Siccome io non sono storico di mestiere, sicché, forse, più semplicemente fornirò una testi-monianza circa la situazione così come è stata vissuta nel nostro paese, cioè la Svizzera, in questi ultimi anni del dopo concilio. Mi è stato chiesto di parlare della Svizzera e della Germania. La Germania la conosco un po’, la Svizzera non so se la conosco bene, benché io stesso sia svizzero, perché – è una cosa un po’ buffa da dire fuori – piccola com’è la Svizzera, è tuttavia un insieme di ancora più piccole unità, ciascuna delle quali ha la sua storia, il suo sistema e la sua mentalità. Da noi, quando si fa una mezz’ora di treno già si cambia d’orizzonte. Questo non lo si afferra bene da fuori, ma se vogliamo capire qualche cosa della Svizzera, dobbiamo tenerne conto. Per esempio, ciascun cantone ha un proprio sistema di rapporti chiesa-stato. Il sistema scolastico è differente da un cantone all’altro. Non siamo stati capaci di metterci d’accordo sull’orario delle vacanze, per e-sempio. Questi sono piccoli esempi. Poi abbiamo i nostri «centri» culturali fuori di noi. Cioè la Svizzera francese dipende dalla Francia, la Svizzera tedesca dalla Germania, e c’è anche la Svizzera italiana, che dipende molto da Milano, benché vada poi detto che la nostra specificazione è di tipo politico. Sul piano politico direi che abbiamo sviluppato una virtù, che forse è anche un difetto qualche volta, che è la virtù del compromesso. Se la Svizzera vuol vivere e continuare a vivere do-vrà vivere con i compromessi, e questo spiega anche molto delle nostre reazioni e delle nostre non reazioni. Perché senza compromessi è la fine del paese. Noi non abbiamo avuto una lotta linguistica come in Belgio, per esempio, ma perché? A causa di questo senso del compromesso e anche di una larga tolleranza dal punto di vista civico. Questo non vuol dire che tutto sia, diciamo, neutralizzato da noi. È anche interessante pensare che nella Germania protestante, prima del concilio, alcuni tra i più grandi teologi erano svizzeri. E anche adesso quando si parla in campo cattolico di teologi, sono ancora nomi svizzeri che emergono e che lavorano fuori dal loro paese d’origine. Pure questo è tipi-camente nostro, cioè abbiamo bisogno quando vogliamo un po’ respirare di lasciare le frontiere. Poi, per quanto riguarda i cattolici, non dobbiamo dimenticare che sono i cantoni rurali ad essere rimasti cattolici; e se i cattolici sono numerosissimi, anche in maggioranza, a Ginevra, la mia città, va peraltro detto che la cultura dominante è protestante. Ciò spiega molte cose, specialmente anche un certo complesso d’inferiorità da parte di noi cattolici. Siamo tutti di umili origini e poi c’è poca crescita – come negli Stati Uniti, se volete, la situazione è un po’ simile -, sicché non si può dire dei cattolici svizzeri quello che di bello Monsignor Aubert ha raccontato dei belgi. Abbiamo alcuni grandi nomi, ma non tanti.
Mi accingo ora a parlare un po’ del concilio. Dobbiamo dire che il concilio è stato percepito come un «avvenimento» prima di tutto. Parlerò dopo del «contenuto» del concilio, ma ciò che va detto anzitutto è che è stato percepito come avvenimento. Chi ha agito molto in tal senso è stata la figura di papa Giovanni XXIII. Papa Giovanni è stato molto popolare anche fuori degli ambienti cattolici. Quando io ero bambino, a scuola tra i cattolici e i protestanti c’era sì cortesia, ma si tratta-va sempre di gruppi ben delimitati; le cose nostre non erano le cose degli altri, e viceversa. Di fatto questo papa è riuscito a far cadere delle frontiere ed è stato molto amato anche negli ambienti prote-stanti. Questo è stato il grande fatto, direi. Sicché il concilio è stato seguito da molta gente. Ma è stato seguito non perché è stato tanto studiato – questo io direi che è subentrato dopo -; piuttosto è stato seguito come avvenimento, cioè come il venire meno di una certa immagine della chiesa catto-lica, intesa quale organizzazione rigida, centralizzata. La figura di Pio XII contribuiva a dare questa immagine. Era visto così. Con papa Giovanni hanno capito che forse non era così, perché aveva il coraggio di rimettersi in questione, e questo ha colpito molti spiriti. Poi ci sono stati dei gesti o de-gli atti. Per esempio una persona che ha avuto un grande ruolo nel concilio, il cardinale Bea, è stato invitato a Ginevra, è venuto ed è andato nei luoghi sacri, cioè tradizionali della chiesa protestane. È stato un grande momento, questo, per far cadere delle frontiere che tenevano da secoli e secoli. Non dico che non ci siano state delle persone che non hanno preparato un po’ il terreno, ma il concilio ha operato una svolta nella mentalità. Sicché si può dire che quando si parla del concilio da noi, l’aspetto primordiale è l’ecumenismo. Questo è normale, perché molti cantoni sono di religione mi-sta e ciò vuol dire che la popolazione è mista quanto alla religione.
