In ogni lingua ci sono delle parole che a un certo punto, improvvisamente, sono sulla bocca di tutti. Si ripresentano continuamente e occupano una posizione centrale nei discorsi dei politici e nei mass media, e ognuno crede di comprendere in modo del tutto ovvio che cosa vogliano significare. Nel nostro presente globalizzato, nel quale siamo gettati nella buona e nella cattiva sorte, una di queste parole chiave e parole-guida è sicuramente il termine «dialogo». Come tutte le parole chiave e le parole-guida, esso denuncia che nella nostra società, la quale comunica mediante il linguaggio, si evidenzia un problema – o addirittura molti problemi – che si spera di risolvere mediante il cosiddetto dialogo. Pensiamo, ad esempio, ai problemi attuali legati all’immigrazione o al problema della sempre maggiore mescolanza tra tutti i popoli di quest’unico pianeta terra, oppure al clash of civilisations di Huntington, che rischia di portarci alla guerra. Dal momento che possediamo anche armamenti atomici, per la prima volta nella storia dell’umanità questi problemi potrebbero ridestare la minaccia reale di un suicidio del genere umano. In questa situazione storica, ciò che viene indicato con il termine «dialogo» si presenta come un barlume di speranza. Tutto ciò si dimostra essere una sfida anche per le religioni, che oggi, su questo pianeta terra interconnesso con un’unica rete comunicativa globale, devono convivere molto più intensamente rispetto a quello che, ad esempio, dovevano fare i molti culti dell’antica pólis.
E il cristianesimo, che concepisce se stesso come l’unica religione universale e che si vede fondato nel compito dato da Gesù: «andate in tutto il mondo e annunciate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15), e la Chiesa, che nel Vaticano II dice di essere «per sua natura missionaria» (Ad gentes 2), non sono qui forse particolarmente provocati da ciò che si indica con il termine «dialogo»?
Mi pare che, per trovare una risposta fondata a questa domanda, dobbiamo prima riflettere su che cosa vogliamo intendere davvero per dialogo. Rispetto ad altre parole-guida simili a cui gli uomini aggrappano le loro speranze, mi sembra infatti che oggi la parola «dialogo» sia maggiormente esposta al pericolo di diventare una parola di comodo con la quale ci si riferisce a tutto il possibile, che però non è più univoco e non è più considerato nel suo carattere originario per mezzo di un pensiero meticoloso e accurato. Che cosa significa tutto ciò, nel caso della parola «dialogo»?
1.1. L’accadere del linguaggio nel suo essere-parlato del tutto reale
Per spiegarlo, permettetemi di procedere in modo scolastico. Il linguaggio è ciò che in primo luogo rende tale l’uomo. L’uomo è lo zô(i)on lógon échon. La capacità di parlare costituisce la nostra umanità in quanto tale. Per questo Platone ha riflettuto su questa capacità, e Aristotele nella Retorica ha tentato di spiegare la forma del discorso nel suo accadere. Che cosa accade, quando gli uomini parlano? Accade che «qualcuno parla con qualcun altro su qualcosa»(1). Qualcuno in quanto tale, e dunque ognuno di voi in quanto se stesso, parla con qualcun altro; dunque, ad esempio, con un suo amico o un suo vicino, oppure perfino con un suo nemico, su qualcosa: una cosa qualunque che succede in questo mondo. Il qualcosa di cui parlo posso però essere anche io stesso, oppure può essere l’altro uomo nel suo essere-se-stesso. Questo qualcosa può essere anche l’accesso alla religione, l’accesso al trascendersi, che qualifica la mia vita o la vita dell’altro. Sono dunque sempre necessari tre elementi affinché si realizzi il linguaggio nel suo accadere. È necessario uno che parli in quanto se stesso: io, il parlante. È necessario un altro uomo – e precisamente uno che «non ha soltanto orecchie […] ma ha anche una bocca»(2), uno che ha da dire qualcosa in quanto se stesso. Ed è necessaria una cosa, di qualsiasi tipo, su cui, di cui parliamo. La filosofia del linguaggio del XX secolo l’ha definita la relazione semantica tri-radiale(3).
