In numerosi paesi, grandi speranze aveva suscitato l’annunzio del Concilio Vaticano II e so-prattutto il suo svolgimento. Con la vittoria graduale della maggioranza, diciamo, aperta, appoggiata con discrezione, ma nettamente da papa Paolo VI, sulla spaventata minoranza conservatrice. A que-sto ottimismo è subentrato nel corso degli anni un pessimismo crescente e, durante gli anni ’70, si parlava sempre più spesso di fallimento del concilio. Che appariva tanto più grave in quanto non si trattava soltanto di un fallimento del rinnovamento, o aggiornamento della chiesa, atteso dal conci-lio, ma della constatazione di una crisi sempre più grave della chiesa.
Di fronte a questa crisi, lo smarrimento e lo scoraggiamento di numerosi preti e laici si ma-nifestava in due direzioni contrapposte. Gli uni ritenevano responsabile di questa crisi la timidezza delle autorità ecclesiastiche, prigioniere del sistema e più preoccupate di rinnovare le forme tradi-zionali che di innovare veramente: in sostanza il rifiuto di una più ampia e più rapida evoluzione nella direzione di maggiore apertura avviata dal concilio. Costoro avevano sperato che il concilio costituisse un punto di partenza per nuovi progressi, dopo aver fatto saltare una serie di freni, e si preoccupavano di vedere l’apparato riprendere a poco a poco le cose in mano, rallentare l’evoluzione, talvolta tornando addirittura indietro disapprovando certe esperienze. Essi pensavano che la chiesa soffrisse di una interpretazione troppo astratta e amministrativa del concilio, riteneva-no che dopo la primavera conciliare la chiesa soffrisse ancora di quel languore che aveva ridotto la sua influenza fin dall’Ottocento e che essa stesse nuovamente perdendo il contatto, ritrovato per un istante durante gli anni del concilio, con il mondo profano, che si evolve sempre più in fretta.
Riassumendo, per questa prima corrente la crisi della chiesa, che veniva sviluppandosi sotto i loro occhi, era provocata dall’infedeltà dei responsabili della chiesa stessa al vero spirito del conci-lio lanciato da Papa Giovanni. Ma, a questa analisi, gli altri, i così detti tradizionalisti, opponevano una interpretazione completamente diversa della crisi della chiesa. Costoro erano molto preoccupati nel constatare tanti cambiamenti e perfino sconvolgimenti, che, secondo loro, rimettevano in di-scussione gli aspetti essenziali della vita cattolica. E non soltanto delle tradizioni alle quali essi era-no attaccati, come la messa in latino, il canto gregoriano, certe forme di devozione, ma le basi stesse della fede cristiana. Rimproverano ai vescovi e persino al papa di non reagire con sufficiente fer-mezza, di lasciare troppa libertà di parola e di azione ai demolitori. E aggiungevano che la respon-sabilità prima era del concilio, che aveva scatenato una messa in discussione generalizzata di tutte le tradizioni cattoliche. Al tempo stesso, con la sua nuova ecclesiologia imperniata sulla collegialità, il concilio aveva scalzato le basi dell’autorità nella chiesa, impedendo psicologicamente ai responsa-bili di prendere i provvedimenti contro i demolitori.
È importante notare che in questo secondo gruppo si trovano non solo conservatori di ten-denze reazionarie, che durante il concilio erano stati all’opposizione contro gli atteggiamenti di a-pertura voluti da Giovanni XXIII e da Paolo VI. Ma tra essi si trova anche un certo numero di spiriti aperti, che avevano applaudito al concilio ma che in seguito si erano spaventati nel vedere ciò che accadeva e si chiedevano se non avevano ripetuto la fatale esperienza dell’apprendista stregone. In-somma il disagio e addirittura lo scoraggiamento in molti è innegabile. Ma le due analisi, che ho brevemente riassunto, a mio giudizio sono entrambe inesatte e unilaterali.
