Vorrei partire dal titolo: “I tempi discreti”: tempi al plurale perché la letteratura si attiene alla coscienza comune, al di qua di ogni speculazione filosofica per cui si è soliti distinguere il tempo che fluisce in tre contenitori che sono il presente, il passato e il futuro. I tre autori su cui vorrei intrattenervi, Montale, Buzzati e Svevo, servono strumentalmente ad incarnare e a rappresentare, ciascuno, uno di questi tre tempi. Più interessante, se mai, si fa il discorso su quel discreti che compare tra virgolette nella locandina. Qui i tempi sono “discreti”, da discernere, perché sono distinti. Sono separati e quindi l’attributo che accompagna il tempo serve proprio a connotare la prospettiva nella quale si inseriscono questi tre autori del Novecento, largamente condivisa anche da tutta una serie di altri poeti e scrittori che vedono i tempi come separati, non più comunicanti. Essi concepiscono il tempo a partire da una serie di fratture, sottolineando quindi non più la continuità, attraverso il tempo, ma la discontinuità fra epoche, momenti, civiltà.
Non so se si possa affermare, ma io lo faccio stimolato dal Faust di Goethe, che la coscienza del tempo, il sentimento del tempo nasce per un implicito bisogno di superamento del presente che non appaga, non realizza o non conserva il retaggio del passato. Quindi l’idea di un passato, di un futuro, nasce probabilmente da una mancanza: dal fatto che il solo presente, l’attimo che si vive, non basta a colmare il desiderio umano di pienezza. È appunto il grande miraggio romantico di Faust, che va alla ricerca dell’attimo plenario, esauriente, dell’esperienza totalizzante di fronte alla quale possa dire: “Ecco, tempo, fermati, perché io ho trovato un pieno approdo alle mie tensioni”. Quindi, probabilmente, l’uomo si è sempre proiettato fuori dall’oggi, dal presente, tuffandosi o nel passato, con la memoria, o nel futuro, con la speranza. Speranza è una parola chiave per la letteratura del Novecento. Semmai la specificità della coscienza moderna, di cui il Novecento è l’esito, consiste nel mettere a nudo la vanità di questa fuga, duplice, dal presente, anche se la consapevolezza della illusorietà di un affrancamento da questi limiti, non serve poi a riscattare il presente dalla condanna esistenziale nella quale sembra essere incappato.
Partiamo dal passato e quindi dalla memoria. Per molti secoli ci si è potuti considerare, secondo la fortunata espressione di Bernardo di Chartres, “nani sulle spalle di giganti”. In questa immagine c’era l’idea di una continuità temporale, di un legame vitale con il passato, onde si poteva parlare di tradizione. La memoria se ne faceva, appunto, tramite. Nel mondo premoderno, il passato è il fondamento del presente. Così, ad esempio, in occasione di certe ricorrenze, si fa festa, si celebra il passato che si perpetua nel presente. La legge del passato resta in vigore, non è caduta in prescrizione, il passato continua a vivere, prevale una visione saldamente unitaria del tempo che concepisce il divenire come un accumulo progressivo di conquiste che sopravvivono nel presente e si spingono ulteriormente avanti verso il futuro. È quello che potremmo definire il tempo dei Padri, che si prolunga attraverso le generazioni.
Nella modernità subentra invece progressivamente la frattura. Si comincia nel Seicento, con la “querelle des anciens e des modernes” accompagnata dall’affermazione della superiorità dei moderni nei confronti degli antichi. Al tempo dei padri si è sostituito il tempo dei figli, e di figli orfani che tutt’al più andranno alla ricerca dei padri, ma che si trovano nella condizione di non poterne più disporre come dato di partenza. Al sentimento protettivo della continuità, si oppone, adesso, il sentimento, problematico, inquietante, della discontinuità. Abbiamo appunto l’idea della frattura che giustifica quel “tempi discreti”. Sia, poi, che si viva questa frattura con il senso totale di un’emancipazione, il futurismo, sia che la si avverta nostalgicamente come una perdita colmabile, il presupposto è il sentimento della irreversibilità del tempo e quindi della irrevocabilità del passato nel presente.