Ora, si possono porre delle restrizioni all’accadere del linguaggio nel quale siamo impegnati e implicati tutti insieme grazie a questa relazione semantica triradiale. Si può, ad esempio, dire: vogliamo concentrarci esclusivamente su una cosa determinata, ad esempio sull’estrazione del ferro dal minerale del ferro. Oppure: vogliamo limitarci a indagare le relazioni geometriche. Oppure, ancora più in generale: vogliamo limitarci a ciò che possiamo constatare con certezza esaustivamente per mezzo della misura e del peso. Una tale limitazione del linguaggio è stata effettuata coscientemente da Aristotele nel suo Perì hermenéias, che è divenuto determinante per tutte le scienze successive. Egli sostiene che il fatto stesso che, ad esempio, un uomo preghi un altro di qualcosa comporta un evento linguistico. Aristotele sostiene tuttavia di non voler trattare qui di questi casi, e di voler invece trattare solamente del cosiddetto discorso apofantico “scientifico”, che traduce in idea qualcosa in quanto tale in modo chiaro e certo(4). Grazie a questa riduzione del linguaggio al discorso assertivo riferito a oggetti constatabili, Aristotele è divenuto il padre delle scienze occidentali. Ciò che qui è accaduto è quello che la fenomenologia definisce «dissolvenza in chiusura» (Ausblendung). È necessario chiarire per mezzo di un esempio quello che si intende con tali termini. Un regista può dire al suo cameraman: regola il focus della tua cinepresa in modo tale che si veda chiaramente il tête à tête di Romeo e Giulietta, ma in modo che tutto il resto venga visto solo confusamente, oppure in modo che non lo si veda affatto. Eccetto Romeo e Giulietta, sfoca tutto il resto. Una simile «dissolvenza in chiusura» accade quando si limita il linguaggio al solo linguaggio scientifico oggettivante. Un tale linguaggio (e ogni parlare è un pensare) senza dubbio è necessario e utile. Tuttavia ci si inganna se si pensa che ciò che viene conosciuto per mezzo di un linguaggio di questo tipo sia tutta la realtà che può essere conosciuta, se si ritiene che ciò che viene conosciuto per mezzo di tale linguaggio esaurisca già tutto quello che può essere appreso dall’uomo che ragiona.
Alla fine dell’Illuminismo filosofi come Jacobi e Hamann, ma già anche Kant in alcune intuizioni fondamentali della sua opera critica, hanno preso energicamente posizione contro una tale riduzione di ciò che ha da essere conosciuto per mezzo della ragione; hanno preso posizione contro una tale restrizione del pensiero, che in ultima analisi non ammette più nemmeno un’etica. Nell’Ottocento è Wilhelm von Humboldt a protestare contro un tale restrizione. E nel Novecento, negli anni dello sfacelo della vecchia Europa durante la Prima guerra mondiale e immediatamente dopo, un gruppo di pensatori ha elaborato in modo del tutto nuovo il significato di ciò che in verità e in tutta la sua ampiezza possibile accade tra gli uomini nel linguaggio. I pensatori più importanti furono qui Franz Rosenzweig e Ferdinand Ebner. Successivamente il pensiero sul linguaggio si è ampliato, a partire dalla fenomenologia di Husserl, grazie a Emmanuel Levinas.
Ora, in che cosa consiste questa realtà decisiva, che viene presa in considerazione dal pensiero più profondo e più ampiamente comprensivo, il quale rende dunque maggiormente ragione della realtà e che è stato chiamato anche pensiero “dialogico”? Franz Rosenzweig ha sintetizzato in una formula concisa questa novità decisiva ed essenziale nella comprensione del linguaggio, inteso come estremo orizzonte che funge da fondamento per l’essere-uomo ragionevole: esso consiste «nel bisogno dell’altro o, il che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo»(5). Tutto ciò è a sua volta collegato con il prendere sul serio la finitezza e la mortalità di me stesso in quanto essere pensante e ragionevole, presente in carne ed ossa.
