produttivo. Attardarsi a cercare in utopie la compensazione della loro inferiorità è oramai un gioco che li disgusta. Lo continuino pure quel gioco, se vogliono ingannare e auto-ingannarsi, i marxisti che non hanno sperimentato sulla loro pelle l’alienazione che il totalitarismo comunista comporta.
L’intensa giornata si è conclusa con due profili di segno opposto: quello di un emigrato russo del secolo scorso, Vladimir Pecerin, e quello di un liberal-progressista inglese del nostro secolo emigrato in Urss, patria del socialismo finalmente realizzato. Il primo abbandonò il monastero si recò a Dublino e si convertì al cattolicesimo; ma la svolta impressa alla sua vita incluse sempre tutti i valori della sua terra d’origine. Egli visse la bellezza dell’integrazione, perché la verità è per sua natura inclusiva e non esclusiva. l’altro, Donald Mc Lear, sperimentò il tradimento, la disillusione più atroce, la nostalgia di quelle reali libertà a cui aveva rinunciato. A tracciare quelle due «storie parallele» sono stati storici di livello di Michail Heller e di Alexandr Nekric.
Giornale di Brescia, 4 novembre 1989.