Cause molteplici emergenti sia da atteggiamenti psicologici sia dal momento storico in cui viviamo, hanno concorso a far sì che il possibilismo e il problematicismo venissero a costituire, anche là dove non si esprimono con questi termini, il sottofondo comune e il clima dominante di atteggiamenti e concezioni di diversa provenienza e di vario contenuto. È in atto, da anni, il tentativo di nobilitare il culto dell’incertezza, ricollegandolo alla suggestione della ricerca socratica e all’inquietudine metafisica del migliore esistenzialismo, quello di Kierkegaard, di Jaspers e di Marcel. Ma l’umiltà di Socrate era autentica e non tarpava affatto lo slancio del pensiero e la fecondità della ricerca. A nessuno comunque è lecito dimenticare l’inesauribilità del vero, onde è sempre attuale il monito di Shakespeare: “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia” (There are more things in heaven and earth, Horatio, / Than are dream of in your philosophy – “Amleto”, atto primo, scena quinta). La stessa esigenza suggerisce a Pascal riflessioni indimenticabili sui limiti e insieme sulla forza insostituibile del pensiero.
Il problematicismo però è al di qua o, se si vuole, al di là di queste considerazioni. La sua originalità, infatti, sta proprio nel programmare il non superamento del dubbio, vanificando così anche la parte che ad uno scetticismo franco ed aperto può spettare nella ricerca filosofica, che è pur sempre un sempre rinnovato processo di superamento del dubbio. L’esibizione di umiltà e di modestia intellettuale, che fornisce lo spunto iniziale, si trasforma ben presto e clamorosamente in un non larvato dommatismo, dall’alto del quale si sviliscono o si condannano secoli e millenni di speculazione e di civiltà, nonché il perenne travag1io del pensiero nell’approfondimento di irrinunciabili valori, senza dei quali la ricerca è ricerca di nulla e la possibilità stessa è vuota, sterile, distruttiva. È facile rendersi conto, invece, che il pensiero umano è, sotto un certo aspetto, dubbio e ricerca, ma anche progresso nel sentiero che conduce alla verità e dunque conquista e certezza. Se si nega questo secondo momento, il primo momento invade e sopraffà talmente l’altro da renderlo inconsistente e insignificante.
In filosofia, poi, non ha senso la pretesa, oggi assai diffusa, di sostituire alla verità la “sincerità”, che senza il valore di verità sarebbe del tutto insufficiente, sfuggirebbe ad ogni verifica e diverrebbe posa dilettantesca, vaniloquio. Né vale dire che i problemi della filosofia, per il fatto di essere sempre di nuovo riproposti dalla vita, debbano ritenersi per questo insoluti e insolubili. I problemi della filosofia sono perenni non perché radicalmente insoluti e insolubili, ma perché tali che ogni generazione e ogni persona deve porseli. E c’è di più: chi non si lascia frastornare, chi ascolta un po’ da vicino le voci dei sommi – artisti, uomini di religione, maestri del pensiero – sa che essi, pur partendo da punti di vista differenti, significativamente convergono nell’affermazione e nella difesa dei valori fondamentali. In tal modo essi attestano, nel modo più alto, l’unità della famiglia umana e l’universalità dei valori che ne alimentano la coscienza.
La filosofia è certamente anch’essa, a modo suo, espressione della coscienza umana nel suo divenire storico, in quanto ne accoglie in sé le esigenze e gli atteggiamenti; ma non senza beneficio d’inventario, non senza valutazione critica. La filosofia autentica non insegue miti, non ratifica il fatto compiuto, anche se, protesa alla verità liberatrice, porta in sé le premesse, se non l’anticipazione, di una nuova storia. A fare i filosofi è l’orientamento verso il valore che pone in essere la stessa ricerca filosofica, non già la teoria e la prassi del girellismo. Campo questo in cui in Italia anche in filosofia c’è chi, come Ugo Spirito, fece miracoli, congiungendo nella sua proteiforme mutevolezza la critica scettica di ogni principio e di ogni valore ed un fanatico fideismo ora nella scienza, ora nell’ideologia totalitaria (dopo il patto Ribentropp-Molotov indicò nella “sintesi tra nazismo e comunismo” il traguardo ideale della storia umana!), assumendo maschere continuamente diverse che gli permettevano di passare dall’idealismo al neopositivismo.
Vorrei, infine, richiamare l’attenzione su un ultimo fatto molto importante, che emerge con chiarezza dalla storia filosofica. Anche un’osservazione incompleta, un punto di vista unilaterale può svolgere, in determinate condizioni e situazioni, una notevole funzione storica, richiamando l’attenzione su fenomeni trascurati, su esigenze neglette o comunque insoddisfatte. Ad esempio: l’idealismo ha messo in maggior rilievo la potenza dello spirito, il positivismo l’esigenza di aderire al reale, il materialismo storico l’importanza dei fattori economici nel moto della storia, il problematicismo la necessità di una ricerca che non si acquieti in facili soluzioni, l’esistenzialismo la drammaticità della vita umana. Ma la funzione storica svolta da quegli indirizzi basta ad accreditarli positivamente nelle loro linee sistematiche e nei loro presupposti? No, di certo. Una corrente di pensiero si può valutare, infatti, da un triplice punto di vista: dal punto di vista della “funzione storica”, dal punto di vista della “potenza speculativa”, donde nascono l’architettonica di un sistema e la genialità di alcune vedute; e dal “contenuto di verità”. Confondere insieme questi punti di vista, come troppo spesso si fa, significa mancare di quella chiarezza logica che è fondamento dello spirito critico.
Giornale di Brescia, 29.7.1990.