1.1.1. Ho sempre bisogno di un altro che mi sta di fronte
Il pensiero scopre che, per poter in generale parlare, e cioè anche per poter pensare, io ho sempre bisogno di un altro che mi sta di fronte, di un altro uomo che mi sta di fronte e al posto del quale io non sto e non posso mai stare. Ho bisogno di un altro che mi sente, e che però può pensare e parlare anche proprio in quanto se stesso. Ho bisogno di un altro che non ha «soltanto orecchie, ma anche una bocca»(6). Per poter in generale parlare ho bisogno fin dall’inizio dell’interlocutore, che tuttavia è un interlocutore reale unicamente se è di più della mia eco, cioè se ha qualcosa da dire in quanto se stesso e in un modo che non posso anticipare. Si potrebbe ora dire che tutto ciò è già stato pensato da Aristotele, che ha indicato la struttura formale del linguaggio: «Qualcuno parla a qualcun altro su qualcosa». Infatti! Ciò che però nella nuova riflessione sul linguaggio è compreso espressamente, è che in questo essere “abbandonato” all’altro si mostra un’indigenza fondamentale di me stesso in quanto soggetto ragionevole che parla. E questo essere abbandonato mostra se stesso quando, diciamo così, parlo da solo con me stesso. Qui compaio per così dire davanti a me stesso in quanto altro. Anche un soliloquio ha già la struttura di un dialogo. E allo stesso modo questo essere abbandonato si mostra, ad esempio, quando, nella veste di scienziato, indago la realtà fisica o biologica che non può parlare da sé. Sono abbandonato al fatto che essa si mostra in quanto realtà altra che non posso anticipare, e quindi che rispetto a me è irraggiungibile. Questo “bisogno dell’altro” si dimostra come la struttura intenzionale fondamentale della ragione stessa. L’ultimo Kant già lo sapeva, tanto che nel suo Opus postumum si trova la frase: «Il pensare è un dire, e questo un udire»(7).
1.1.2. Devo prendere sul serio il tempo
Quello che è solo l’altro aspetto della medesima cosa consiste tuttavia nel fatto che colui che pensa, nel suo essere abbandonato all’altro (e anche a ciò che non è indagato e che è per me altro in modo neutro e originario) grazie al suo pensare e al compiersi del suo essere-ragionevole deve prendere sul serio il tempo. Egli infatti non può anticipare nulla. Egli è piuttosto bisognoso tanto dell’altro quanto del tempo, per poter in generale pensare. E non ha bisogno solo del tempo nel senso cronologico di un decorso numerato così come ce lo indicano i nostri orologi e nel quale qualcosa accade. Ha invece bisogno del tempo, poiché «è il tempo stesso ad accadere»(8), per usare le parole di Rosenzweig. C’è bisogno del fatto che tra l’altro (inteso come interlocutore oppure come la cosa che si vuole conoscere) e il parlante accada qualcosa. Mediante questo accadere il parlante – quindi colui che pensa – progredisce insieme con il suo interlocutore. Per entrambi si apre un futuro nuovo. Dopo un buon dialogo veramente riuscito entrambi gli interlocutori non sono più semplicemente gli stessi, sebbene proprio grazie all’accadere del dialogo diventino se stessi in modo nuovo e più profondo. È successo loro qualcosa che li ha fatti procedere proprio nel loro essere se stessi.
Ricapitoliamo: ciò che diventa chiaro in questo pensiero sul linguaggio, e che successivamente è stato definito, in particolare tramite il contributo di Buber, “pensiero dialogico”, è l’idea fondamentale che la ragione – intesa come ciò che succede grazie al soggetto umano mortale – e il realizzar-si della ragione nel tempo hanno luogo in una forma fondamentalmente dialogica tra l’altro in quanto se stesso e me, che sono un me stesso. Se volessimo esprimere tutto ciò per mezzo della formula strutturale della retorica aristotelica, potremmo dire: il linguaggio nella sua serietà, cioè il linguaggio che è alla ricerca della realtà, accade. Ed esso accade sempre tra l’altro in quanto se stesso e me stesso. È dunque sottomesso all’imperativo incondizionato che io prenda sul serio l’altro in quanto se stesso.
