Con i due volumi che raccolgono la corrispondenza scambiata dal Gentile con il suo maestro Donato Jaia, tra il 1894 e il 1913, la «Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici» ha iniziato la pubblicazione dell’Epistolario del filosofo siciliano custodito nei propri archivi .
Il carteggio Gentile-Jaia va dagli anni della Scuola Normale di Pisa (1894-’98), a quelli in cui il Gentile fu professore di filosofia nei licei di Campobasso e di Napoli (1898-1906), e poi, dal 1906, titolare della cattedra di Storia della Filosofia dell’Università di Palermo. Le trecentosessantaquattro lettere coprono un arco di tempo di quasi vent’anni, a cavallo tra la fine del secolo XIX e lo scoppio della prima guerra mondiale e costituiscono non solo un documento dell’umanità e del pensiero dei corrispondenti, ma anche un vero e proprio «specchio dei tempi», uno spaccato sulla cultura e sulla società italiana dell’epoca attraverso i giudizi e le confidenze del filosofo pugliese (Jaia era nato a Conversano, in quel di Bari, nel 1839) e del suo più grande e amato discepolo.
Il carteggio è completo e pochissime sono le lettere che non è stato possibile reperire; i testi sono riportati integralmente, pure c’è stato qualche peccato di… omissione. «Si sono soltanto omessi – avverte l’Editore – giudizi dettati da stati d’animo contingenti e talvolta modificati nel tempo, quando nello stesso epistolario». Le omissioni sono state segnalate con puntini tra parentesi quadre; ma è inutile dire che in un’edizione filologicamente rigorosa certi scrupoli dovrebbero essere banditi. È assurdo, infatti, che si taccia quel che realmente è stato pensato e scritto, per un malinteso senso dell’«onore» e della «politesse». Il terenziano «suum cuique mos», integrato dal «suum cuique decus posteritas rependit» di Tacito, è o dovrebbe essere la legge comune di chi, vivendo tra gli uomini e come uomo di cultura, non può sottrarsi, piaccia o no, alle opinioni e alle critiche altrui.
Tra Pisa e Castelvetrano: un dramma familiare.
Le prime lettere di Gentile allo Jaia sono scritte, durante le vacanze, da Castelvetrano, in Sicilia. Lo studente della Scuola Normale di Pisa si rivolge al suo professore di Filosofia Teoretica, per continuare, scrivendo, la conversazione interrotta alla fine dell’anno scolastico, in attesa della ripresa autunnale. «Io l’ho amato subito, carissimo Professore, e quando ho visto molto gentile corrispondenza al mio affetto, con una singolare premura per le cose mie, ho cominciato a nutrire per Lei, senz’avvedermene, un sentimento simile a quello, che nel mio cuore ha goduto sempre mio padre» (vol. I, pag. 2). Le notizie sulla salute, l’ambiente naturale e la situazione familiare diventano sempre più precise, dettagliate. «Ed io in questi due mesi, circa, di già trascorse vacanze, ho lavorato quanto la salute me lo ha permesso… Ma la salute mi ha concesso poco. Oltre il cardiopalmo, osservatomi a Pisa anche dal capitano della leva, il medico di qua mi ha rilevato un piccolo soffio presistolico, proveniente da anemia» (vol. I, pag. 9). «In quest’isola del sole il caldo ci soffoca, e a Campobello, poi, la polvere delle vie si solleva ogni momento in nuvoli bianchi, afosi sotto le ruote de’ carri e le zampe de’ muli. Io me ne sto sempre in casa, rinchiuso, e sospiro talvolta la vita di Pisa» (col. I, pag. 10).