In realtà il fatto di cui finalmente si comincia a rendersi meglio conto, la crisi attuale della chiesa è solo un aspetto della crisi più generale della civiltà occidentale, che caratterizza la seconda meta del XX secolo. D’altra parte è sorprendente constatare che le chiese protestanti, quella angli-cana, quella ortodossa, che il concilio Vaticano II non riguardava direttamente, soffrono di una crisi analoga e talvolta anche più grave. In effetti, del resto, la maggior parte degli elementi della crisi at-tuale, esistevano già prima del concilio. Si dimentica spesso che quando Giovanni XXIII annunciò la convocazione del concilio Vaticano II, molti osservatori parlarono di concilio dell’ultima possibi-lità. I progressisti rimproverano proprio che si è mancata questa ultima possibilità, essi ritengono che il concilio non è riuscito a scongiurare la crisi incombente, perché i germi fecondi che esso ave-va seminato sono stati soffocati, perché le autorità ecclesiastiche hanno fatto tutto il possibile per richiudere la porta che era stata socchiusa. In realtà la domanda che ci si può porre, a vent’anni dall’inizio del concilio, è se la porta è stata veramente chiusa o se sono stati presi soltanto alcune precauzioni contro correnti d’aria troppo forti che rischiavano di sconvolgere tutto se non si correva ai ripari. E l’altra domanda da porre, questa volta ai tradizionalisti, è se molti dei fenomeni nuovi che si osservano nella chiesa da una quindicina d’anni a questa parte sono veramente conseguenza del concilio o se quest’ultimo non ha semplicemente cercato di incanalare una serie di forze che e-rano già all’ opera nella chiesa alla fine della guerra o persino, talvolta, durante la prima meta nel XX secolo.
Le risposte a queste due domande sono tanto più complesse, in quanto il concilio Vaticano II ha toccato numerosissimi aspetti. Le cose non si sono sviluppate con il medesimo ritmo e nello stes-so modo in tutti i settori e tanto meno nello stesso modo nei diversi paesi. Sarebbe necessaria una lunga conferenza e forse anche più di una per esaminare un po’ particolareggiatamente questo ar-gomento. Questa sera mi limiterò a qualche riflessione riguardante soprattutto il mio paese. Un pic-colo paese ma che ha esercitato nella chiesa un’influenza abbastanza grande durante la prima metà del XX secolo e in particolare al concilio, dove si è parlato a più riprese. Alcuni con ammirazione, altri con contrarietà, di grande prestazione della «squadra belga». Aggiungerò qualche parola sull’evoluzione delle cose in un paese vicino, l’Olanda, dove questa evoluzione ha assunto una an-datura più decisa, più violenta, richiamando maggiormente, in certi momenti, l’attenzione della stampa internazionale.
Il concilio Vaticano II non ha provocato in Belgio il medesimo smarrimento verificatosi in molti altri paesi. Indubbiamente la nuova liturgia ha stupito un certo numero di fedeli, ma in Belgio non si è sentita l’esclamazione: «Ci hanno cambiato la religione!». La spiegazione è semplice. Il Belgio cattolico costituiva tra le due guerre terreno d’avanguardia, dove erano maturati numerosi temi teorici e pratici destinati ad occupare un posto di primo piano nelle discussioni conciliari. Pa-recchi movimenti che hanno preparato il concilio, movimento liturgico, movimento biblico, movi-mento ecumenico, affermazione del ruolo del laicato nella chiesa in seno ai moventi di azione catto-lica, rinnovamento teologico, rinnovamento missionario, tutti questi movimenti nel Belgio del se-condo quarto del XX secolo avevano conosciuto una vitalità particolare. Ciò avvenne certo per un contatto con le realizzazioni tedesche e francesi, ma spesso con caratteristiche proprie, e prendendo in più di un caso l’iniziativa. Uno dei principali iniziatori del movimento di pastorale liturgica è un benedettino belga, che è pure all’origine dell’ecumenismo cattolico, nel momento stesso in cui il cardinale Mercier, arcivescovo di Malines prendeva un’iniziativa assai coraggiosa per quell’epoca: le «Conversazioni di Malines» con gli anglicani. Il fondatore del movimento di azione cattolica più caratteristico tra le due guerre è un belga. Uno dei centri più fecondi dell’aggiornamento teologico tra gli anni ’40 e ’60 fu l’università di Lovanio, il cui influsso internazionale è stato considerevole, ecc. In queste condizioni si capisce non solamente come la squadra belga, guidata con grande abilità diplomatica dal cardinal Suenens, abbia avuto un tale ruolo nell’elaborazione di parecchi importanti testi conciliari, ma anche come all’indomani del concilio la maggioranza dei cattolici belgi e del clero belga non siano rimasti sconcertati dalle decisioni conciliari. Queste ultime per l’insieme della chiesa del Belgio non costituivano un voltafaccia, ma piuttosto una solenne conferma delle tendenze che da anni cercavano di affermarsi. Talvolta contro la reticenza della curia romana.
