Ei fu. Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro,
Così percossa, attonita
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all’ultima
Ora dell’uom fatale;
Nè sa quando una simile
Orma di piè mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
Vide il mio genio e tacque;
Quando, con vece assidua,
Cadde, risorse e giacque,
Di mile voci al sonito
Mista la sua non ha:
Vergin di servo encomio
E di codardo oltraggio,
Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio;
E scioglie all’urna un cantico
Che forse non morrà.
Dall’Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall’uno all’altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
L’ardua sentenza: nui
Chinian la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
Del creator suo spirito
Più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
Gioia d’un gran disegno,
L’ansia d’un cor che indocile
Serve, pensando al regno;
E il giunge, e tiene un premio
Ch’era follia sperar;
Tutto ei provò: la gloria
Maggior dopo il periglio,
La fuga e la vittoria,
La reggia e il tristo esiglio:
Due volte nella polvere,
Due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
L’un contro l’altro armato,
Sommessi a lui si volsero,
Come aspettando il fato;
Ei fe’ silenzio, ed arbitro
S’assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell’ozio
Chiuse in sì breve sponda,
Segno d’immensa invidia
E di pietà profonda,
D’inestinguibil odio
E d’indomito amor.
Come sul capo al naufrago
L’onda s’avvolve e pesa,
L’onda su cui del misero,
Alta pur dianzi e tesa,
Scorrea la vista a scernere
Prode remote invan;
Tal su quell’alma il cumulo
Delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
Narrar sè stesso imprese,
E sull’eterne pagine
Cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
Morir d’un giorno inerte,
Chinati i rai fulminei,
Le braccia al sen conserte,
Stette, e dei dì che furono
L’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
Tende, e i percossi valli,
E il lampo de’ manipoli,
E l’onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio
Cadde lo spirto anelo,
E disperò; ma valida
Venne una man dal cielo
E in più spirabil aere
Pietosa il trasportò;
E l’avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desidéri avanza,
Dov’è silenzio e tenebre
La gloria che passò.
Bella Immortal! Benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati:
Chè più superba altezza
Al disonor del Golgota
Giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola:
Il Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.
Sono ben note le circostanze in cui il Cinque Maggio fu scritto. Il Manzoni, il 17 o il 18 luglio del 1821, si trovava nel suo giardino di Brusuglio quando arrivò la “Gazzetta di Milano” del 16, recante la notizia della morte di Napoleone. Colpito dallo straordinario e inatteso evento, il Manzoni, emozionatissimo, volle subito ritirarsi e immergersi nella composizione dell’ode il cui primo abbozzo affidò alle pagine del ms. VS. X. 3 (conservato alla Braidense) e che portò a compimento con rapidità inusitata nel breve giro di tre o quattro giorni. Se quanto detto è nel suo complesso assolutamente certo (tutte le testimonianze lo confermano) resta aperto qualche interrogativo riguardante il dettaglio. Per esempio: passeggiava con la moglie e la madre quando da Milano venne la notizia? O era seduto sotto un albero (la catalpa)? Compose l’ode in quattro giorni, due per buttarla giù, due per correggerla? Compose l’ode in tre giorni, due per buttarla giù e uno per correggerla? Fu la madre ad esortarlo a comporre l’ode? Qualcuno lo dice. Donna Giulia, al Manzoni che si era messo a recitare alcuni versi del Monti, avrebbe suggerito di farsi lui stesso cantore dell’evento grandioso. Alessandro si sarebbe accinto subito alla composizione. Agitato com’era (e ciò non si verificava spesso, stante il suo temperamento riflessivo, aduso ad infrenare gl’impulsi subitanei) avrebbe pregato la moglie di suonare in continuazione il pianoforte (ed Enrichetta ciò avrebbe fatto per due giorni consecutivi). Disparati sono gl’informatori su questi vari particolari: il Broglio, il De Amicis, Stefano Stampa, certo veridici e comunque in buona fede, ma non necessariamente esattissimi. La realtà, nelle sue minute contingenze, sfugge quasi sempre a una totale e fedelissima archiviazione memoriale.
Il particolare meno certo e pure, forse, più importante degli altri è la stesura totale e rapidissima dell’ode. Il Sanesi ha difatti ipotizzato che la “Gazzetta di Milano” del 16 luglio 1821 (quella recante la notizia della morte di Napoleone) possa essergli giunta, se non il 16 stesso, almeno il 17. Profondamente colpito, il Manzoni si sarebbe sprofondato in un’assidua e travagliosa meditazione di carattere etico, storico ed esistenziale, protrattasi fino al giorno successivo, quando, letta la “Gazzetta” del 18, ove si fornivano particolari sulla morte cristiana dell’imperatore, tali da suggerire al poeta nuovi spunti di riflessione dilatatata sino a coinvolgere una tematica propriamente religiosa, si sarebbe accinto alla stesura dell’ode, che gli sarebbe venuta di getto, inabitualmente rapida. Nei giorni successivi, l’ode sarebbe stata perfezionata, corretta e limata, nella forma assunta nel ms. autografo XXX. 5 preparato per la censura. A tale primo getto converrà quanto meno dare un’occhiata, senza beninteso procedere a un indugiato esame delle lezioni varianti, che sarebbe operazione non breve.
