Si può separare il comunismo di Marx dai comunismi storicamente realizzati dal 1917 a oggi? Se si può, Marx deve essere chiamato “fuori”, sottratto in qualche modo al giudizio di condanna che investe tutti i regimi comunisti. Ma non si può per ragioni fin troppo evidenti.
Tutti sanno che la dottrina del comunismo ha il suo vero autore in Karl Marx; orbene quando un intellettuale comunista come Asor Rosa scrive che vi sono nel comunismo, alla radice del fallimento dei vari comunismi, “errori di dottrina” si capisce molto bene di chi stia parlando: non di un fantasma, ma di Marx. E Asor Rosa individua in poche, chiare parole gli “errori di dottrina”: “il rifiuto del pluralismo, il monismo economico collettivistico”. Cioè i due connotati essenziali che differenziano il comunismo da qualsiasi altro regime politico ed economico: ed è da quegli “errori di dottrina” che discendono con rigorosa necessità il dovere di cancellare chi la pensa diversamente, il lager-gulag per qualsiasi dissidente, “la ferrea gabbia – come scrive Asor Rosa – del terrorismo di Stato e della persecuzione anti-libertaria”, cose fino a ieri denunciate alla coscienza morale dell’umanità solo da chi comunista non era.
Antonio Giolitti, ex-comunista uscito dal Pci nel ’56 per l’atteggiamento del partito di Togliatti sui fatti di Ungheria, fa però un passo avanti assai significativo rispetto ai compagni del Pci. Secondo lui, infatti, non si può tagliare il cordone ombelicale che unisce comunismo e oppressione totalitaria se non ci si dà “una cultura diversa da quella del filone Marx, Engels, Lenin, Gramsci, Togliatti”. Operazione assolutamente necessaria, “benché sia difficile liberarsi del tutto da questo tipo di cultura”. Di più: Giolitti conclude con molto ottimismo il suo intervento su "Repubblica" del 17 giugno di quest’anno dando felicemente per condiviso ormai dal partito, nelle cui liste è stato eletto come senatore nel 1987, proprio quello che molti oggi sono decisi a non concedere. Scrive Giolitti: “Ora, però, si chiamano le cose col loro nome e si parla di fallimento del comunismo senza più nascondersi dietro alla comoda formula: sono falliti i Paesi del comunismo reale”.
Non so quanti siano i comunisti che ragionino come Giolitti, io, però, che non sono comunista, mi trovo perfettamente d’accordo con lui. È giunto il tempo, infatti, di dare un bell’addio alla scolastica del marxismo, che fa scomparire magicamente l’oggetto stesso di cui si sta discutendo, rinunciando una volta per tutte sia all’assurda, ridicola pretesa di essere scienza definitiva e totale del processo storico, sia al totalitarismo della sua pratica politica. I critici del marxismo debbono saper rintracciare i meriti, l’anima di verità, i molti giusti punti di partenza della battaglia marxista, individuando le cose di cui siamo debitori a Marx, avendo egli aperto i nostri occhi su molte e nuove questioni, come riconosce anche un giudice giustamente severo quale Karl Raimund Popper. Ma i marxisti e i comunisti debbono fare, benché per loro sia un amaro cilicio, la loro parte individuando nel marxismo le chiusure d’orizzonte, le contraddizioni, le unilateralità, le conseguenze atrocemente disumane degli innegabili “errori di dottrina” e di prospettiva storica. Ciò che non bisogna più fare è rifugiarsi nella fantasticheria della pretesa società perfetta, vero regno messianico in terra, generatore di fanatismo e di persecuzione; né si deve continuare a ricorrere a Marx come a una sibilla, i cui responsi possano sempre essere rigirati da molte parti, sebbene questo ruolo non dispiacesse affatto allo stesso Marx.
Le idee hanno una loro fecondità, sia quelle vere sia quelle errate. Hegel diceva: “Le idee hanno mani e piedi”. Esse camminano tra gli uomini e prima o poi generano i loro effetti. Da “errori di dottrina” è vano pensare che non ci vengano “soluzioni catastrofiche”. Fa però rabbia, e molta, pensare che ciò che è sotto i nostri occhi amaramente verificabile, quasi un secolo e mezzo fa Proudhon, che è forse il maggior pensatore socialista e il più disprezzato da Marx, lo aveva previsto e detto senza mezzi termini. L’operaio Proudhon criticò a fondo – con molto buon senso, con felici intuizioni e preveggenza – i principi che erano alla base del comunismo di Marx: principi di cui intravvide gli esiti totalitari e, quindi, il carattere effettivamente regressivo.
Proudhon aveva capito che bisognava sottrarsi all’impostazione manichea data da Marx alla scelta di civiltà che l’Europa doveva compiere: lottare per far prevalere il collettivismo o difendere l’ordine esistente. Egli voleva il superamento dell’ordine borghese, ma rifiutava il collettivismo marxista, perché il monopolio statale dei mezzi di produzione genera una società bloccata e rende l’apparato burocratico padrone incontrastato, gestore di una schiavitù generale e senza scampo. Per Proudhon il “pazzesco” teorema che fa coincidere socialismo e dittatura dello Stato-partito avrebbe portato al Moloch burocratico-totalitario. Marx aggredì, con la solita intolleranza e con il solito profondo disprezzo per i socialisti, l’operaio Proudhon, l’autodidatta ridicolo e fermo ancora ai pregiudizi piccolo-borghesi, colpevole d’ignorare la misteriosa onnipotenza della dialettica.
Dialettica in virtù della quale è proprio il massimo del dispotismo, quello attuato dallo Stato ideocratico comunista, a generare il massimo di libertà e con essa un’umanità nuova, paradisiaca! La storia ha confermato le ragioni di Proudhon e gli “errori i di dottrina” di Marx, ma allora fu Marx a vincere la partita. E l’umanità ne sta pagando ancora le conseguenze. Il malcostume di abolire tutti i controlli logici ed empirici – e proprio in campi come quelli della politica e dell’economia – inaugura una nuova sofistica grazie al gioco dei rovesciamenti dialettici e ha esiti deleteri: chi si affida a quel gioco, malgrado il rivestimento culturale che copre la povertà di uno schema ripetitivo, aggira il principio della realtà e si consegna all’arbitrio del desiderio che ci fa credere vero ciò che vogliamo sia tale (quod volumus libenter credimus).
D’altra parte, a quel gioco e alle sue ambiguità intendeva far ricorso Marx non solo nella sua febbre di teorizzare, ma anche per… mettersi al riparo da qualsiasi smentita potesse venirgli dai fatti. Sono parole testuali di Marx – e parole terribilmente inquietanti – quelle contenute nella lettera del 15 agosto 1857 a Engels: “È possibile che si faccia una figuraccia. Tuttavia potremo sempre cavarcela con un po’ di dialettica. Naturalmente ho tenuto le mie considerazioni su un tono tale che avrò ragione anche in senso contrario”.
Giornale di Brescia, 11.7.1989 e 18.7.1989.