Questa premessa era necessaria per inquadrare i due testi montaliani su cui brevemente vorrei meditare: La casa dei doganieri, che sarà in seguito raccolto nelle Occasioni, e poi l’ultimo degli Xenia. “Tu non ricordi la casa dei doganieri / sul rialzo a strapiombo sulla scogliera: / desolata t’attende dalla sera / in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri / e vi sostò irrequieto. // Libeccio sferza da anni le vecchie mura / e il suono del tuo riso non è più lieto: / la bussola va impazzita all’avventura / e il calcolo dei dadi più non torna. / Tu non ricordi; altro tempo frastorna / la tua memoria; un filo s’addipana. // Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana / la casa e in cima al tetto la banderuola / affumicata gira senza pietà. / Ne tengo un capo; ma tu resti sola / né qui respiri nell’oscurità. // Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende / rara la luce della petroliera! / Il varco è qui? (Ripullula il frangente / ancora sulla balza che scoscende…). / Tu non ricordi la casa di questa / mia sera. Ed io non so chi va e chi resta”.
Il primo aspetto su cui vorrei soffermarmi è questa casa, che non è una casa qualunque. Non solo in riferimento alla sua posizione, in rialzo a strapiombo sulla scogliera, ma perché è la casa dei doganieri. Dunque, un luogo che ha una connotazione particolare, la dogana, la frontiera. Ed è una frontiera a sua volta singolare, perché non sta semplicemente ad indicare il confine tra due stati o fra due luoghi, ma anche fra due tempi e condizioni. È la frontiera tra i vivi e i morti. L’interlocutrice, questa giovane cui si rivolge il poeta, più o meno come la Silvia leopardiana, di cui questo testo è una sorta di variazione novecentesca, è morta. È una giovane conosciuta da Montale e, nel frattempo, defunta. Allora si capisce perché non ricordi l’incontro, l’esperienza e quale sia il tempo, l’altro tempo che frastorna la sua memoria: è in un’altra dimensione, nel regno dei morti. Si capisce quindi la difficoltà del dialogo, che è a senso unico, l’ammissione di una frontiera che come una visiera è calata nel tempo, nella memoria. La frontiera sarà, lo vedremo anche negli altri testi, sia di Buzzati che di Svevo, uno dei grandi simboli della coscienza novecentesca del tempo discreto, frazionato, della discontinuità, dell’impossibilità di un rapporto. Da un punto di vista tecnico dovrei definirlo un cronotopo, perché indica un luogo – qui è la frontiera – nel quale si manifesta una concezione del tempo. Come simbolo, riesce ad oltrepassare la dimensione spaziale per aprirci ad una intuizione, appunto, del tempo.
Altro punto su cui vorrei indugiare è il filo che si addipana. In questa immagine confluiscono due grandi miti: quello di Arianna e quello delle Parche. Il poeta tiene ancora un capo di questo filo che si addipana, proprio come fanno Arianna e Teseo quando entra nel labirinto del Minotauro. Che il poeta trattenga un filo ci dà l’idea del tentativo da parte della memoria di conservare l’evento, che però si allontana con tutte le sue immagini. Ma di che filo si tratta? Qui entrano in scena le Parche: è il filo della vita, che viene sgomitolato dalla matassa e riaggomitolato a formare il gomitolo. Rappresenta la vita, che al suo nascere è ancora tutta da spendere, da giocare e poi, via via, che viene vissuta, trascorre nel passato. Questo transito dal futuro al passato avviene attraverso i tanti istanti in cui si frantuma il presente. Il poeta trattiene la memoria di una vita che non c’è più.
Qui dobbiamo parlare di un grande binomio instauratosi con Leopardi e che nella poesia del Novecento ha un’evidenza, una pregnanza straordinaria, si tratta del binomio memoria / assenza. La poesia moderna nasce proprio “in absentia”, fa memoria di ciò che non c’è più, di ciò che non appartiene più alla condizione presente, attuale, del poeta e quindi dell’uomo moderno. Del passato, che è passato e dunque non esiste, si può fare al massimo memoria, anche se Montale ci documenta la difficoltà estrema di trattenere questo tempo che passa e che fugge. “Ne tengo ancora un capo, ma s’allontana, la casa”, con quello sciame di immagini e di ricordi che faceva capo all’evento. “Tu resti sola, non respiri più qui”, sei l’assente, e l’assente sarà, non solo per Leopardi, ma anche per tutto l’ermetismo, quest’oggetto del desiderio inappagabile, il paradiso perduto, potremmo dire, cambiando metafora. In fondo, la donna stessa è metafora, è simbolo, non rappresenta soltanto se stessa, ma una condizione, un tempo che sono diventati assenti. Ecco allora questo grande filone della poesia moderna e contemporanea che si costituisce nel segno della memoria a partire dalla assenza. Memoria e assenza giocano su questa frattura fra presente e passato di cui si tenta, disperatamente, la saldatura. Pensiamo a Montale: “non recidere, forbice, quel volto”. Sono fittisime le situazioni in cui il tempo viene sentito come predace, come portatore di oblio, di separazione, di mancanza.