Ciò non vuol dire, tuttavia, che il postconcilio sia stato senza problemi. Ce ne sono stati e di diversa natura, anche se non si è verificato nel Belgio un movimento scismatico di estrema destra come in Francia con monsignor Lefebvre, né spinte radicali di progressisti estremisti come fu il ca-so dell’Olanda. Primo problema, in Belgio come altrove, fu l’applicazione della riforma liturgica. Era l’aspetto più visibile dell’aggiornamento conciliare. Molti cattolici belgi illuminati, specialmen-te quelli formatisi nei movimenti giovanili, erano preparati al cambiamento, anzi esso rispondeva alla loro attesa e in molte sedi si era introdotto il più possibile l’uso del francese o del fiammingo nella liturgia dei sacramenti o nella prima parte della messa. La massa dei fedeli, specialmente quel-li di una certa età, subirono uno shock, specialmente là dove i parroci e i curati precipitarono le co-se, senza prendere il tempo necessario per preparare l’evoluzione attraverso una appropriata peda-gogia. La trasformazione di certi aspetti esteriori, in particolare la brusca eliminazione di statue di santi, ai quali il popolo era attaccato, l’introduzione di canti religiosi improvvisati, di qualità spesso mediocre, provocarono non poco scontento, ma tutto questo durò generalmente solo qualche mese. L’uso della comunione data in mano, per esempio si è rapidamente generalizzato senza problemi. Solo alcuni piccoli nuclei di resistenza, che rimpiangono che non vi sia stato il monsignor Lefevre belga, sopravvivono qua e là. In particolare a Liegi, e a Charlesroi.
Altro problema, meno vistoso ma più serio, fu l’organizzazione concreta della collegialità a livello diocesano. Il grande sviluppo dei movimenti di azione cattolica nel periodo tra le due guerre aveva largamente preparato alla partecipazione attiva dei laici alla vita della chiesa, e l’interesse del cardinal Suenens a partire dagli anni ’50 per la legione di Maria e più tardi per i movimenti carisma-tici ha grandemente facilitato l’evoluzione verso una chiesa meno clericale, sebbene tale evoluzione sia stata più lenta in certe diocesi, senza tuttavia provocare scontri seri tra i fedeli e la gerarchia. Di contro, le difficoltà sono state maggiori nella ricerca di un nuovo stile di rapporti tra i preti e le am-ministrazioni diocesane. L’organizzazione dei concili presbiterali non è stata un successo in Belgio, e molti preti, che da essi attendevano molto per un rinnovamento dei metodi pastorali, sono rimasti delusi per i magri risultati ottenuti, mentre parecchi vescovi si sono preoccupati di certe reazioni che apparivano loro come indice di insubordinazione.
Ma il grande problema della chiesa postconciliare in Belgio è un altro. È la crisi della chiesa che si è pericolosamente accentuata dopo la fine del concilio. Al di là delle scaramucce tra tradizio-nalisti e progressisti bisogna rilevare una serie di segni preoccupanti: la diminuzione della pratica domenicale; il calo accelerato delle vocazioni sacerdotali e religiose, e il malessere di cui soffrono molti preti che si interrogano sulla loro identità, come si usa dire, che ha provocato centinaia di ab-bandoni negli anni ’70; la crisi dei movimenti di azione cattolica specializzati, che prendono le di-stanze dalla gerarchia e intendono svolgere in maniera autonoma un’azione spesso più vicina ad un impegno socio culturale di ispirazione più o meno marxista, che ai programmi di apostolato di un tempo; anche la diffidenza generalizzata, soprattutto fra i giovani, nei confronti della istituzione ec-clesiale, alla quale si rimprovera la mancanza di coraggio nell’attuazione pratica degli orientamenti conciliari, i suoi tentativi di recupero. Diffidenza che ha come corollario la costituzione di gruppi marginali selvaggi, certo minoritari, ma che proclamano apertamente le aspirazioni tacite di un buon numero di cattolici, convinti che i criteri di appartenenza alla chiesa stabiliti dall’organizzazione ufficiale non possono più avere la pretesa di esprimere l’esperienza cristiana nella sua totalità. Ancora: l’abbandono di ogni forma di preghiera regolamentata dalla gerarchia, e uno sviluppo della liturgia sempre più fantasioso, l’organizzazione degli incontri ecumenici a livello di base senza tenere conto delle direttive ufficiali e, anche, la confusione dottrinale, che si trasferi-sce sia sul piano della catechesi sia a livello di ricerche teologiche, specialmente nella parte fiam-minga del paese, sotto l’influenza dell’esempio olandese. Da ultimo, la rimessa in discussione dell’etica tradizionale, specialmente in materia di morale coniugale, evidenziata da sommovimenti particolarmente vivi nelle Fiandre, provocate dall’enciclica Humanae vitae. Elementi tutti inconte-stabili, che se testimoniano della vitalità di larghi strati del popolo fedele, là dove molti osservatori dall’esterno credevano di avere a che fare con un sistema burocratico sempre più sclerotizzato, non-dimeno sono preoccupanti per dei credenti che si sentono corresponsabili della loro chiesa. Ma, essi soli non rappresentano tutta la realtà del cattolicesimo belga degli anni ’70.
