La dottrina cristiana colloca la superbia tra i sette vizi capitali. È il peccato che ha la sua origine in Adamo, nell’uomo, cioè, che non essendo che uomo si lascia portare dalla passione di essere Dio e si ribella a Dio. È il peccato che portiamo dentro di noi, che dà origine, se gli diamo spazio, a tutti gli altri nostri peccati; il peccato dell’ “uomo carnale” per il quale ci chiudiamo a Dio, non tollerando che sia al di sopra di noi.
È il peccato dello spirito, di satana, che sta all’origine di tutte le catastrofi che la storia umana registra.
“Se esistessero degli dei, come potrei io sopportare di non essere un dio? Quindi non esistono dei” (F. W: Nietzsche, Così parlò Zarathustra). È il peccato che vorrebbe estromettere Dio, il peccato di Narciso, dell’uomo invaghito della propria bellezza, che, ripiegato su se stesso, vuol farsi centro di tutto e di tutti.
Psicologicamente, nasce dall’incapacità di accettarsi come creatura, di accettare i propri limiti e la giusta collocazione di sé fra il mondo e Dio.
Da questa frustrazione di fondo vengono i suoi sinonimi: presunzione, alterigia, arroganza, vanità, durezza di cuore, incapacità di dialogo, di relazionarsi all’altro come veramente altro… Narciso vive di protagonismo, di perfezionismo, di presenzialismo; non sopporta qualcuno che gli resista.
E tuttavia Narciso è un debole, più vulnerabile di quanto sembri. Facilmente va in crisi. L. De Grandmaison lo descrive così: “Occupazione patetica e interessata al proprio “io”; autocompassione fatta di sofismi; sofferenze inutili; lacrime sterili; apprensioni puerili; amarezze assaporate; reazioni esagerate…” (Ecrits spirituels).
Nel Vangelo, Gesù investe i farisei col più veemente dei suoi discorsi: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri e allungano le loro frange; amano i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente….”. La conclusione di questo indignato discorso è una vera e propria minaccia: “Chi si innalza sarà abbassato!” (Mt 23, 1-13).
Vanitoso, paludato, sicuro di sé, il fariseo si sente irreprensibile e superiore a tutti. Giudica e non sopporta di essere giudicato, si chiude in una specie di aseitas simile a quella di Dio, un’autosufficienza che lo soffoca, una specie di implosione gravitazionale in cui la sua vita finisce.
Tradito dal bisogno di affermare se stesso, a Narciso viene a mancare il vero volto dell’altro, il “tu” diverso da lui con cui parlare, discutere. Gli manca soprattutto il “tu” assolutamente diverso, quello del Dio di Gesù Cristo, con cui mettere in discussione se stesso.
In tutto questo c’è qualche cosa di veramente demoniaco, che ci spaventa come tentazione, come possibilità di caduta nostra, di ciascuno di noi.
L’apostolo Paolo ha descritto questa contraddizione interna all’uomo in una delle sue pagine più drammatiche: “Io so infatti che in me, nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7, 12-23).
Il vecchio Adamo riconosce qui il disordine provocato dalla sua ribellione a Dio. Il grido finale di Paolo, “chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” è rivolto al nuovo Adamo, il figlio obbediente di JHWH, umiliato fino alla morte di croce. “Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rm 7, 24-25).
Sull’umiltà, Morcelliana, Brescia 2004, pp. 49-51.