Passerei ora a leggere l’ultima poesia di Xenia II, della raccolta “Satura” nata dall’alluvione di Firenze, che aveva sommerso anche la cantina, il sotterraneo, dove Montale aveva depositato alcuni suoi oggetti. “L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, / delle carte, dei quadri, che stipavano / un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto. / Forse hanno ciecamente lottato i marocchini / rossi, le sterminate dediche di Du Bos, / il timbro a ceralacca con la barba di Ezra, / il Valéry di Alain, l’originale / dei Canti Orfici – e poi qualche pennello / da barba, mille cianfrusaglie e tutte / le musiche di tuo fratello Silvio. / Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura / di nafta e sterco. Certo hanno sofferto / tanto prima di perdere la loro identità. / Anch’io sono incrostato fino al collo se il mio / stato civile fu dubbio fin dall’inizio. / Non torba m’ha assediato, ma gli eventi / di una realtà incredibile e mai creduta. / Di fronte ad essi il mio coraggio fu il primo / dei tuoi prestiti e forse non l’hai saputo”. Qui il poeta si rivolge alla moglie che, emblematicamente, Montale comincia a cantare negli “Xenia” dopo morta. Dopo aver riempito le sue poesie di altre Muse, dedica metà di questo suo nuovo canzoniere alla moglie, soprannominata “Mosca”, “post mortem”. Ma non è tanto su questo che vorrei soffermarmi, quanto su un altro cronotopo, quello del sotterraneo, dello scantinato. Altro cronotopo perché, anche in questo caso, abbiamo a che fare con un luogo che ci trasmette un’idea del tempo. Potremmo, per generalizzare, parlare del cronotopo dell’antimuseo perché nel museo si conservano le opere del passato che si ritiene ancora attuali, viventi, patrimonio cui attingere per la propria civiltà e la propria arte. Qui, invece, ci troviamo davanti a un sotterraneo in cui gli oggetti nobili, che sono quelli della formazione culturale solariana di Montale – la collana dei marocchini rossi, le dediche di Du Bos, la monografia su Valéry, l’originale dei Canti orfici, tutta una cultura di cui si era abbeverato il giovane Montale, che è finita, prima ancora dell’“atroce morsura di nafta e sterco” dell’alluvione, chiusa in un “sotterraneo chiuso a doppio lucchetto”. In questo sotterraneo sono riposti oggetti destituiti di valore d’uso, di attualità e sono, non a caso, confusi con il pack dei mobili e tra oggetti che appartengono a tutt’altro ordine di quotidianità come il pennello da barba e le mille altre cianfrusaglie. Qui abbiamo l’idea che una cultura sia diventata inservibile. Non ci riferiamo soltanto alla cultura classica, perché non sono testi classici questi finiti nello scantinato montaliano, ma sono i testi della sua giovinezza, della sua formazione. Il Montale di “Satura” ha già riscritto al rovescio il proprio libro. Se le prime raccolte avevano disegnato il recto del suo libro, da “Satura” in avanti, Montale lo riscrive, ma quasi in chiave contappuntistica: è il verso, appunto, non il recto del suo unico libro poetico. Uso questa terminologia perché montaliana. Dunque, ancora, un attestato della discontinuità, della frattura nei tempi.
Vorrei passare oltre e soffermarmi ora sul futuro, sull’attesa degli eventi che il futuro dovrebbe portare all’uomo. Anche qui va fatto un confronto tra la cultura premoderna, che appunto insiste sul valore della continuità, e la cultura moderna, che si instaura, invece, a partire dalla frattura. La cultura antica pullula di attese, sia quella biblica veterotestamentaria (l’attesa del Messia, l’attesa della liberazione dalla schiavitù d’Egitto) sia quella pagana, greca e latina. Penso ad esempio a Penelope, che tutte le notti disfa la tela tessuta di giorno, perché animata dalla ferma, incrollabile, speranza, quasi certezza, che il suo Ulisse un giorno avrebbe fatto ritorno ad Itaca. Penso anche alla discesa “ad inferos” di Enea, davanti al quale viene squadernata la storia successiva e gloriosa di Roma. Vi è l’idea che ad un tempo prestabilito, immancabilmente, ciò che si attende si verificherà. Anche in questo senso c’è l’idea di una continuità, di una tensione verso l’evento che non mancherà di realizzarsi. Con l’avvento della cultura moderna, questa sicurezza si inceppa: l’attesa comincia a colorarsi di incertezza. Per Pascal, ad esempio, diventa una scommessa. Ancora un passo e avremo la soluzione negativa di Leopardi: “l’attesa è vana, ciò che si desidera non si verifica, non si attua, è tutta un’illusione”.