Ma anche soltanto una rapida e parziale lettura basterà ad evidenziare il notevole divario dalla redazione definitiva. Va subito chiarito, comunque, che il primo getto dell’ode non s’identifica in un Ur-Cinque Maggio, come accade in altri casi (abbiamo una Ur-Pentecoste e un Ur-Carrnagnola). Si tratta insomma della stessa ode, colta nella prima fase della sua elaborazione: se molti versi, o addirittura strofe, presentano delle difficoltà notevoli, bene spesso, nell’autografo, è dato constatare la compresenza – a volte in stato embrionale – di versi o strofe vicini alla redazione destinata a prevalere e a diventare definitiva. Non è così per la Pentecoste, che è un’altra poesia, successivamente – nel ’46 – sistemata e trascritta dal Manzoni a istanza della seconda moglie, poesia che ha in comune con la Pentecoste nota due soli versi: “imporporò le zolle / del suo sublime altari”.
Vediamo il primo getto del Cinque Maggio
1a Ei fu: come al terribile
Segnal della partita
Tutta si scosse in fremito
La Salma inorridita
Come agghiacciata immobile
Dopo il gran punto sta,
2a Tale al profondo annunzio
Stette repente il mondo
Che non sa quando, in secoli,
L’uomo a costui secondo
La sua contesa polvere
A calpestar verrà.
Qualcosa c’è già (il v. “a calpestar verrà”). Ma quel che importa osservare è il fatto che nel manoscritto sono presenti a latere sulla metà destra della carta in senso longitudinale due strofe ben prossime alla prima della redazione definitiva, che il Manzoni scrive senza cancellare quelle precedentemente scritte, rinviando la soppressione a un momento successivo.
3a Ei fu: siccome immobile,
Dato il fatal sospiro,
Stette la salma immemore
Orba di tanto spiro
Tale al tonante annunzio
Muta la terra sta
Trema la terra e sta.
Così percossa attonita
La terra al nunzio sta.
4a Che innanzi a lui già tacquesi,
Che lo nomò fatale
Né sa quando una simile
Orma di piè mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
Qui c’è più che qualcosa: i primi quattro versi della terza strofa rimarranno sostanzialmente invariati nella prima della redazione definitiva; e così pure gli ultimi quattro della quarta. Saranno mutati, invece, i primi due versi (della medesima quarta strofa)
nel I getto invece nella definitiva
la terra al nunzio sta. La terra al nunzio sta,
Che innanzi a lui già tacquesi; Muta pensando all’ultima
che lo nomò fatale Ora dell’uom fatale;
Ove l’enjambement agilizza il discorso lirico, favorendo il collegamento dell’uno e dell’altro verso ed eliminando la pausa troppo marcata che li separa e l’ingombro offerto dalla relativa iniziale (“che innanzi a lui già tacquesi”…).
Cristoforo Fabris, autore delle nostre Memorie manzoniane, fonte di notizie preziose per il manzonista, pensa che “il segreto fondamentale del Cinque Maggio” possa cogliersi in certe parole dette dal Manzoni, ormai anziano, nella sua casa di via del Morone, a lui, Fabris, e all’abate Ceroli, rievocando la genesi dell’ode, risalente come s’è visto al lontano luglio del 1821. Al Fabris, cui accade di citare un verso della Mascheroniana del Monti, fece seguito il Manzoni recitandone numerosi altri e derivandone spunto per criticare il Monti, quel Monti “che aveva sempre bisogno di dire tutto, di non lasciar pensare nulla al lettore da sé”. Tale accusa mossa al Monti, scrive il Fabris, “fu un lampo che mi fece comprendere il fondamento del Cinque Maggio: egli aveva voluto fare una composizione tutta diametralmente opposta a quelle del Monti: non gli bastava quindi potersi dire:
Vergin di servo encomio
E di codardo oltraggio,
non gli bastava di dubitare se quella fosse stata vera gloria: voleva una poesia tutta in sintesi, in opposizione ai soliti sminuzzamenti del Monti: e ne immaginò una, in quasi ogni strofa della quale Napoleone fosse veduto intero, ma sotto un aspetto diverso; una poesia che poté quindi riuscire unica nella sua forma, com’era unica nel suo argomento”. A ben vedere quel che ricaviamo dall’aneddoto (sicuramente veridico) è più importante di quanto a prima vista non possa sembrare, in quanto rivela una componente polemica (nei confronti del Monti, il poeta celebratore per eccellenza, e non soltanto del grande Còrso) e, ed è quello che conta di più, un concetto della poesia lirica celebrativa, o soltanto commemorativa o evocativa (dato che l’epiteto “celebrativa” implica la lode o l’esaltazione), un concetto, dicevo, nuovo, per cui il personaggio è considerato nel suo insieme, còlto, aggredito, vorrei dire, d’un subito, d’impeto con una potenza che non tollera gl’indugi dell’analisi. E ciò implica un procedimento lirico innovante, direi macroscopicamente innovante, immediatamente constatabile cioè, e che rende compiutamente ragione dell’immediato straordinario successo dell’ode famosa. “E’ risaputo”, scrive Alberto Chiari, “che il censore Bellisomi in persona, con gesto di gran riguardo si recò dal Manzoni a restituirgli una delle due copie inviate per l’approvazione, pregandolo che ritirasse la sua richiesta, ma che nel frattempo la seconda copia rimasta in ufficio, era uscita ben presto di là, e copiata e ricopiata s’era diffusa tanto largamente che esemplari manoscritti ne pervennero al Soletti in Oderzo, al Vieusseux in Firenze, al Lamartine in Francia, al Goethe a Weimar per ricordare solo i casi più illustri» (e il Goethe, come ognun sa, subito tradusse l’ode, che vide la luce verso la fine del 1822 nella rivista “Uber Künst und Alterthum” e il Lamartine in una celebre médìtation l’imitò, cercando poi di negare o in qualche modo celare la sua imitazione, talvolta evidente).