Nella lettera del 3 settembre ’96 si prefigura il dramma che angoscerà il giovane siciliano: il trasferimento della famiglia da Campobello a Castelvetrano dà alimento agli «scoppi violenti» del padre («Le dirò soltanto che tutti in casa si è tremati per la ragione di mio padre» vol. I, pag. 13). Ogni ritegno cade nella lettera del 2 giugno ’98. Il padre farmacista, che si rifiuta di sottostare alle «mille formalità che le leggi più recenti, per troppi scrupoli di previggenza, facendo de’ farmacisti degli strumenti meccanici del pubblico servizio, avevano prescritte» (vol. I, pag. 92), subisce due processi; indotto a rinunziare alla professione e a trasferirsi a Castelvetrano, quell’uomo, «che con amorosa provvidenza aveva per tanti anni vegliato sulle sorti di ben undici figli» (vol. I, pag. 93), perdette il senno, prese a odiare chi doveva provvedere con qualche fermezza alla dignità di lui, se ne tornò «solo in Campobello a riaprire a 67 anni, e a un tratto di tanto oltre gli anni suoi invecchiato, l’antica farmacia con gli antichi metodi, col rischio quotidiano di nuovi processi» (vol. I, pag. 94). Le manie del vecchio, se procurano a se stesso «disagi inenarrabili», (vol. I, pag. 94), spingono alla disperazione i familiari, producendo loro un continuo dissesto, che se continuasse ancora per qualche anno, li ridurrebbe sul lastrico. «Mia madre e tre sorelle mie vivono per soffrire, materialmente e moralmente» (Vol I, pag. 94), «lottando continuamente contro una specie di fato crudele e implacabile» (vol. I, pag. 95). E poco prima un aspetto di questo «fato» è colto con estrema concretezza: «le mie sventurate sorelle non hanno avuto ancora una gioia e sfioriscono tristemente tra tanti dolori: tre sorelle, cui il sesso, secondo il costume nostro, ha impedito di trarre da quel poco d’ingegno e di natural voglia di lavorare, che tutti in famiglia si è avuta, un mezzo di farsi innanzi nella vita, come nei maschi» (vol. I, pag. 93).
In queste condizioni perché concorrere a una borsa di studio per trascorrere un anno in Germania? La risposta dello Jaia è d’un mirabile equilibrio: «Era forte persuasione di Fiorentino, più volte a me palesata, che i giovani in sul principio della carriera de’ loro studi debbano starsene lontani dalla famiglia. Non ci sono lusinghe o carezze o vincolo d’affetto che tengano, diceva: allontanatevi, e potrete studiare, restate vicini, e i vostri studi saranno in grave pericolo. Io sono del medesimo avviso. Te chiama presso i tuoi non lusinga, non voce solo di affetto, ma dovere. Va’, compilo; ma ricordati che ne hai insieme un altro, quello che ti lega alla scienza» (vol. I, pagg. 105 – 106). Il giovane laureato non sa, però, se gli sarà possibile insegnare in una qualche scuola e aiutare economicamente i suoi. «Io dico a tutti: coraggio, ci sono io, non vi preoccupate dell’avvenire, tutto si aggiusterà. Ma ho un terribile sospetto… E se io dovessi rimanere qui a casa? Giacché qualunque sia per essere il mio stipendio, dovunque io sia per essere balestrato dalla onnipotente mano dei Giovi della “Minerva”, io dovrei pur sempre mandare ogni mese qualcosa a mia madre. E se mi fosse negato anche questo?» (vol. I, pag. 174).
Le prime opere del Gentile e «il problema» dello Jaia.
In questi anni la vocazione filosofica di Gentile si precisa in due opere che rimarranno fondamentali: “Rosmini e Gioberti”, scritta quasi interamente nel 1897, ma pubblicata negli «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa» nel 1899, e la tesi di abilitazione, “Una critica del materialismo storico”, apparsa in «Studi storici» nel 1897 e ristampato con l’altro saggio su “La filosofia della prassi” nel volume “La filosofia di Marx” a Pisa nel 1899. L’epistolario situa la genesi e lo svolgimento delle due opere.