Per giungere al Novecento, mi soffermo ora sul Pirandello de I vecchi e i giovani, che è il romanzo storico di quella stagione che attraversa tre generazioni e può fare bene le verifiche sulla realizzazione o meno delle speranze, delle utopie, dei sogni. Anche le conclusioni che tira al termine del romanzo don Cosmo Laurentano, cioè il portavoce di Pirandello, vanno nel senso di una frustrazione di tutte le attese. Quindi coltivare anche i più nobili ideali, nella sua prospettiva scettica, serve unicamente a riempire un vuoto, il non senso, il non scopo della vita. Questa è l’amara conclusione non solo di Pirandello, ma anche del Buzzati de Il deserto dei tartari, dove tutto è giocato nella dimensione dell’attesa, la vita concepita come un’interminabile attesa. Ma attesa di che cosa? Attesa di un destino eroico, di un’ora miracolosa che possa dare senso a tutta la vita, questa ora miracolosa per la quale gli uomini che si trovano nella fortezza Bastiani, un altro cronotopo della frontiera, consumano la miglior parte della vita. Prelevo alcune frasi tratte dal terzo brano di questo romanzo. C’è un brano struggente nella sua capacità di affascinarci, che descrive in sostanza la vita come un cammino, come un moto uniformemente accelerato verso un epilogo che è un mare nero, immobile, senza vita, che è il mare della morte. Un percorso che sembra rettilineo, che all’inizio avviene in una calma, in una serenità quasi irreale e che, gradualmente, diventa sempre più veloce, affannoso, in una corsa frenetica verso questo destino che non è per niente eroico, ma, appunto, catastrofico. Tra l’altro, viene accompagnato da sempre meno persone, da sempre meno approvazioni, in un paesaggio che si dirada fino a diventare un deserto, se volete “il deserto dei tartari”, ma più generalmente, il deserto della vita.
La fortezza Bastiani dove trascorre, in attesa di questi tartari, che non arriveranno mai o, quando arriveranno sarà troppo tardi per il protagonista Giovanni Drovo, è una variante del cronotopo della frontiera perché oltre si estende vista d’occhio il deserto, questo altipiano che non ha nulla nemmeno alle spalle. Leggiamo insieme l’ultimo brano relativo alla prima missione di Giovanni Drovo alla Ridotta Nuova, un fortino staccato a tre quarti d’ora dalla fortezza in cima ad un cono di roccia incombente sulla pianura dei Tartari. Era il presidio più importante, completamente isolato e doveva dare l’allarme se qualche minaccia si avvicinava. “Entrarono nella Ridotta Nuova, si fece il cambio delle sentinelle, poi la guardia smontante se ne andò e dal ciglio della terrazza Drovo stette ad osservarla che si allontanava attraverso i ghiaioni per tornare alla fortezza. La fortezza, di là, dalla Ridotta Nuova, appariva come un lunghissimo muro, un semplice muro con dietro niente”. Non è soltanto davanti che si estende il deserto, ma anche alle spalle e questa frontiera, questo muro che non ha consistenza quasi corporea, spaziale, volumetrica, è il filo del presente attraverso il quale dobbiamo immaginare che passi la vita: dal futuro che sta davanti alla fortezza, nel deserto dei Tartari, al passato, che viene quasi divorato dal tempo e di cui non resta nulla. Nell’immagine di questo cammino che diventa poi una corsa frenetica verso il mare nero della morte, ad un certo punto, quello che aveva messo in allarme il personaggio, era la chiusura del tutto inaspettata di un cancello alle spalle, come per dire, non c’è più possibilità di ritirata. Allora, che cosa resta di una vita che viene spesa sempre procedendo, in attesa di questi Tartari, di quest’ora miracolosa che non si verifica, tralasciando, nel frattempo di viverla, di vivere i tanti momenti, il presente, attraverso cui passa. Quindi la morale di questo romanzo è indubbiamente una morale catastrofica: se si aspetta di compiere un destino eroico guadando sempre al futuro, si rischia oltre che di non poter mai fare questa esperienza solenne, di sperperare la vita che oggi ci è data.