A rileggere le parole del Fabris e a rimeditarle vien fatto di pensare che – nella modestia della loro enunciazione contengano un’intuizione critica di prim’ordine. Ad esse del resto fa persuasivo riscontro uno degli scritti del De Sanctis dedicato al Cinque Maggio: mi riferisco alla lezione zurighese sull’ode, che non ha la struttura organica e compatta, abituale nei saggi del critico irpino, ma si risolve – come in una serie di flashes – nell’identificazione del Napoleone intero ma sempre diverso presente in quasi ogni strofa. “Manzoni”, egli scrive, “ha afferrati in Napoleone tre punti epici, che riempiono tre stanze, temi di tre epopee”. Il De Sanctis, anzi, va oltre, affermando che nell’ode manzoniana l’epiteto fa ritratto, “una parola compendia una vita”. E anch’egli assume come termine di confronto il Monti e la sua scuola.
Si è visto come il Manzoni, quando gli giunse la notizia della morte dell’imperatore, prendesse a recitare alcuni versi del Monti; si trattava della Mascheroniana, testo poetico allora famoso e celebrato: “ace austero intelletto – è il Mascheroni che parla rivolgendosi al Parini – Un’altra volta / Salva è la patria; un nume entro le chiome / La man le pose, e lei [la patria] dal fango ha tolta”. E poi:
Sorrise l’altro (il Parini); e poscia in sé raccolto
(il Mascheroni)
Bonaparte seguia, della sua figlia
Giurò la vita, e il suo gran giuro ha sciolto.
Sai che col senno e col valor la briglia
Messo alla gente avea che si rinserra
Tra la libica sponda e la vermiglia.
Sai che il truce Ottomano e d’Inghilterra…
e via di seguito con la rievocazione delle imprese di Napoleone, nel Medio Oriente. Il De Sanctis, invece, fa menzione di altro testo montiano, e cioè del Bardo della Selva Nera. “Napoleone delle battaglie”, dice il critico, “è cantato da V. Monti nel Bardo” (“La notte che seguì d’Arcoli il duro conflitto, a me del lungo pugnar lasso [è Terigi che narra] Fu commessa una scolta…”, ecc.) segue un racconto che è frutto d’invenzione. E a questo è dovuta forse la censura al Monti e alla sua scuola, implicita nel suo sottolineare il merito tutto manzoniano di “cercare l’effetto poetico”, cito testualmente, “non da azioni inventate ma dalla storia presa sinteticamente”. Certo non erano inventate le azioni rievocate e (immaginosamente) narrate nella Mascheroniana, con sfoggio di movenze dantesche abilmente collegate con l’impegno della terza rima e di citazioni classiche, ma non certo sinteticamente considerate. Gli accadimenti son sì narrati con abilità letteraria, ma uno per uno, diffusamente, prolissamente. E’ invero ben comprensibile che quel testo allora famoso (non casualmente il Manzoni lo sapeva a memoria) sia oggi citato sì, ma non apprezzato, né credo letto salvo che dagli specialisti.
Ma dové contribuire allo straordinario successo del Cinque Maggio anche un altro elemento, cui generalmente si attribuisce non grande importanza, il metro, che non conosce precedenti identici nella tradizione lirica italiana. “Nella scuola del Monti”, osserva ancora il De Sanctis, “vi è una sonorità che diviene cantilena, che divien monotonia e finisce per addormentarvi. Il metro scelto dal Manzoni è la morte della cantilena. Per ottener la melodia bisogna cansar sdruccioli e tronchi. Manzoni in una stanza di dodici versi ha cumulati sei sdruccioli che non danno riposo, che vi pingono avanti sinché, sempre sdrucciolando, non abbiate una posa naturale del tronco. La rapidità del ritmo non vi dà requie se non giungete d’un sol fiato all’ultimo verso”, che è il principale della stanza. Certo per commisurare la validità dell’apprezzamento desanctisiano è necessario far conto dei tempi e astenersi, ad esempio, dal mettere in bilancio l’esperienza leopardiana, che è stata determinante in relazione al formarsi della sensibilità e del gusto moderno, e l’esperienza contemporanea dai crepuscolari a Montale. Ma constatare che le vie battute dalla lirica italiana risultano ben lontane da quella che fu la sperimentazione manzoniana – sostanzialmente isolata – non si risolve in una negazione della sua importanza, sia per la sua valenza reattiva, sia per la sua stessa irrepetibilità, che sottolinea la difficoltà della conquista. Valenza reattiva, dicevamo, nei confronti della sonorità, che può anche diventar cantilena e risolversi in monotonia (senza che ciò accada sempre, tassativamente: vogliamo attenuare il carattere perentorio del giudizio desanctisiano), sonorità comune alle varie forme metriche impiegate dal Monti, ma che fa anche testimonianza, è doveroso dirlo, della sua straordinaria valentia di maestro della parola. Ma reattiva anche nei confronti dell’impiego continuato e insistito di strumenti metrici gloriosi ma indubbiamente superati dai tempi. Valga per tutti l’esempio della terza rima, usata dal Monti nella Bassvilliana e nella Mascheroniana e altrove.