Volendo, dietro la struttura aristotelica dell’accadere del Lógos alla quale Rosenzweig ha dato un contenuto – Lógos inteso come linguaggio e ragione insieme – si può vedere senz’altro la seconda formulazione dell’imperativo categorico di Kant: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»(9). In ogni dialogo serio prendo sul serio la dignità mia propria e tuttavia contemporaneamente anche la dignità dell’altro, ossia del partner del dialogo, e in questo stesso orizzonte anche la cosa stessa su cui si parla. E il fatto che io lo faccia è per me un comando incondizionato. Ciò significa che qui mi trovo in una relazione che devo chiamare relazione religiosa. In questa relazione intenzionale che accade, in questo “camminare nel timore di Dio” si apre però un futuro per l’altro e per me. In ogni dialogo serio tra uomini si trova allora la dimensione profonda di una preghiera, intesa come richiesta che per l’altro e per me ci possa essere un futuro approvabile e giusto. «L’essence du discours est prière», esplica Levinas(10). L’essenza del discorso è preghiera.
Interrompo il mio abbozzo fenomenologico di ciò che potrebbe significare «dialogo» per passare alla seconda parte dell’esposizione, che è dedicata alla questione di quale significato possa mai avere un dialogo tra cristiani ed altre religioni.
2.1. La religione cristiana in sé responsoriale
Vorrei qui prima di tutto porre l’attenzione sul fatto che la nostra religione cristiana fin dai suoi albori si propone come in sé responsoriale e in questo senso dialogica. Perché crediamo? Perché, in quanto uomini dotati di ragione e in grado di prendere una decisione autonoma, ci sentiamo interpellati da una richiesta incondizionata proveniente dalla Parola della Scrittura e dal Lógos divenuto uomo, Gesù Cristo – e a questa ri-chiesta ri-spondiamo con il nostro assenso: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6, 68). Il venire-alla-fede ha una struttura che è da cima a fondo dialogico-responsoriale. Fides ex auditu! La fede deriva dall’ascolto (cfr. Rm 10, 14). E inoltre si diffonde solo grazie al fatto che degli uomini che credono parlano ad altri della fede che hanno abbracciato liberamente perché per essi proprio qui, in ciò che li riguardava, si schiudeva il senso della loro vita – dunque si diffonde grazie al fatto che degli uomini che credono parlano ad altri considerandoli proprio nella stessa persona d’essi. L’atto della fede è incalzante nel suo voler avviare subito un dialogo di testimonianza con altri uomini. «Guai a me, se non annunciassi il Vangelo», dice Paolo (1Cor 9, 16). E il Decreto Ad gentes del Vaticano II stabilisce già nella prima proposizione del suo primo capitolo, in modo lapidario: «Ecclesia peregrinans natura sua missionaria est» (Ad gentes 2). In quanto credenti non possiamo fare nient’altro – di fronte ad altri uomini che non credono, oppure appartengono a un’altra religione – che parlare della nostra fede. Questo entrare in dialogo con gli altri fa parte dell’essenza della stessa fede – nella quale noi rispettiamo, poiché ciò appartiene all’essenza del parlare con gli altri in quanto se stessi, il loro essere se stessi voluto da Dio, e con ciò anche la loro libertà di decisione. Il credere cristiano comporta, a partire dalla sua essenza più intima: «proposer la foi»(11), fare la proposta della fede e di credere, per usare le famose parole dei vescovi francesi nella loro lettera pastorale orientativa riguardante l’essere cristiani in una società secolarizzata. La fede, dal momento che è l’afferrare il senso incondizionato del nostro proprio esserci e del mondo, è in se stessa dialogica. È obbligata in se stessa a testimoniarsi agli altri, cioè a rendere ragionevolmente conto di se stessa. «Siate sempre pronti a rendere conto di fronte ad ognuno della Parola di speranza che è in voi»: così Pietro esorta i cristiani che sono con lui (1Pt 3, 15).
2.2. Dialogo esplicito tra un cristiano e una persona di un’altra religione
Come si collega però tutto ciò – possiamo chiederci qui di seguito – con un dialogo esplicito tra un appartenente alla fede cristiana e un appartenente a un’altra religione? Come stanno le cose con i dialoghi cosiddetti inter-religiosi che, nella nostra epoca della globalizzazione, a mio parere sono necessari come non mai prima d’ora, e riguardo ai quali forse si potrebbe ammettere che sono davvero impossibili, se ogni religione considera se stessa come la verità assoluta? Vorrei rispondere a ciò che qui è in questione con alcuni ragionamenti.