L’ecumenismo, ne parlerò anche in seguito, è stato il frutto primario del concilio da noi. Ma la conoscenza del concilio, da parte della grande massa della popolazione, è passata attraverso i mass media, che si rivelavano talvolta più attenti agli aspetti più eclatanti o curiosi, cioè non so se il contenuto dei testi conciliari è stato sempre studiato come meritava di essere. E lo dico subito, a mio avviso il concilio è ancora per domani, anche fra molti cattolici, è ancora per domani, perché quando si parla anche con molti sacerdoti si citano sempre due testi: il decreto sull’ecumenismo e la Gaudium et spes e tutto il resto è come se non contasse perché non si conosce abbastanza. Ma anche il resto ha molto da dirci. Questo detto, penso che possiamo notare come frutti del concilio i seguen-ti aspetti: la liturgia – poi ritornerò su questi argomenti rapidamente – e il senso della responsabilità dei laici. Sapete forse che in Svizzera abbiamo avuti i sinodi nazionali e diocesani, il sinodo ’72, che è stata un’esperienza interessante. Oggi molti laici hanno delle responsabilità nelle parrocchie, nelle chiese e in particolar modo tutti quelli che fanno il catechismo; questo mi sembra un frutto in-teressantissimo, che dobbiamo attribuire al post concilio, se volete.
Il dopo concilio – il canonico Aubert lo ha già fatto notare – è stato anche il tempo della cri-si, che è stata fortissima, come in tutta l’Europa del nord. Anche noi abbiamo avuto sacerdoti che hanno abbandonato, abbiamo anche avuto un crollo della pratica religiosa e non dobbiamo farci il-lusioni, la secolarizzazione, è un fenomeno che ha toccato molte famiglie. Pensate che a Ginevra, secondo le statistiche, l’anno scorso abbiamo avuto un divorzio ogni 3 matrimoni, e questo crea del-le situazioni enormi dal punto di vista pastorale, perché i cattolici come gli altri divorziano facil-mente. È la gioventù che in gran parte lascia la pratica. So bene che la pratica non è tutto ma, spesso questa mancanza di pratica è accompagnata da una mancanza di fiducia in tutto ciò che è l’istituzione. Era così negli anni ’70, direi; forse oggi c’è un po’ una ripresa. Mi sembra in generale che la crisi non è soltanto una crisi della chiesa. Cioè la chiesa è stata presa in una crisi generale che è la crisi del mondo occidentale. E tutti i fenomeni che avete conosciuto in Italia li abbiamo cono-sciuti anche noi, soltanto non abbiamo avuto il terrorismo perché in Svizzera le cose si fanno più tranquillamente, ma diciamo l’atteggiamento di fondo anche nell’università è stato lo stesso. Questi sono problemi enormi, ma direi che sono i problemi dell’occidente. La chiesa si è trovata un po’ presa, come dire, presa di corsa davanti a questi fenomeni ed ha avuto visto i riflussi anche in sé stessa. La crisi è stata una crisi di civiltà. E ha fatto crollare molte cose, e anche molti individui, che non hanno tenuto davanti a questa crisi, ma questo forse è una cosa del passato.