Ma ritorniamo all’ode manzoniana. Che Napoleone, come personaggio, costituisse in sé, per il Manzoni, uno stimolo potente, non può meravigliare. Napoleone si presenta alla generazione cui il Manzoni appartiene, come uno di quegli uomini d’eccezione, cui andava la simpatia dei romantici o anche soltanto di coloro che dell’esperienza romantica erano stati testimoni e tangenzialmente partecipi. A ciò aveva potentemente contribuito la lezione alfieriana. Ma erano la stessa tempra morale e la ricchezza umana e spirituale dello scrittore lombardo, a inclinarlo ad una considerazione penso sa e, in definitiva, a una sostanziale ammirazione, ad onta delle riserve morali e religiose, per una personalità grandiosa quale era quella del Bonaparte. Sempre il Manzoni aveva avvertito il fascino del Còrso.
Aveva solo quindici anni quando, alla Scala di Milano, seduto nel palco di casa Somaglia – a fianco della contessa Massimiliana Cicognara, che, ostile a Napoleone era da lui osservata a distanza – fu colpito dal lampo fulmineo di quegli occhi, che mai dimenticherà e rievocherà dopo oltre vent’anni con un verso famoso: “chinati i rai fulminei”. Ma più che da un tale tratto fisico e in generale dal magnetismo che promanava dall'”uom fatale”, il suo animo di giovanissimo dové sentirsi commosso ed esaltato dall’assiduo e incalzante succedersi degli eventi, attraverso i quali Napoleone dava segno d’aver posto mano alla composizione dei contrasti che separavano la nuova dalla vecchia età, i “due secoli l’un contro l’altro armato”, di cui dice con sintetica potenza nell’ode. Già s’è detto dell’emozione che provò quando seppe della sua morte, dell’agitazione, dell’ansia febbrile che lo prese, trovando requie solo quando, nel primo getto del componimento, ebbe tracciato a grandi tratti, liricamente, la storia di lui. L’ode consta così di una serie, rapida e incalzante, di quadri potenti e grandiosi (spesso racchiusi, come già osservato, nel giro breve d’una strofa). La vivida rappresentazione è per altro inframezzata da vaste pause meditative, né è facile dire se in tale meditazione trovi maggior luogo la stupefazione o il dubbio, perché avverti nel contemplatore uno stato d’animo complesso, e che può anche apparire contraddittorio, sospeso fra l’ammirazione e la severità del giudizio morale. La figura del protagonista sembra travalicare i termini della comune umanità e salire nella sfera del mito. Ciò sin dal celebre esordio – Ei fu -, che esprime informa estremamente sintetica le impressioni del momento, dominate dal ricordo di quella personalità d’eccezione e dallo spettacolo di vicissitudini storiche inusitate e straordinarie. Cominciamento tanto conciso quanto pregnante ove avverti e lo stupore profondo, sottolineato dalla pausa ritmica, che ha colto il poeta e il mondo alla notizia della scomparsa del Còrso e il senso mesto e solenne del tempo che passa e sfocia nell’eterno, non disgiunto dalla religiosa meditazione, alimentata dai grandi eventi della storia. Centro della rappresentazione è quella spoglia immemore non più oppressa omai dal cumulo delle memorie (lo dirà poi), quel corpo privo di vita che nulla più sa della grandezza e del dolore di Napoleone. Intorno a quel corpo immobile è l’immobile stupore del mondo intero, rilevato dall’intensità degli aggettivi (percossa, attonita), dal tronco finale che sospende il ritmo senza interromperlo e anticipa in una pausa di silenzio la meditazione (sta / muta pensando) sul momento misterioso e solenne del trapasso dell’uomo che era sembrato avere “in pugno il destino” (Momigliano). Né il mondo sa quando un altro grande simile a Napoleone la sua cruenta polvere / a calpestar verrà. Ove l’imprecisione imputata al poeta e da lui stesso non negata, inerente all’orma – ma è, per metonimia, il piede – è riscattata dalla potenza evocativa dell’immagine guerresca: l’uomo invitto che travolge ogni ostacolo frapposto dal nemico alla sua marcia inarrestabile e cruenta, aggettivo che, pur inserito in un contesto epicoeroico, gronda pianto e compianto e insinua nella meditazione la nota dolorosa del cristiano pessimismo del poeta. Il quale nelle due strofe successive torna a sé stesso o, per meglio dire, coinvolge sé stesso nella meditazione sul destino del grande caduto ascrivendo a suo vanto l’essersi astenuto dall’unire la sua voce di poeta a quella dei molti che lo esaltarono quando folgorava il solio e agli altrettanti che lo denigrarono caduto, nell’assidua vicenda della sua vita. Il Manzoni sa di essere vergin di servo encomio / e di codardo oltraggio (già nel Carmognola aveva condannato colui “che s’innalza sul vinto”) e può legittimamente commuoversi al subito / sparir di tanto raggio – immagine che suggestivamente precorre quella grandiosa della più vasta orma dello spirito creatore di Dio ‑ e innalzare al caduto un cantico, che forse resterà immortale. Il poeta si sente come esaltato dalla grandiosità dell’argomento e soggiace alla potenza dell’ispirazione, attenuando appena l’espressione con quel forse, a salvaguardia della sua modestia. Le imprese del personaggio sono ben degne di essere l’oggetto del cantico del poeta:
Dall’Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall’uno all’altro mar.