Quale dialogo? – Innanzitutto un tale “dialogo inter-religioso” sembra di fatto essere impossibile, qualora con esso si intenda qualcosa come un dibattito parlamentare che alla fine viene deciso con una votazione a maggioranza. Oppure qualora per dialogo si intenda una comunicazione del tipo di quella che, ad esempio, si verifica al mercato, dove l’acquirente tratta il prezzo di una merce proposto dal negoziante e alla fine ci si mette d’accordo con un compromesso. Oppure se per dialogo si intende solo un talk-show nel quale si parla a dismisura di un tema, finendo per renderlo interessante, ma poco importante. Tutto ciò non è adeguato alla serietà di quello che avviene nella relazione religiosa.Condizione: in tale dialogo la religione non può essere mero atto auto-affermativo. – Un tale dialogo interreligioso non è possibile nemmeno se uno dei due interlocutori mette sullo stesso piano religione e autoaffermazione, cosa che, a dire il vero, avviene anche fin troppo spesso. Se la religione non viene più intesa a partire da un ascolto originario da parte dell’uomo dotato di ragione e attento alla richiesta che è accessibile alla sua stessa ragione che sta in ascolto, e se essa invece viene intesa solamente come espressione dell’autoaffermazione di un determinato gruppo di persone – e la religione, a dire il vero, viene intesa proprio in tal modo dalla critica che ne fanno Feuerbach e anche Durkheim –, allora ciò che intendiamo per dialogo nel suo senso originario e dal punto di vista della fenomenologia del linguaggio non è più possibile.
Il nucleo della religione: il trascendersi nella relazione ragionevole con il mistero del Sacro. – Presupponiamo però che io come cristiano mi imbatta in una persona che ha una sua religione costituita da costumi, istituzioni e comandamenti e alla quale non interessa semplicemente un’autoaffermazione nella società, bensì ciò che forse con le parole di Rudolf Otto possiamo definire la relazione di tutto l’essere e di tutta la vita con il mistero del Sacro; in questo caso, facendo un primo passo richiesto dalla pura ragione pratica, ossia morale, dovrò riconoscere questo essere se stesso dell’altro in quanto altro che si esprime nel suo essere radicato nella propria religione. Nella misura in cui si pretende di compiere questo primo passo in modo incondizionato, esso stesso può già essere un primo atto formale di adorazione – latreutico o di latria – nei confronti di Dio. Il riconoscimento della libertà religiosa da parte del Vaticano II certamente non significava solo una mossa di diplomazia ecclesiastica rivolta, ad esempio, alla situazione dei cristiani perseguitati, ma derivava dall’affermazione di principio della dignità di tutti gli uomini. E questa è inerente alla stessa fede cristiana. A motivo di questo presupposto, potrò allora forse giungere a un dialogo ragionevole con l’uomo radicato in un’altra religione sul tema della relazione di costui con il mistero del Sacro. In questo modo potrò forse riconoscere analogie con la mia stessa relazione con il mistero del Sacro che mi si è dischiuso nella Rivelazione biblica – per esempio, anche altre religioni conoscono la preghiera, una liturgia, delle feste, luoghi sacri ecc. – e farò chiarezza in me stesso riguardo a questa mia propria relazione di fede.
Dialogo della speranza ispirato per la fiducia in Dio. – Ci si può ora domandare: è mai possibile un tale dialogo se in fondo il cristianesimo è l’unica vera religione, e se vale il principio «extra Ecclesiam nulla salus»?(12) Questa affermazione dei Padri della Chiesa è giusta; la si può però comprendere correttamente solo se la si legge insieme all’affermazione di sant’Agostino: «Fuori ci sono molti che in realtà sono dentro. E dentro ci sono molti che in realtà sono fuori»(13). Se poi, accanto all’affermazione «extra Ecclesiam nulla salus», si pone l’opinione del giansenista Quesnel «extra Ecclesiam nulla conceditur gratia»(14), si deve tener presente che questa opinione è stata condannata per eresia, ed è dunque valido il contrario: «Et extra Ecclesiam conceditur gratia», anche al di fuori della Chiesa Dio dona la grazia. Dobbiamo allora contare sul fatto che anche al di fuori della comunità visibile della Chiesa ci sono uomini nella grazia di Dio, salvi e santi.