Ammesso che si possa ancora parlare, come una volta, di un cattolicesimo belga sul piano religioso come su quello profano, la separazione fra le due comunità, fiamminga e francofona si è accentuata con tempi accelerati a partire dalla fine del concilio. Non soltanto la quasi totalità delle organizzazioni cattoliche sono attualmente divise in due branche praticamente indipendenti, ma la problematica stessa è sempre più differente sui due versanti della frontiera linguistica. Comunque stiano le cose, riguardo a questo aspetto nuovo, che è importante, ma con differenti sfumature al nord e al sud del paese, si può dire che accanto agli aspetti negativi ora ricordati un certo numero di altre osservazioni suggeriscono di giudicare la situazione reale in maniera più positiva. La pratica domenicale è in diminuzione, senza dubbio. Ma, per una certa parte questa diminuzione riguarda soprattutto un cattolicesimo cosiddetto sociologico, piuttosto superficiale, dove la pratica era il ri-sultato della pressione sociale più che di convinzioni religiose profonde. E d’altra parte è importante valutare la portata esatta del fenomeno, che non implica affatto in numerosi casi una rottura con la chiesa. Un’inchiesta ha dimostrato per esempio che solo il 44% degli studenti di un’istituzione cat-tolica di istruzione superiore assistevano alla messa tutte le domeniche. Ma ce n’è un altro 32% che vi andava almeno una volta al mese, e un certo numero frequentava abbastanza regolarmente una messa di classe durante la settimana. Per non parlare del frequente progresso della qualità religiosa di queste messe, in seguito alla riforma liturgica, uno dei migliori frutti del concilio, malgrado qual-che inevitabile sbavatura.
Altra cosa: se è incontestabile che molti giovani adulti prendono nettamente le distanze nei confronti delle disposizioni ecclesiastiche, molti continuano a presentarsi come cristiani, e dimo-strano spesso una sensibilità ai valori evangelici, più affinata di quella di molti benpensanti delle generazioni precedenti. Molti giovani sono indubbiamente segnati dall’atmosfera di rilassatezza morale che caratterizza la nostra epoca e dalle obiezioni corrosive dei «maestri del sospetto», ma allo stesso tempo i numerosi giovani che si dedicano al servizio del Terzo e del Quarto mondo, o che cercano un approfondimento della loro vita spirituale nei gruppi carismatici, non reggono forse vittoriosamente il confronto con quelli più vecchi di loro che si consideravano come l’elite cattolica perché erano sfilati bandiera in testa gridando a squarciagola: «Viva Cristo re!»?
In un altro ambito gli sbandamenti dottrinali che si constatano anche e forse sopra tutto in una parte del clero sono certamente preoccupanti. Ma, parallelamente, c’è uno sforzo intrapreso per trasformare la lezione di catechismo, basata sulla memorizzazione di formule astratte, in una inizia-zione alla vita cristiana e in una presa di coscienza dei grandi motivi ispiratori evangelici, il che co-stituisce, malgrado certi passi falsi, un progresso innegabile. E la qualità della riflessione religiosa sviluppata, per esempio, nei cicli di conferenze organizzate in parecchie città del paese o nella «Re-vue théologique de Louvain», il nuovo organo della Facoltà di teologia di Louvain-la-Neuve, che ha suscitato immediatamente una eco assai favorevole all’estero, dimostrano con evidenza che la crisi del pensiero cattolico, in Belgio, non è così profonda come certi pessimisti pretendono. Il numero delle religiose è in rapida diminuzione è vero, e ciò pone sicuramente per l’avvenire gravi problemi in tutta una serie di settori. Ma molte suore hanno avviato un ripensamento della loro vocazione e la realizzazione dell’aggiornamento spirituale e pastorale al quale le invitava, per esempio, il cardinale Suenens nel suo libro Promotion apostolique de la religeuse. E se la disaffezione nei riguardi della chiesa istituzionale non può essere presa alla leggera, un certo ringiovanimento delle strutture è sta-to avviato con il concilio. Consigli parrocchiali che associano più da vicino e fedeli ai problemi del-la loro comunità, riorganizzazione dei compiti sacerdotali in settori meglio adeguati alle realtà so-ciologiche, impostazioni di gruppi di lavoro inter diocesani, che preparano ad una migliore collegia-lità episcopale, etc. Riassumendo, senza negare l’effettiva realtà dei sommovimenti postconciliari, né soprattutto di una crisi della chiesa che si è accentuata dopo il concilio, il bilancio oggettivo, te-nuto conto del passivo, ma anche dell’attivo, non mi sembra giustificare per il Belgio un pessimi-smo eccessivo. Un breve, molto breve, confronto con la situazione olandese concluderà la mia e-sposizione.