Col piglio perentorio proprio della grande lirica il Manzoni nei primi quattro versi, ove indica le campagne d’Italia e d’Egitto, di Spagna e di Germania e poi nei due ultimi, ove nomina e contrappone luoghi lontanissimi l’uno dall’altro, ritrae sensibilmente l’ambito amplissimo in cui si svolsero le gesta di Napoleone considerate nella loro fulminea successione, non senza accennare brevemente, ma intensamente, all’audacia di lui e alla rapidissima esecuzione dei suoi disegni. Segue una pausa di riflessione profonda:
Fu vera gloria? Ai posteri
L’ardua sentenza: nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor che volle in lui
Del Creator suo spirito
Più vasta orma stampar.
Non è dubbio che l’ansiosa domanda iniziale non si riferisca tanto alla valutazione dei meriti di quel genio dell’arte militare e guerriero impavido che Napoleone fu, quanto a un giudizio morale di portata incomparabilmente più vasta. E una domanda che rivela il contrasto presente nell’animo del Manzoni fra la negazione cristiana della violenza e l’ammirazione pur dovuta a coloro che nella genialità e nella portata delle loro imprese testimoniarono la grandezza e la potenza di Dio creatore. A un tale contrasto è sotteso un mistero grandioso, che impone al poeta di non giudicare, ma di rimettersi, chinando la fronte, ai voleri dell’Onnipotente e ai suoi arcani disegni. Il concetto è espresso con concentrata potenza. Quella più vasta orma, anche se metaforica, richiama l’orma di pié mortale della seconda strofa, ma ingigantendo l’immagine e dilatandola a misura titanica. La riflessione del poeta torna poi d’un subito alle imprese del protagonista e alla vicenda interiore da lui parallelamente vissuta:
La procellosa e trepida
Gioia d’un gran disegno
L’ansia d’un cor che indocile
Serve pensando al regno;
E il giunge, e tiene un premio
Ch’era follia sperar;
Tutto ei provò: la gloria
Maggior dopo il periglio,
La fuga e la vittoria,
La reggia e il tristo esiglio:
Due volte nella polvere,
Due volte sull’altar.
Ove con la fantasia si rivivono nell’intimo di Napoleone i sentimenti che sostennero e accompagnarono la sua ascesa fulminea: la gioia che – all’insorgere di un sogno grandioso – si dispiega nell’animo, pur trepidante, con la violenza d’una procella, l’ansiosa insofferenza del suddito che accetta indocilmente di essere dominato, ma pensando al dominio che eserciterà in futuro, l’esultanza che accompagna un trionfo impensabile e superiore ad ogni speranza. E si rivivono le sue vittorie e le sue sconfitte, le sue ore di gloria e le umilianti fughe – dopo la campagna di Russia, dopo Lipsia, dopo Waterloo -, l’esultanza del riscatto e della ritornata vittoria, l’Elba, i cento giorni, Sant’Elena.
Subito dopo, la strofa che vuol essere considerata – a detta del Momigliano – “la più importante dell’ode per conoscere il giudizio del Manzoni storico su Napoleone”. Collocata immediatamente dopo la sintesi delle sue vittorie e delle sue sconfitte, richiama il lettore, in un tono che può dirsi perentorio, ai meriti del Còrso indiscutibili e non soggetti a riserve, quelli cioè di cui non è lecito domandarsi se “fu vera gloria”. Sì, bastò il nome di lui (“Ei si nomò”) per decidere del conflitto di due secoli – il XVIII e il XIX – in così elevata opposizione ideologica e pragmatica fra di loro. Invero dell’età della rivoluzione e di quella della restaurazione Napoleone fu l’arbitro e l’una e l’altra seppe infrenare con mano ferma con l’ampiezza di sguardo e la lungimiranza del grande statista; nonostante la pompa delle nuove porpore e la girandola dei troni distribuiti ai congiunti, fu lui a consolidare le più valide conquiste della Rivoluzione e, in sostanza, ad ammodernare l’Europa, a darle un ordine nuovo e il moderno Manzoni n’era ben convinto.
Ei si nomò: due secoli,
L’un contro l’altro armato,
Sommessi a lui si volsero,
Come aspettando il fato;
Ei fe’ silenzio, ed arbitro
S’assise in mezzo a lor.
Non senza ragione il citato Momigliano afferma che, “artisticamente, questa è fra le più notevoli strofe dell’ode”. “L’idea”, soggiunge il critico, “è trasformata in fantasma, senza nessuno sforzo, e perciò rimane incancellabile nella mente”. Alla grandiosità dell’idea corrisponde la grandiosità dell’immagine: “in nessun altro punto come qui Napoleone appare un dominatore”.