Con questa convinzione si collega d’altra parte la dottrina dei Padri, per la quale la Chiesa comincia già da Abele. Se ci sono stati così tanti uomini migliaia e migliaia di anni prima di Cristo, sono tutti maledetti da Dio, esclusi dalla salvezza? Lungi da noi l’accettarlo, dicono i Padri della Chiesa, e in particolare sant’Agostino. Ciò significherebbe, infatti, porre limiti alla volontà salvifica di Dio. Nella storia, a partire dal giusto Abele e da persone come il sommo sacerdote Melchisedec – entrambi né cristiani né giudei – ci sono invece sempre stati uomini giusti, uomini che vivevano una relazione autentica con Dio.
Nel Canone romano della Messa, la Chiesa prega già da più di 1500 anni in questi termini: «Volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto […] e l’oblazione pura e santa di Melchisedek, tuo Sommo Sacerdote». Nel secondo Canone, quello con cui oggi preghiamo abitualmente perché è più breve, alla fine diciamo così: «Di noi tutti abbi misericordia: donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con gli apostoli e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi». «In ogni tempo»: che cosa vuol dire questo? Sappiamo oggi che sulla terra vivono esseri umani probabilmente da circa 500.000 anni. Si tratta di un tempo molto lungo rispetto alla storia del cristianesimo. Nella sua preghiera la Chiesa professa dunque espressamente che in tutta la storia, fin dall’inizio, ci sono stati uomini che vivevano in una vera relazione con Dio, e anzi che c’erano perfino culti di cui Dio si è compiaciuto. Melchisedek era infatti un sommo sacerdote che offriva sacrifici a Dio.
Se però è così, allora io, in quanto ho ottenuto la pienezza della salvezza nella rivelazione di Gesù, sono in un dialogo condotto in forza della relazione ragionevole con il mistero indicibile di Dio (e non in forza di un qualche interesse finito legato al potere); e se sono in un tale dialogo con un uomo che appartiene a un’altra religione, o forse proprio a nessuna, devo contare sul fatto che tra il mistero infinito di Dio e costui può sussistere una relazione, la quale si determina grazie alla volontà salvifica universale di Dio, che ci si è rivelata in Gesù. A partire però da questo presupposto io, in quanto cristiano, sono allora in grado, mi è concesso e devo avviare con costui un dialogo religioso serio, che sia in un senso autentico e originario un dialogo tra due partner che si radicano seriamente nella loro rispettiva religione, nella quale fanno l’esperienza che l’Incondizionato li riguarda.
Rispetto al caso speciale del dialogo tra ebrei e cristiani e nella luce della dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II, nel 1979 Klaus Hemmerle, vescovo di Aquisgrana prematuramente scomparso, espresse la sua speranza che tra ebrei e cristiani si possa giungere a un dialogo per così dire «da centro a centro», nella speranza che «l’ebraismo e il cristianesimo attuali, che vivono delle loro origini e che accettano e prendono del tutto sul serio la loro sostanza, possano spingersi fino alla contemporaneità del dialogo su ciò che “rende” ebreo l’ebreo e cristiano il cristiano, senza cancellare né eludere le differenze» e invece proprio «in forza del proprio ebraismo e cristianesimo»(15).
Se in questo modo si giungesse a un dialogo tra le religioni, allora, a partire dal riconoscimento della libertà religiosa intesa in un primo tempo come libertà meramente formale e negativa, potrebbe farsi spazio, rispetto al destino inevitabilmente unico e comune della famiglia umana, una libertà positiva di dialogo tra persone in quanto se stesse: sarebbe un dialogo su ciò che per loro c’è di più importante.Dialogo di testimonianza, ragionevole e di richiesta. – In che modo avrebbe luogo un siffatto dialogo tra le religioni? Accingendomi a concludere, tento di rispondere per mezzo di un riepilogo. In primo luogo, dobbiamo dire che agisco già in senso morale, quando prendo sul serio l’altro nel suo effettivo essere se stesso. E solo un tale atto senza riserve in vista del riconoscimento della dignità dell’altro può essere l’inizio per un dialogo autentico con costui.
Ora, se però avvio con l’altro, che vive all’interno di un’altra religione storica, un dialogo serio sul suo rapporto con l’Incondizionato che lo tocca in profondità nella sua religione – allo stesso modo in cui questo rapporto tocca nel profondo menella mia fede cristiana –, questo dialogo dovrà essere un dialogo tanto di testimonianza, quanto ragionevole, quanto infine di richiesta.