La situazione di partenza era assai diversa. Fino alla vigilia del concilio la chiesa olandese non era affatto una chiesa di punta, al contrario. Era un modello di organizzazione istituzionale effi-ciente, ma lo spirito era profondamente conservatore. I laici erano sottomessi incondizionatamente al clero e quest’ultimo viveva fedele alle disposizioni romane, pronto a dare uguale credito a tutto ciò che proveniva dagli uffici della curia o a ciò che era decisione personale del papa. I pochi intel-lettuali laici che si permettevano di criticare la mentalità confessionale nella quale viveva il cattoli-cesimo olandese erano guardati con diffidenza. Ma in pochi anni si è verificata una profonda tra-sformazione: i partigiani dell’apertura, fino a quel momento nettamente in minoranza, sono improv-visamente diventati maggioranza. E il loro confronto con i tradizionalisti, assume spesso la parven-za di un regolamento dei conti. Il rovesciamento della situazione nel giro di qualche anno è chiara-mente dimostrato da questo piccolo fatto. I grandi giornali cattolici olandesi, modello di conformi-smo fino a qualche anno prima, sono di colpo passati nelle mani dei progressisti, al punto che quan-do un gruppo tradizionalista vuole rivolgere un messaggio al grande pubblico cattolico si vede co-stretto ad affittare una pagina di pubblicità in uno dei principali giornali, la cui direzione rifiuta di accettare spontaneamente i suoi articoli.
Con il concilio si è prodotto a livello della comunità cattolica quella che nell’individuo viene definita crisi adolescenziale. Tenuti a lungo al guinzaglio da pastori molto zelanti, ma autoritari e clericali, i cattolici olandesi, e specialmente i giovani hanno di colpo preso coscienza di essere giun-ti all’età adulta e rivendicano il loro diritto ad agire da adulti emancipati e non più come fanciulli sottomessi. E questo con una veemenza contestataria che si esaspera di fronte alle critiche e ai ri-chiami all’ordine, anche giustificati. Questa aspirazione all’emancipazione aumenta ancora per una specie di trionfalismo. I cattolici olandesi avevano a lungo sofferto per essere considerati nel loro paese, dai protestanti, come cittadini di serie B. Di essere praticamente ignorati dal resto del mondo cattolico. Di colpo, l’ala marciante del cattolicesimo olandese ha provato la sensazione di essere all’avanguardia rispetto ai cattolici degli altri paesi, di mostrare loro la via per l’attuazione dello spi-rito del concilio e i numerosi servizi giornalistici di cui essi erano l’oggetto presso la stampa inter-nazionale non potevano che confermarli nel loro nuovo complesso di superiorità. L’attenzione tra i due gruppi, progressisti e tradizionalisti, l’attenzione viene ulteriormente accentuata da alcune ca-ratteristiche nazionali. In primo luogo una tendenza all’estremismo e al radicalismo, quando sono in gioco le idee. Popolo di uomini d’affari posati e accorti, quello olandese si è sempre dimostrato, e da molto tempo, fautore di posizioni nette e senza sfumature in ambito intellettuale o religioso. Di qui una radicalizzazione delle opposizioni che raramente è dato di trovare altrove. D’altra parte la tradizione democratica, profondamente radicata nei costumi a partire dal Cinquecento, ha come conseguenza che i conflitti anche in materia religiosa vengono immediatamente portati sulla pubbli-ca piazza, discussi sui quotidiani destinati al grande pubblico, o nelle riunioni, invece di essere esa-minati a porte chiuse nell’atmosfera ovattata dei vescovadi. Questo spiega anche come all’estero ci sia stata facilmente la tendenza a credere che l’Olanda fosse sull’orlo dello scisma. Malgrado la vio-lenza esteriore del dibattito, la situazione era lungi dall’essere così drammatica. Pur non essendo drammatica, ciò non di meno la situazione era molto seria. Analizzando la situazione, un sociologo ha scritto una decina di anni fa: «La pluralità delle opinioni può preservare la vita di un gruppo dalla fissità ed essere fonte di arricchimento, ma tutto porta a formulare l’ipotesi che questo effetto sarà inversamente proporzionale all’intensità delle tensioni. Un conflitto sarà tanto più fecondo quanto più si sottrae all’esasperazione delle tensioni e di conseguenza resta limitato. Per quanto riguarda il conflitto all’interno del cattolicesimo olandese va detto che questa fase è stata da tempo superata. La radicalizzazione è già andata avanti molto e le parti diventano sempre più estranee l’una all’altra».