Le difficoltà le abbiamo avute su due punti direi. Sulla liturgia e sull’ecumenismo. Perché la liturgia? Perché io penso che spesso la cosa non è stata ben spiegata alla gente. Sicché io penso che una parte dei cattolici è stata un po’ sconcertata davanti alle riforme, che qualche volta sono state anche improvvisate da certi sacerdoti. In generale non c’è stata difficoltà. Ma dobbiamo anche pen-sare che i padri del concilio non hanno pensato a fare una riforma che sfociasse tanto presto nella messa in lingua vernacolare. Poi nei paesi di lingua francese abbiamo fatto le cose forse troppo in fretta, io penso, perché abbiamo avuto dal punto di vista estetico delle cose di brutta qualità: i canti. Mi ricordo che un amico protestante mi ha detto: «Avete preso da noi le cose più brutte!». Ma il problema più delicato è che davanti a questo in Svizzera francese e anche tedesca abbiamo sofferto del fenomeno Lefebvre. E io penso che non è casuale che il fenomeno Lefevre ha avuto una certa risonanza da noi. A Ginevra, per esempio, ci sono due chiese che sono piene la domenica e sono chiese di mons. Lefevre, malgrado tutto quello che il vescovo ha detto. È interessante, dobbiamo chiederci perché la gente va da Lefevre; non sono grandi gruppi, ma non sono insignificanti. Mi sembra che tre siano gli ambienti attratti da Lefevre: ha sostenitori nella parte delle montagne del vallese, sono tipici della montagna, molto forti e molto tradizionalisti, e nei piccoli villaggi del val-lese. Sono gruppi che non hanno accettato la riforma, per un certo tradizionalismo; nelle città questo non esiste più, perché accanto ai protestanti avevamo già fatto molti cambiamenti noi prima del concilio: nelle chiese, per le statue, abbiamo già scelto il gusto della sobrietà, noi come cattolici, dopo aver avuto la critica protestante, sicché il problema non c’era. Ma ho potuto osservare che pa-recchia gente che ha seguito Lefebvre, sono ex convertiti, cioè gente che era venuta dal protestante-simo, che aveva fatto un grande sforzo per dominare direi la sensibilità, e che hanno avuto l’impressione che la chiesa cattolica riprendeva delle cose protestanti, e ciò è falso ma vuol dire che il problema si è posto molto a livello della sensibilità, a mio avviso. C’è infine un altro gruppo, che tocca piuttosto la Francia e in Francia i sostenitori di Lefebvre vengono da regioni che sono tradi-zionaliste politicamente (anche ex Action française), ma questo non conta in Svizzera. Lefebvre ha fatto molto soffrire non soltanto i nostri vescovi; è tutto il cattolicesimo della Svizzera francese che è stato molto turbato da questo fenomeno e forse sapete che è un po’ un incidente occasionale che Lefebvre sia da noi, perché era venuto per mettere i seminaristi a Friburgo, poi dopo qualche mese si è reso conto che anche Friburgo non era una Facoltà ortodossa, a suo avviso, e allora ha giocato d’astuzia con il vescovo: ha aperto un seminario senza che il vescovo se ne accorgesse subito. È sta-to fatto con l’inganno, non è stata una cosa bella perché non è stata fatta con lealtà, ma di fatto il fe-nomeno Lefebvre è un fenomeno che ha lasciato delle ferite in alcune famiglie, nella chiesa in Sviz-zera francese e anche tedesca, perché ha anche qui i suoi sostenitori.
Il Secondo punto è l’ecumenismo. E l’ecumenismo è certamente una grande cosa, e dobbia-mo rallegrarci di questo movimento e cioè del fatto che c’è da parte di tutti una sofferenza per la di-visione dei cristiani. Non possiamo più accettare di essere divisi. Ma ci sono dei problemi. I pro-blemi sono di due tipi. C’è stato prima un grande euforismo: dopo tanti secoli ci siamo ritrovati tra fratelli, ci siamo abbracciati, se volete, ed era molto simpatico, un po’ sentimentale, e un po’ facile. E io penso che l’ecumenismo è stato aiutato a questo livello da un fenomeno sociologico. Sapete che la Svizzera è un paese ricco, era già ricco nel dopoguerra, ma è diventato ancora più ricco dopo, e c’è stata l’industrializzazione molto accelerata, in molti ambienti, sì che la popolazione è stata molto mescolata. Durante i secoli abbiamo avuti piccoli paesi che sono rimasti fedeli sia al cattoli-cesimo sia alla riforma, a tre chilometri di distanza, ma questo fenomeno a causa della urbanizza-zione è una cosa del passato, sicché adesso i matrimoni misti divengono un fenomeno maggiorita-rio, mentre prima era l’eccezione e adesso in una città come Ginevra la più grande parte dei matri-moni, è una cosa di statistica, di