Deve essere un dialogo di testimonianza, in quanto né l’altro in quanto se stesso e tutto il suo esserci, né io stesso con tutto il mio esserci, possiamo essere in sospeso e rimanere fuori.
Deve essere un dialogo ragionevole, poiché la ragione è la dote più elevata che possediamo in quanto uomini. E deve perciò essere messa in gioco proprio qui, dove ne va della realtà estrema. Già il primo filosofo convertito al cristianesimo, Giustino, martire nell’anno 165, presuppone che in ogni vera religione ci sia la ragione.
In questo senso per lui anche Socrate ed Eráclito appartengono alla verità del Cristianesimo(16). I cristiani hanno paura del peccato ma non della ragione. Proprio per questo un tale dialogo deve essere allora anche di richiesta, cioè un dialogo che nel suo senso compiuto ricerca la verità. E ciò è senz’altro compatibile con il fatto che io, in quanto cristiano, riguardo a Gesù Cristo professi in forma definitiva che egli è «la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6). Perché questa professione non intende affatto che io non possa comprendere né vivere sempre meglio, sempre più profondamente e sempre più completamente questa «via», questa «verità» e questa «vita». Dal momento che credo, mi mantengo nel movimento del trascendere. «Deus semper maior»(17). Non ho finito una volta per tutte. Per questo, fin dal suo inizio, la fede nel suo compiersi ha continuato a rimettere in gioco la ragione con il suo domandare e ascoltare, e quindi si è sempre compresa non come una cognitio perfecta in senso esaustivo, bensì come fides quaerens intellectum. Nella intenzionalità del compimento sua propria essa ha così preso sul serio il suo proprio bisogno di tempo. Per questo la fede ha sempre cercato, in quanto fede che rimane la medesima, di riproporsi in nuove interpretazioni e di esprimersi in esse e di formularle poi nei concili ecumenici – e il Concilio Vaticano II non è stato certamente l’ultimo concilio nella storia della fede. Giovanni XXIII, nel suo discorso di apertura di tale Concilio, ha riportato in una formula chiara questo rapporto fondamentale tra la fede e l’espressione linguistica della fede attraverso la comprensione: «Est enim aliud ipsum depositum Fidei seu veritates, quae veneranda doctrina nostra continentur, aliud modus, quo eaedem enuntiantur, eodemque tamen sensu eademque sententia»(18). «Altra cosa, infatti, è il deposito stesso della fede […], e altra cosa è la forma con cui le verità contenute nella nostra dottrina vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata»(19).
Solo le ideologie si dimostrano prodotti chiusi in se stessi in forma fondamentalistica e auto-affermativa, non così la fede. Essa, in quanto relazione dell’uomo mortale con il Dio vivente, ha invece la forza di continuare a divenire nuovamente linguaggio inteso come la fede medesima, prendendo sul serio la storia. La fede non è un totalitarismo.
Se presuppongo che però anche il mio interlocutore, inteso qui come colui che vive all’interno di una religione estranea, è in rapporto con il vero Incondizionato (o piuttosto Dio, il vero Incondizionato e Vivente, è in rapporto con lui, perché solo in ciò può consistere il vero rapporto fondante), mi è allora concesso di partire dal fatto che anche costui cerca una comprensione di volta in volta più profonda e migliore della relazione religiosa entro cui vive. Questo, e solamente questo, può portare a un dialogo serio, ragionevole e aperto al futuro, un dialogo che riguarda la cosa che indichiamo con il termine più reale di «religione». Mi pare tuttavia indispensabile che in un tale dialogo ragionevole trovi espressione anche l’aspetto critico. Le cose stanno così già anche in un dialogo intra-cristiano alla ricerca di un intellectus fidei di volta in volta più adeguato. Le cose stavano così già nell’Antica alleanza. Pensate, ad esempio, alla critica mossa dai profeti al culto di Gerusalemme. È così però solamente nel dialogo con un’altra religione autentica, e cioè a priori non fanatica né ideologica. Del resto in molte religioni o anche in certi movimenti di riforma si mostrano continuamente tracce di una tale autocritica; il che parla a favore del fatto che le altre religioni non sono semplicemente irragionevoli.