Ma era pur sempre un uomo, e come tale soggetto alla ferrea legge che regola gli accadimenti umani e la loro ineluttabile e perenne dinamica. Sparì così dalla scena del mondo. Dopo il tumultuoso operare in un vastissimo campo, dopo la solenne affermazione d’un potere titanico, una sparizione improvvisa simile all’eclissi istantanea d’una grande luce, una vita d’inerzia forzata nei ristrettissimi limiti d’una sperduta isoletta:
E sparve, e i dì nell’ozio
Chiuse in sì breve sponda,
Segno d’immensa invidia
E di pietà profonda,
D’inestinguibil odio
E d’indomato amor.
Il succedersi degli eventi è tradotto in immagini intense, ricche di sottintesi contrapposti, permeate da forza di sentimento e caratterizzate da una tonalità dichiaratamente anche se misuratamente elegiaca, in suggestivo calcolato contrasto con la risolutezza concitata della strofa che precede. Definita ed evocata la sua ultima sede, l’attenzione del poeta si volge alla sua persona, considerata come oggetto delle passioni che egli stesso aveva suscitato: l’invidia, la pietà, l’odio e l’amore. Comunque, osserva il De Sanctis, Napoleone “riman grande nell’immaginazione degli uomini; rimane immensa l’invidia, profonda la pietà, l’odio degli uni è inestinguibile, l’amore degli altri è indomabile. La tenerezza si marita con la sublimità”.
Subito dopo, un altro passaggio. “Qui”, scrive ancora il De Sanctis, “l’immaginazione del poeta si riposa. Napoleone è finito e rimane ozioso, è costretto a ricordare”. Della celebre similitudine che segue occorre intendere compiutamente il rapporto fra i due termini:
Come sul capo al naufrago
L’onda s’avvolve e pesa,
L’onda su cui del misero,
Alta pur dianzi e tesa,
Scorrea la vista a scernere
Prode remote invan;
Tal su quell’alma il cumulo
Della memorie scese!
Il navigante tende lo sguardo ansioso sui marosi a scoprire la spiaggia lontana cui non giungerà: è naufragato e l’onda su cui dominava lo domina ora, lo travolge. Napoleone aveva anch’egli mirato lontano, a scoprire una meta per la sua vita tempestosa; ma invano: né la scoprì né la raggiunse: ora che è fiaccato, la sua stessa grandezza grava su di lui col peso dei ricordi. La seconda parte della similitudine è rapidissima perché il suo significato è già tutto contenuto nell’immagine della prima parte. L’incombenza di quel gravame – il cumulo delle memorie – è mirabilmente divinata dal Manzoni, poeta vocato a scrutare il segreto delle coscienze e ad analizzare le più profonde crisi interiori (l’indagatore del dramma di Adelchi, di Ermengarda, dell’Innominato, di Gertrude); e se è storico il particolare dei sempre interrotti tentativi di Napoleone di narrare le vicende della sua vita (oh quante volte ai posteri…), è frutto di divinazione lirica la rappresentazione dell’esule investito dall’assalto dei ricordi insorgenti:
Oh quante volte, al tacito
Morir d’un giorno inerte,
Chinati i rai fulminei,
Le braccia al sen conserte,
Stette, e dei dì che furono
L’assalse il sovvenir!
Assalto che è certo straziante (Ahi! forse a tanto strazio…) ma forse meno crudele del torpido e soffocante cumulo di memoria scendenti sull’anima, assalto quasi mitigato dalla pace dell’ora, (che è il tramonto: al tacito morir d’un giorno inerte). Ciò che affiora nello spirito, ora, sono aspetti della vita vissuta dal grande combattente, che si compongono nella memorabile sintesi descrittiva della guerra di movimento (quella stessa delle campagne del Risorgimento italiano):
E ripensò le mobili
Tende, e i percossi valli,
E il lampo de’manipoli,
E l’onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.
Le fanterie corrusche di armi protese all’assalto, le cariche travolgenti della cavalleria, i perentori e rapidi comandi, la fulminea prontezza dell’esecuzione… Si affollano nel ricordo molteplici visioni di battaglia: situazioni altamente drammatiche costantemente dominate dalla genialità bellica di lui.