Lo Jaia, ex-seminarista e già fervido giobertiano prima di accogliere la filosofia idealistica del Fiorentino e di Bertrando Spaventa, rimane un convinto assertore dell’importanza filosofica dello spiritualismo risorgimentale (Galluppi, Rosmini, Gioberti) e spinge il discepolo a prendere coscienza di questo fondamentale indirizzo di pensiero (1° settembre 1894, vol. I, pag. 5). Per conto suo quella filosofia ha l’incontestabile merito di ridare il primo posto, quello che realmente gli compete al problema dell’auto-coscienza ed in ciò essa si ricollega a Kant. La posizione kantiana, nel suo più profondo significato segna, infatti, con la dottrina dell’Ich denke, un nuovo e grande passo nel ritorno del pensiero sopra di sé. La questione centrale dell’indagine filosofica è «principalmente ed incrollabilmente l’atto intellettivo con la costituzione sua» (lettera di Jaia 20 ottobre 1897, vol. I, pag. 54). A noi che leggiamo queste profonde annotazioni ad oltre settant’anni da quando furono scritte, e che abbiamo vissuto il trionfo e il declino della scuola neo-hegeliana, la prospettiva indicata così energicamente dallo Jaia ci appare quanto mai valida per superare lo svanire panteistico della persona e anche una concezione, come quella kantiana, puramente formale del pensiero, dalla quale non si disimpegnava la priorità ontologica del principio formante, ché una pura forma, in quanto tale, si risolve e dissolve nelle determinazioni empiriche di cui è forma.
Acuta è pure l’osservazione ammonitrice dello Jaia a proposito del Rosmini… gentilizzato: «… tocca a Rosmini, non a chi l’interpreta, rispondere innanzi al tribunale inflessibile della ragione [dei due modi opposti di intendere l’intuito dell’essere come forma e come oggetto]. La storia va rispettata davvero… nel tuo modo d’interpretare il Rosmini, vi è il Rosmini, ma tutto il Rosmini no» (7 settembre 1897, vol. I, pag. 29). Di rilevante importanza è anche un giudizio del Gentile: «La mia conclusione è questa: che Rosmini risente nella Teosofia gli effetti della critica del Gioberti» (13 aprile ’98, vol. I, pag. 85). Se Gentile avesse verificato questo asserto e avesse dato, altresì, il necessario rilievo all’influenza che Rosmini esercitò sul Gioberti della “Protologia” nella più precisa delimitazione dell’intuito a vantaggio della riflessione, avremmo avuto un’opera di autentica ricostruzione storica e di più proficua discussione teoretica del pensiero di quei grandi.
Gentile «professore» e l’amicizia con Benedetto Croce.
L’incarico nel Liceo di Campobasso, conferito a Gentile nell’ottobre ’98, pur non sollevandolo da una condizione di ristrettezza propria di chi inizia l’insegnamento, rasserena il giovane professore, il cui interesse per la scuola e i suoi problemi sarà sempre assai vivo. In quegli anni nasceva l’amicizia, nutrita di reciproca, profonda stima, tra Croce e Gentile.
Gentile aveva recensito le memorie in cui il Croce cominciava a impostare filosoficamente il problema della storia (“Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte” e “Sulla concezione materialistica della storia” del 1896). Gli studi del Gentile su Marx e i filosofi della prassi del 1897 e del 1899 svolgevano con motivi originali argomentazioni e giudizi sostanzialmente concordi con quelli del Croce.
Croce, «ombroso dispregiatore della metafisica» (26 ottobre 1898, vol. I, pag. 216), loda il “Rosmini e Gioberti” del Gentile. Questi se ne rallegra col maestro: «… e come negarle che la sincera lode del Croce mi ha recato piacere? Del Croce, che non è certo uso a adulare, e neppure è molto amico della nostra filosofia, per quanto pure nemico di quella de’ nostri nemici in filosofia… Quello del Croce è uno de’ più chiari ingegni che siano oggi in Italia; ed è un danno, secondo me, che non si occupi sempre di filosofia» (vol. I, pag. 217).