Vanificato il passato e il futuro, non resta che il presente ed è il tempo in cui si colloca il terzo autore che voglio considerare, cioè lo Svevo de Il vegliardo. Forse Il vegliardo avrebbe bisogno di qualche parola introduttiva, perché immagino che i più, non per loro ignoranza, ma per le nebbie che ancora avvolgono certa produzione sveviana sia un titolo che non dice nulla. È il quarto romanzo di Svevo, è il seguito, se volete de La coscienza di Zeno, e lo dico solo perché il protagonista è lo stesso personaggio che riprende a scrivere le proprie memorie, ma è un romanzo incompiuto a cui Svevo si mise al lavoro negli ultimi mesi di vita, di cui però resta materia corposa e sufficiente per goderne e, anzi, questo sarebbe stato addirittura il capolavoro dell’autore. L’aneddoto è presto spiegato. Si era nell’85-86 alla presentazione di Senilità; al termine dell’affascinante presentazione di Claudio Magris, qualcuno del pubblico pose la “vexata quaestio”, “ma tra la Senilità e La coscienza di Zeno, qual è il capolavoro?” E lui, senza scomporsi, rispose: “Per me è Il vegliardo”. Io assento pienamente con questo giudizio. La cosa interessante è appunto che ne Il vegliardo il protagonista ha raggiunto l’età di settant’anni, che come aveva stabilito Dante nel Convivio costituiva il “terminus ad quem”, il capolinea della vita, l’arco della vita che era diviso in tre fasce. Era il periodo della vita sospeso tra la vita e la morte, ma bellissimo perché se pure non comportava nessuna attività particolare, era proprio il momento in cui l’individuo poteva finalmente dedicarsi alla vita contemplativa. Cito Dante perché non è casuale l’attribuzione a Zeno di questa età, è una chiara, inequivocabile, citazione dantesca. È per dire: “Io non sono più né l’adolescente di Una vita, né il giovane invecchiato di Senilità, né il vecchio che ripassa la sua vita della Coscienza, sono entrato nel ‘senio’, nella quarta età e non ho da far altro che raccogliermi sulla mia vita e, appunto, tentarne un bilancio”.
La cosa straordinaria di questo romanzo è che l’obiettivo di Zeno non è quello di riappropriarsi del passato e quindi di superare il tempo, come in quegli stessi anni aveva tentato di fare Proust con la Recherce. Svevo non va alla ricerca di quella memoria involontaria, di quella ripetizione occasionale, miracolosa, di eventi che gli avrebbero fatto riassaporare il passato e riviverlo con una pienezza, con una intensità di cui non si era accorto la prima volta. L’obiettivo di Svevo è esattamente l’opposto, cioè quello di stabilire una netta demarcazione, frontiera, tra il presente e il passato. Gli episodi che rievoca sono proprio quelli che avevano segnato il transito dal passato al presente, erano, potremmo dire, “episodi frontiera”, spartiacque, giornate campali, calamitose, in cui il vecchio Zeno aveva dovuto prendere coscienza della propria età e di quello che ciò comportava. Quindi, nel capitolo intitolato “Un contratto”, l’estraniazione dagli affari, l’essere messo da parte nella vita attiva, il non potere più condurre la propria azienda commerciale, ossia l’accantonamento del suo ruolo pubblico, ciò per cui alla fine della Coscienza era diventato famoso in Trieste durante la guerra, proprio per i suoi traffici molto abili. Poi, il secondo capitolo intitolato “Il mio ozio” si svolge su di una sfera più privata e biologica in cui, in sostanza, deve tirare i remi in barca anche per quello che concerneva la propria virilità. Avviene questo arretramento da cui ha il coraggio di trarre una lezione, una morale, Svevo parla di tempo misto e in effetti questi episodi si giocano su di una interferenza tra presente e passato, perché sono appunto episodi che delimitano i due tempi, ma bisognerà distinguere lo Zeno personaggio, che ha vissuto nel passato quegli episodi, dallo Zeno narratore, che li rievoca a distanza di tempo. Quindi gli stessi episodi vengono narrati in due luci complementari, quella del personaggio che ne è totalmente coinvolto al punto da perdere la percezione limpida, lucida, serena dell’evento, dallo Zeno vegliardo che si raccoglie sul proprio passato e riesce a raggiungere quella serenità d’animo che gli consente di guardare a quegli eventi come ad un fatto naturale e quindi a passare dalla protesta alla rassegnazione. Quindi potremmo dire a conclusione di questa rapida carrellata che, preso atto, che né il passato, né il futuro, sono praticabili, la cultura del Novecento si rivolge con Svevo, allo studio del presente.
Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 26.2.1998 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.