Ma prevale l’avvilimento stanco e affannoso, presagio della disperazione:
Ahi! forse a tanto strazio
Cadde lo spirto anelo,
E disperò;…
La tronca, a guisa di cupo rintocco, sembra segnare un evento ineluttabile a conclusione della drammatica giornata terrena di Napoleone: disperò. Ma il poeta cristiano non si sofferma che un istante su tale possibile epilogo. La parola occupa soltanto la prima metà del breve verso, ché subito dopo si assiste all’epifania consolante della cristiana speranza:
…; ma valida
Venne una man dal cielo
E in più spirabili aere
Pietosa il trasportò;
Qualcuno ha osservato che l’immagine, in sé e per sé, non è delle più felici (pur se un critico quale il Russo giudica questa strofa “bellissima»” ancorché di intonazione oratoria), ma è anche vero che, superato il lieve disagio inerente alla forse soverchia corporeità o fisicità della mano che valida viene dal cielo (prima il Manzoni aveva scritto scese e la sostituzione fu opportuna), non disturba il recepimento del concetto manzoniano né ne offusca l’enunciazione: il significato è ben chiaro: Dio redime Napoleone nel dolore. Tale alto pensiero religioso anima la parte finale dell’ode, strettamente apparentata con quello espresso in una precedente strofa: “nui / Chiniam la fronte al Massimo Fattor,…”: Dio non avrebbe stampato una più vasta orma del suo spirito creatore in un uomo destinato alla massa perditionis; l’eccezionalità della sua avventura esistenziale, la grandezza delle sue imprese, l’indicibilità delle sue sofferenze, il suo estremo chinarsi al disonor del Golgota stigmatizzano e preludono alla sua elezione: come Adelchi, come Ermengarda, come l’Innominato. L’Onnipotente ha fatto di lui un uomo strumento del proprio volere. Compiuta la missione assegnatagli, l’uomo cade dall’altezza a cui s’era levato e che s’era illuso di aver raggiunto per virtù propria. Iddio si è allontanato da lui; l’uomo non ritrova se stesso; è sopraffatto dall’angoscia esistenziale; dispera. Ora Dio ha pietà di lui e a lui ritorna: gli dà la pace che vanamente nella grandezza e nella miseria aveva cercato fuori di Lui. L’Onnipotente lo eleva a “più spirabili aere” (dizione, anche questa, fatta oggetto di critica e, ciononostante, entrata a far parte della lingua dell’uso quotidiano): dalla soffocante coltre dei ricordi, sotto i quali l’anima del grande caduto s’era sentita schiacciata, al pensiero e alla speranza dell’aldilà. Lo innalza dunque “dal tempo” “all’eterno”, per dirla con Dante, alla contemplazione della vita ultraterrena:
E l’avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desideri avanza,
Dov’è silenzio e tenebre
La gloria che passò.
Versi, questi due ultimi, di profondo e vastissimo significato. Sparisce la gloria terrena fondata su valori temporanei e inevitabilmente caduchi, dei quali, nel mondo più alto che il transito dischiude al credente, neppure un’eco lontana resta e perdura.
Bella Immortal! Benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
Chè più superba altezza
Al disonor del Golgota
Giammai non si chinò.
Come tutti sanno la chiusa del Cinque Maggio parve a qualcuno troppo legata alle ragioni della parentesi cattolica e, addirittura quasi estranea al resto dell’ode, ad essa artificialmente aggiunta. Ma già il De Sanctis – in tempi ben prossimi al Manzoni – seppe collocare l’ode nella giusta prospettiva e impostare a dovere il problema critico che la riguarda. Infatti in pagine dedicate al Cinque Maggio diverse da quelle citate poco fa (tratte dalle lezioni zurighesi) scrive: “Molti credono che l’ultima parte ci stia, come appiccicata, quasi appendice, di cui si potrebbe far senza. (…). E non vedono che quella parte non è un prodotto arbitrario o sopravvenuto nell’immaginazione, ma l’apparenza ultima del concetto, di ciò che è la vita intima di tutto il racconto. In effetti, in questo mondo epico, l’individuo o l’eroe, grande che ei sia, e sia pure Napoleone, non è che un`orma del Creatore” (…). La gloria terrena non è in cielo che “silenzio e tenebre”. Sul mondano rumore sta la pace di Dio (…). La storia è la volontà imperscrutabile di Dio. Quello dunque che sembra appendice (…) è intimamente connesso con tutto l’insieme, anzi è lo stesso concetto o spirito della composizione”. Luigi Russo, per parte sua, prendendo le mosse dal De Sanctis, osserva – e ripete più volte, a dimostrazione di quanta affezione portasse a tale sua, ben nota, tesi critica, esposta con qualche indugio anche nella prefazione al suo commento ai Promessi Sposi – osserva, dicevo, che “l’arte del Manzoni è sempre complessa, è poesia, meditazione religiosa e storica, oratoria cattolica, non come momenti staccati l’uno dall’altro, ma tutti legati a un unico centro di ispirazione etico religiosa. Il Cinque Maggio anzi, nella sua brevità, potrebbe essere preso come lo specimen dell’arte dei Promessi Sposi, dove quei tre momenti ugualmente si succedono, e con preponderanza del momento artistico” (soggiungo che il Russo si sentiva impegnato nella difesa della prevalenza, nel romanzo, della poeticità, contro la negazione del Croce, da ultimo, come tutti sanno, rientrata). “Né vanno esclusi o menomati gli altri due momenti per amore estetico dellapoesiapura che sarebbe un modo di fraintendere e di mutilare il mondo espressivo del Manzoni”. La constatazione del Russo può essere ancora condivisa – direi anzi che è didatticamente utile -. Aggiungerò solo che la preoccupazione del critico – espressa in un periodo di trionfante crocianesimo – di tacitare le eventuali obiezioni degli ortodossi ricercatori della poesia pura, non avrebbe forse una ragione d’essere oggi, se è vero, com’è vero, che il fatto artistico è sempre complesso, e che lo sceveramento rigoroso della poesia dalla non poesia in un testo di altissima levatura qual è il Cinque Maggio, non sembra più un’operazione di grande rilievo e criticamente producente. Invero i tre aspetti o momenti sono inscindibili. Del resto il Russo reputa particolarmente importante tener fermo che “nel Cinque Maggio è già rappresentato nettamente lo schema dell’ispirazione manzoniana, che è sempre ispirazione morale, la quale si traduce, con vece assidua, in poesia rappresentativa, in meditazione e gusto storico, e infine in oratoria religiosa. E il sentimento morale abbraccia e completa ed eguaglia e dà unità di tono a queste fasi successive dell’espressione. E le liriche migliori, La Pentecoste, il Cinque Maggio, i due cori dell’Adelchi, sono quelle dove è più pieno l’equilibrio di questi tre momenti; e dove tale equilibrio è turbato, o c’è prevalenza di oratoria come in altri Inni Sacri e poesie politiche, o vi fa i suoi sforzi un intellettualismo storico e programmatico a cui sono frammiste alcune scaglie di poesia”. Il critico constata semmai un prevalere del momento parenetico nella penultima strofa or ora letta, dell’ode, quella dell’apostrofe alla Fede, cui il poeta si rivolge con l’epiteto di Immortale, che è nome (quasi dicesse Dea), strofa cui imputa non tanto il carattere oratorio in sé che – secondo il modulo critico assunto – non comporta censura, quanto la personificazione, l’elogio (“da missionario”) “ai trionfi avvezza”, la scarsa intimità del verbo allegrati, “che giunge fuori tono in una scena d’alta tragedia”.