cifre, sono matrimoni misti con tutti i problemi che si pongono per la pastorale. E allora il pericolo è di trovare delle soluzioni di facilità, cioè dire che le differenze non sono importanti, dire che abbiamo lo stesso Dio, Gesù Cristo è lo stesso per tutti e quindi nascon-derci le difficoltà. A mio avviso il primo problema dell’ecumenismo, è il problema che adesso sia-mo confrontati con i veri problemi, come per esempio il problema della natura del sacerdozio, il problema eucaristico, l’intercomunione, che molti domandano, ed è molto difficile spiegare perché non possiamo ancora, e dobbiamo desiderare e lavorare per potere accedere all’autentica la comu-nione allo stesso pane, che è il corpo di Cristo. Ma su questi punti non siamo ancora capaci di farlo con autenticità e nella verità; e siamo davanti a questi grandi problemi, con il rischio di gruppi mar-ginali che di nascosto lo fanno già, si dicono gruppi profetici, e lo realizzano già dicendo che la ge-rarchia o il governo delle chiese sono sempre in ritardo. E allora questo è un primo problema direi, siamo di fronte ai veri e grandi problemi. Quando c’è stato l’attentato contro il papa, doveva venire in Svizzera, e la chiesa protestante della Svizzera ha fatto un memoriale molto interessante, dove si annotava i punti fermi della Riforma. Io sono personalmente molto riconoscente a queste chiese di avere fatto questo, perché penso che si discuterà meglio se c’è la chiarezza e la fermezza nelle idee e forse siamo davanti a problemi difficili, ma che sono veri problemi e non dobbiamo avere paura dei problemi, il peggio è di pensare che la soluzione è data perché non abbiamo visto i problemi. E per molti è così. Invece si devono vedere i problemi e poi, con lo Spirito Santo, trovare la soluzione.
Ma c’è un’altra difficoltà, e forse finirò con questo, che è più delicata, a mio avviso. Alcuni mesi fa i vescovi della Svizzera hanno domandato ad un istituto pastorale di sociologia di fare un piano per una nuova distribuzione delle diocesi in Svizzera, perché abbiamo delle diocesi mal fatte, cioè troppo grandi. È una necessità. Zurigo dipende da Coira. Coira è un piccolo paese e Zurigo ha 1.000.000 di abitanti e così non va. È come se Milano dipendesse da Varese, e allora questo suppo-ne dei problemi pastorali enormi e specialmente hanno previsto una diocesi a Ginevra. E c’è stata una reazione stupefacente da parte di anziani rappresentanti dell’ambiente protestante. Tutti crede-vamo che trent’anni di ecumenismo avessero cancellato questi riflessi, che sono riflessi sociologici e direi nell’inconscio sociologico. Perché il vescovo è stato cacciato quando è venuta la Riforma e rimettere un vescovo a Ginevra significava per loro cancellare quattro secoli di storia. E tutti sono stati stupiti della violenza dei pastori amici e della gente che sembrava aperta. Allora, a mio avviso, l’altro problema – il primo problema è quello dottrinale, come ho detto prima – il secondo problema è entrare in questo subconscio sociologico, il che sarà un problema molto difficile perché si può dia-logare con le idee, ma non si dialoga con i fantasmi e le paure, perché siamo nell’irrazionale e que-sti sono, a mio avviso i grandi problemi ai quali i cattolici devono pensare in questi tempi che ven-gono.
Ho detto le cose che non vanno bene e concludo con questo. Ho l’impressione che adesso ci sia in Svizzera – come da voi in Italia, come anche in Francia, però più lentamente da noi perché siamo sempre più lenti – una certa ripresa anche fra la gioventù: i gruppi di preghiera, il movimento carismatico, molti movimenti come i focolarini e comunione e liberazione. Dieci anni fa la gioventù non voleva più essere in gruppi e dunque questo è un fenomeno nuovo. Poi c’è anche una certa ri-presa della vita sacramentale fra i giovani e questo credo sia una speranza. C’è anche la generosità della gioventù quando si parla della giustizia, del Terzo mondo, e anche questo è una cosa bella, perché anche la Svizzera è un paese dove l’egoismo è la tentazione quotidiana, così come anche la ricchezza. Finisco dicendo quello che ho detto all’inizio: tutto questo indica piuttosto lo slancio che è stato dato dal concilio, ma l’utilizzazione del contenuto del concilio, questo non si è ancora pie-namente verificato, e in questo senso io penso piuttosto che il concilio sia per domani più che per ieri.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 25.2.1983 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.