Croce il 4 luglio 1900 scrive al Gentile (citato nel vol. II a pag. 69): «Io avrei grandissimo piacere che voi veniste a Napoli: non solo per vostro interesse, ma per mio. Avrei qualcuno col quale discutere e chiarire i dubbi tormentosi che il lavorare solitario produce». Il suo interessamento per l’amico è sincero e gli detta, nel 1909, una ferma denuncia pubblica, nell’opuscolo “Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana” (ora in “Pagine sparse”, Bari, Laterza).
Il trasferimento a Napoli, al Liceo e non all’Università, giunse nell’autunno del 1900. Le impressioni del Gentile sono nitide: «il liceo è una vera baraonda in cui tutti, maestri e scolari, fanno il comodo proprio; e il preside lascia fare, contento come una Pasqua». Gentile s’è innamorato, vuol sposarsi e accetta un insegnamento anche in un liceo pareggiato per raddoppiare lo stipendio (vol. II, pag. 125). Né, ahimé, mancano le raccomandazioni: «Durante gli esami, ogni sessione, c’è un amico che non manca ricordarsi di me: il Covolti… Egli che a Palermo era il terrore degli scolari come esaminatore, perché non la perdonava a nessuno, ora non scrive agli amici se non per raccomandare candidati, e i meno meritevoli, e nella forma – devo dirlo – meno corretta. Ciò mi dispiace assai, e in questi giorni, in buona maniera, gliel’ho scritto, e gli ho parlato franco» (9 ottobre 1902, vol. II, pag. 178).
Possono ancor oggi suscitare una legittima curiosità i giudizi di Gentile sul troppo celebre testo di storia della filosofia dell’idealista Fiorentino («disadattato al fine speciale didattico, infarcito anche di errori e inesattezze» vol. II, pag. 151); sul Labriola («che non ho preso mai sul serio col suo facile cicaleccio su ciò, che non conosce neanche nella buccia» vol. I, pag. 335); su Engels («il signor Engels sarà stato forse un valente economista, ma è vergogna che i professori di filosofia lo vogliano anche esaltare come un grande filosofo» vol. I, pag. 65); sul «buon» Lombardo-Radice o su Salvemini («Il valore scientifico del Salvemini è incontestabile» vol. II, pag. 334).
Nel gennaio del 1906 Gentile può annunciare al venerato maestro la sua riuscita al concorso di storia della filosofia all’Università di Palermo: nei precedenti concorsi, per gelosia e angustia mentale, gli scolari dello Spaventa avevano bocciato colui che era stato approvato dai nemici di Spaventa (Acri, Cantoni, Barzellotti).
Due test significativi: caso Dreyfus e assassinio di Umberto I.
L’epistolario registra, con l’immediatezza ch’è propria di questo tipo di scrittura, le reazioni dei corrispondenti agli avvenimenti che commossero o turbarono profondamente l’opinione pubblica; fra i tanti ne scegliamo due: il «caso Dreyfus» e l’assassinio di Umberto I.
Jaia, che era essenzialmente un conservatore illuminato, freme d’orrore per «la malvagia persecuzione dello spirito militare francese contro l’innocente Dreyfus» (13 settembre 1899, vol. I, pag. 369) condannato per spionaggio a favore della Germania. «Quale perfidia si è consumata in Francia! Ed è nuda nuda perfidia; non c’è scusa, che può attenuarla… Dopo uno spazio di cinque anni… dopo i recenti, inauditi e feroci sforzi, che non hanno potuto dare ombra minima di prova, e che hanno al contrario rivelato impudenti menzogne e propositi i più bestiali di tenere lontana la luce della verità, la colpa sale a un grado, che fa raccapriccio e spavento. Questo tremendo Panama morale peserà lungamente sopra i destini della Francia, e nel suo spirito interno, e nei suoi rapporti colle altre nazioni di Europa» (ivi, pag. 371). In una lettera del 18 ottobre 1899 lo Jaia parla della scarcerazione di Dreyfus come d’una notizia che ha rallegrato la sua famiglia, com’è giusto perché un «caso» come quello dell’ufficiale francese di origine israelita deve riguardare ogni persona onesta. «Il bimbo salta, cresce… Papà, mi disse un giorno, io farei così: direi a Dreyfus, esci di prigione, e va a casa tua coi tuoi bimbi, e metterei al posto di Dreyfus quelli che gli vogliono male, e lo vogliono condannato. E quando poi sentì, che gli era stata fatta la grazia, diede in un sussulto di gioia, si colorò nel viso, ed esclamò: papà, avevo indovinato io, ci ho proprio gusto, che Dreyfus va a stare coi suoi bimbi a casa sua. Non insistè sulla punizione ai suoi carnefici; dimenticò in quel lieto momento l’altrui perfidia» (vol. I, pag. 378).