Nessuna irrimediabile dissonanza, però. E la felicità definitoria di una locuzione quale “scrivi ancor questo, allegrati” è dimostrata dal successo che le è toccato (un’altra di quelle tessere manzoniane entrate nella lingua dell’uso: da parte di persone, s’intende, di un certo livello culturale). Potremmo dire, semmai, che l’apostrofe e l’immagine che l’accompagna tengono più dello spettacolo che del solenne; ma è anche vero che il lieve disagio che ne deriva è compiutamente assorbito nel “mondo infinito”, nella “poesia dell’eterno” (Russo) che si dispiegano in questa chiusa. E lo stesso può dirsi per i tre versi della seconda metà della strofa, che possono dare una qualche impressione di durezza, dovuta a soverchia concentrazione concettuale. Il Manzoni stesso chiarì in una sua lettera al marchese de Montgrand la difficile espressione “disonor del Golgota”, che designa la croce, derivata da san Paolo (“improperium Christi”) e familiare agli oratori sacri francesi (opprobre de la croix). Nessun genio più alto di Napoleone (“più superba altezza”: ove il poeta riconosce che quella del Còrso fu, sì, forse, vera gloria, almeno secondo quei parametri montiani dai quali è impossibile prescindere del tutto), nessun genio più alto di Napoleone, dicevamo, si chinò allo spregiato legno del Golgota, si piegò alla professione esplicita della fede cristiana. La fede sperda ogni ria parola dal feretro ove giace il corpo esanime di quel grande, che si farà cenere. Stanche anche quelle ceneri, come la mano (“e sull’eterne pagine cadde la stanca mano”).
La Fede, trasformando in pia e pensosa meditazione il raccoglimento sbigottito del mondo all’annuncio della morte dell’imperatore, dissolva ogni parola malevola, l’allontani da quel giaciglio solitario e remoto, che è stato visitato da Dio:
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola:
Il Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.
Nei due versi finali si condensa e si conferma il motivo fondamentale dell’ispirazione: in tutta la vita di Napoleone, ma specialmente nella sua caduta, il Manzoni vede e sente la mano di Dio, che atterra per rialzare, affanna per consolare. Che è, in sostanza, quello stesso tema religioso e lirico meditativo della provida sventura assunto dal poeta a protratto commento della morte di Ermengarda
Te dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l’offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,
Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi,
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.
Qua, intendo nel Cinque Maggio, il compito è meno diffuso, ma egualmente intenso e significante. Anche Napoleone è stato visitato dalla provvida sventura, che l’ha redento attraverso il dolore, così come ha stornato dalla incolpevole spoglia di Ermengarda, nata da una stirpe di oppressori, la esecrazione degli oppressi. La distinzione, certo, c’è, perché Ermengarda non ha colpe sue personali da scontare, mentre le ha il Bonaparte; ma per l’una e per l’altro il dolore, nei misteriosi disegni della Provvidenza, ha una funzione redentrice e liberatoria, ed è promessa di salvezza. Lo dice la strofa finale del secondo coro dell’Adelchi, lo dice il dissolversi, auspicato dal poeta, d’ogni ria parola dinanzi alla spoglia del Grande visitato da Dio.
Nota
Si è utilizzato il testo del Cinque Maggio commentato da A. Momigliano (A. Manzoni, Liriche, a cura di A.M., Torino 1936).
Nel testo sono citati alcuni passi delle Memorie manzoniane del Fabris (inseriti nell’antologia Colloqui col Manzoni, con introduzione e note di G. Titta Rosa, Milano 1954; a pp. 368-69 i passi citati). Per lo scritto del De Sanctis sul Cinque Maggio, cfr. F. De Sanctis, Alessandro Manzoni, a cura di C. Muscetta e D. Puccini, Torino 1965; per il commento di Luigi Russo cfr. A. Manzoni, Liriche e tragedie, a cura di L. Russo, Firenze 1945.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 7.2.1991 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura