Lo storico inglese Edward H. Carr moriva mercoledì 10 novembre u.s. all’età di novant’anni a Cambridge, la città dei suoi studi in cui si era brillantemente laureato e dove fu docente universitario a partire dal 1955. Prima di sedere alla cattedra del Trinity College, Carr era stato diplomatico e tra il 1941 e il 1945 vice-direttore del Times. In Italia Carr è noto per la sua vastissima e assai accurata Storia della Russia sovietica e, soprattutto, per l’agile volumetto Sei lezioni sulla storia, giunto alla settima edizione già nel 1975.
Della prima opera – metà della quale dedicata alle origini della pianificazione sovietica – tutti riconoscono l’erudizione formidabile; è però del pari diffuso il giudizio sulla necessità di mettere in discussione i principi di base della sua analisi. Leonard Shapiro nella sua Storia del PCUS lo ha detto con estrema chiarezza: «Carr concede eccessiva attenzione all’interpretazione leninista degli eventi e, in genere, pone l’accento più sulla politica ufficiale che non sull’impatto che tale politica ebbe sulle popolazioni dell’Urss». Dopo che gli studi di Alain Besançon, di Adam Ulam, di Martine Malia e l’imponente documentazione di Aleksander Solzenicyn appare ormai del tutto insostenibile che il terrore di massa, i gulag, il fallimento dell’economia collettivistica e la miseria che ne deriva non fossero presenti negli anni leniniani del regime sovietico. Il peggio non fu inventato, ma sviluppato ulteriormente nell’era di Stalin. Non si può dimenticare che il lavoro coatto e l’eliminazione degli avversari erano previsti da tutti i profeti del comunismo, per cui non si deve vedere nell’Arcipelago Gulag la deformazione asiatico-staliniana di una idea sublime, bensì la manifestazione conseguente di una legge implacabile, la legge di strutture dello stato totalitario in quanto tale. L’ottimismo programmatico di Carr nei confronti del totalitarismo sovietico e della sua economia statalistica è appena attenuato da qualche significativa ammissione: «la rivoluzione russa è rimasta molto al di qua degli obiettivi che si era proposti e delle speranze che aveva suscitate». Oggi, anche agli occhi degli storiografi marxisti alla Bettelheim, ciò appare del tutto insufficiente. La cortina d’incenso che avvolge Lenin, anche da noi in Occidente, non può più nasconderci il suo ruolo essenziale e paradigmatico nell’avvento del primo e più perfetto regime dittatoriale che un paese europeo abbia conosciuto. Quarant’anni prima dell’ascesa di Lenin al potere, il genio artistico più grande della Russia, Dostoevskj, aveva predetto che il socialismo sarebbe costato alla Russia cento milioni di vittime. Si sbagliava, ma per difetto. Il professore di statistica russo Ivan Kurganov ha calcolato che tra il 1917 e il 1959 il socialismo era costato al popolo russo non meno di centodieci milioni di persone.
A nessun altro «dio terreno» furono sacrificate tante vite umane. Carr è vissuto abbastanza per conoscere questi dati sconvolgenti, sì che la sua Storia della Russia sovietica non poteva essere più scritta mettendo tra parentesi o minimizzando i risultati aberranti di quel processo storico di cui pure descrive con straordinaria dovizia di particolari le strategie economiche e le lotte interne al partito comunista per la gestione del potere. Se la storia è «una lotta per la memoria» perché non porre in essa al primo posto il dramma di coloro che oggettivamente sono le vittime, privilegiando invece programmi e decisioni di quanti sono i protagonisti del più criminale, sistematico massacro di popolo che la storia conosca? Si può veramente fare storia e tacere le sofferenze atroci che il trionfo del potere sovietico ha causato alla Russia? Il potere, si sa, è perpetuamente impegnato ad auto-giustificarsi, ma questo non può essere il compito dello storico. In caso contrario ci potrà anche essere accuratezza monumentale nel documentare il punto di vista di chi detiene un potere, e un potere ferocemente dittatoriale, ma non c’è più storia. L’ha uccisa il cinismo di chi, in pieno accordo con Engels, ritiene che «la storia è forse la più crudele di tutte le divinità e conduce il suo carro trionfale su cumuli di cadaveri» (Lettera del 24 febbraio 1893 a Daniel’son, citata nella terza delle Sei lezioni sulla storia).
Voce del Popolo, 15 ottobre 1982