Questa sera non è il caso di ricordare anche brevemente i punti principali sui quali progressi-sti e tradizionalisti si sono scontrati nei 10 anni successivi alla fine del concilio. Mi limito a richia-mare rapidamente qualche ambito in cui le passioni si sono particolarmente scatenate. In primo luo-go, come nella maggior parte degli altri paesi, ci sono state le innovazioni liturgiche, andando molto più in là di quanto previsto dal concilio; poi c’è stata la questione del clero, e in particolare quella del celibato sacerdotale. Non solo il numero delle vocazioni è precipitato in proporzioni catastrofi-che (da 318 nel ’60 a 110 nel ’69, a 26 nel ’72), ma un numero sempre crescente di preti ha abban-donato le proprie funzioni: 243 nel 1970, vale a dire l’1,94 %del totale, contro lo 0,32 della Francia, 0,60 della Germania, e lo 0,68 della chiesa complessivamente. Altri sacerdoti pretendono di sposar-si senza l’autorizzazione della chiesa, e ancora è da rilevare che su quest’ultimo punto la maggior parte dei vescovi olandesi si sono uniti all’aspirazione di una assai larga maggioranza del proprio clero di vedere soppresso l’obbligo del celibato sacerdotale, sull’esempio di quanto è ammesso da Roma per il clero di rito orientale. Parimenti si è avuta l’organizzazione di quello che è stato chia-mato il concilio pastorale. L’idea di partenza era eccellente: associare l’insieme del popolo cristiano all’aggiornamento della chiesa, raccomandato dal Vaticano II. Ma il nome stesso di concilio per un’assemblea in cui preti e laici discutevano con i vescovi era un po’ preoccupante e in ogni caso malaccorto. E di più certe prese di posizione della maggioranza erano incontestabilmente premature e talvolta assai discutibili. Era inevitabile che Roma si preoccupasse e imponesse di porre fine ad una esperienza che rischiava di sfociare nell’ignoto. C’è stata anche la questione del nuovo catechi-smo che ha molto contribuito ad inasprire le relazioni tra Roma e i cattolici olandesi; anche in que-sto caso l’idea di partenza era buona. La realizzazione, dovuta a qualche teologo di valore, era so-stanzialmente soddisfacente, ma c’era qualche ingenuità di cui si è approfittato per attaccare l’iniziativa e gettare il sospetto sull’ortodossia di sacerdoti che godevano della fiducia della gioven-tù intellettuale e che la meritavano completamente. Tuttavia se sembra che le critiche pronunciate con passione contro il nuovo catechismo olandese siano state in buona parte ingiuste e eccessive ciò non di meno è vero che durante quegli anni di crisi si produssero pericolose deviazioni dottrinali. Un professore dell’università cattolica di Nimega, che era stato durante gli anni ’40-’50 uno dei por-tavoce più ascoltati dagli intellettuali progressisti, ha ritenuto necessario protestare contro l’evoluzione che egli giudicava eccessiva, a rischio di essere trattato come un rinnegato dai suoi vecchi discepoli. In particolare lui scriveva: «A forza di pensare al genere umano alcuni oggi arri-vano a dimenticare Dio. La sociologia tende a sostituirsi alla teologia. Si vedono predicatori che ri-cordano quei parroci tedeschi dei tempi dell’Auffklarung, la cui unica preoccupazione era quella di diffondere la vaccinazione antivaiolosa, e la coltivazione delle patate. Essi hanno sempre in bocca l’Unesco, l’antirazzismo, il Biafra, il Brasile, il che è loro diritto e dovere, ma senza dire più nulla della Rivelazione, del significato ultimo della vita».
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 25.2.1983 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.