Colpisce dolorosamente che nelle lettere di risposta Gentile non dica una sola parola sul caso Dreyfus, che tanto appassionava lo Jaia: insensibilità? Taciuta ma reale difformità dal giudizio del maestro? O hegeliana indifferenza verso il dolore degli uomini, per sé poveri gusci vuoti (leern Hülsen) il cui destino è per il Weltgeist insignificante in quanto persone? Non sapremmo dire; ma il suo tenace silenzio sulla questione Dreyfus non è causale e non promette nulla di buono.
Il regicidio di Monza sconvolge il giovane professore siciliano, il quale si chiede «dove si va?» (4 agosto 1900, vol. II, pag. 78). Il rimedio – gli risponde lo Jaia – c’è: «immediatamente, a parer mio, giorno per giorno, nella vigilanza della polizia e nella repressione… e, mediatamente, nella forza da dare alla legge» (31 agosto 1900, vol. II, 83). Ma l’onest’uomo si affretta a chiarire il suo pensiero, per evitare ogni equivoco. «Dove il rimedio? dicevo nella mia di ieri. S’intende il primo e più urgente. Tali sono i due cui ieri accennavo. Brucia la casa… chiamate i pompieri. Ci sia presto chi badi a spegnere le fiamme distruggitrici; venga poi chi s’ingegnerà di impedire che sieno al mondo uomini leggieri e imprudenti o birbaccioni, che per sciocchezze o perfidie facciano nascere gl’incendi. Queste cose sono chiare da sé… nondimeno, nello svegliarmi stamane, ho voluto che tu neanche per un istante pensassi, ch’io pensassi, che i rimedi siano lì soltanto, dove ieri accennai, e altro non ci sia da fare» (1° settembre 1900, vol. II, pagg. 84 – 85).
La preoccupata messa a punto è preziosa perché suona esplicito rifiuto di ogni soluzione brutalmente autoritaria e illiberale, tanto più che l’assassinio di Umberto I veniva dopo il «fenomeno Crispi» (l’interprete delle eccessive paure della borghesia italiana di fronte all’incalzare delle forze popolari, «l’uomo forte» che con la sua politica di repressione militare dei moti operai conseguì unicamente l’effetto di risvegliare l’idra dell’anarchia) e dopo i falliti tentativi reazionari che si succedettero tra il 1897 e il 1900.
Al di là delle molteplici ragioni storiche, sociali, culturali che rendono prezioso un documento del genere, il carteggio Gentile-Jaia ci permette anche di risalire dal Gentile allo Jaia. Dalle lettere è infatti proprio la figura del filosofo pugliese – la cui problematica, limitata ma vigorosa, e la cui rettitudine morale affondavano le loro vere radici in una formazione spiritualistica – che acquista il più forte rilievo, come è proprio di tutti gli spiriti nobilmente pensosi, che vivono intensamente i loro ideali e recano in tutti gli atti un forte accento di sincerità.
Pubblicato su“Pedagogia e Vita” 1970.
Il testo completo di note è disponibile in formato ".pdf"