Necessità di una criteriologia fenomenologica sulla natura e la disnatura della “antireligione”. – Oggi è davvero necessaria e urgente l’elaborazione di una criteriologia fenomenologica del rapporto religioso in quanto tale. Il filosofo della religione di Friburgo Bernhard Welte ne ha sviluppata una in alcune pagine del suo scritto Vom Wesen und Unwesen der Religion (Cio che è e ciò che non è la religione) (20). Io stesso ho tentato di offrirne una nell’ultimo capitolo, intitolato «Il decadimento del religioso», del mio libro Evento e preghiera. Per un’ermeneutica dell’accadimento religioso(21). Emmanuel Levinas ha sviluppato nelle sue interpretazioni talmudiche alcuni importanti momenti di una tale criteriologia, sotto il titolo Dusacré au saint(22). Confesso però, e lo faccio in senso del tutto autocritico, che finora qui è stato fatto ancora troppo poco. Proprio oggi la ricerca nel campo della fenomenologia della religione dovrebbe dedicarsi con grande energia a questa questione.
Un nuovo modo di intendere la tolleranza. – Se il dialogo sulla religione viene inteso in questi termini e non semplicemente come un dialogo interreligioso nel senso di un confuso egualitarismo tra tutte le religioni effettivamente esistenti, che non sarebbe il frutto di una vera riflessione ma quasi un «anything goes»(23), un «tutto va bene nella teoria» sulla religione, allora si giunge anche a un nuovo modo di intendere la tolleranza, il quale adempie alla pretesa di incondizionatezza propria della religione, così come è stato formulato, ad esempio, da Franz Rosenzweig. La vera tolleranza non può più essere intesa come la «tolleranza assoluta» in senso meramente formale e «propria di un dizionario enciclopedico di conversazione», nel quale una voce sta in un modo assolutamente indifferente accanto all’altra. La tolleranza deve piuttosto essere intesa «come quella presente in una competizione per il titolo mondiale, alla quale sono ammessi tutti, ma in cui alla fine rimane uno solo»(24). «Correte in modo da ottenere il premio», ci dice san Paolo (1Cor 9, 24). Intraprendere questa competizione, dedicarsi a un colloquio guidato non da interessi legati al potere, ma dalle domande fondamentali dell’uomo sull’Incondizionato, prendendo sul serio l’altro per mezzo di un dialogo ragionevole “da centro a centro”, che sia condotto tra religioni disposte a realizzarlo: in ciò consiste, mi pare, oggi più di ieri la sfida per noi cristiani, che siamo traumatizzati dalla globalizzazione, ma anche toccati dall’amore infinito di Dio.
(tr. di Laura Bonvicini, testo pubblicato su Humanitas, 65(3/2010) 431-442)
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1 Aristotele, Rhetorica 1358 a.
2 F. Rosenzweig, Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, 4 voll., Nijhoff,
Den Haag-Dordrecht 1976-1984 (d’ora in poi GS), qui GS 3, p. 152 (tr. it. Il nuovo pensiero,
a cura di G. Bonola, Arsenale, Venezia 1983, p. 58).
3 Ad esempio, cfr. B. Liebrucks, Sprache und Bewußtsein, 7 voll, Akademische Verlagsgesellschaft,
Frankfurt a.M. 1964-1979, qui vol. I, p. 218.
4 Aristotele, Perì hermenéias 17 a.
5 GS 3, pp. 151-152 (tr. it. cit., p. 58).
6 GS 3, p. 152
7 Akademieausgabe, vol. XXI, p. 103.
8 GS 3, p. 148 (tr. it. cit., p. 53).
9 GMS BA 67 (tr. it. La fondazione della metafisica dei costumi, Utet, Torino 1970,
10 E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1974,
11 Les Évêques de France, Proposer la foi dans la société actuelle. Letrre aux catholiques
de France (1996), Cerf, Paris 2003 (tr. it. in «Il Regno» 7[1997], pp. 219-239).
12 Così si espressero Cipriano e Bonifacio VIII nella Bolla Unam sanctam, DH 870:
«extra quam nec salus est nec remissio peccatorum».
13 Ad esempio, cfr. Agostino, Tract. in Iohannem, PL 35, coll. 1724-1725.
14 DH 2429.
15 K. Hemmerle, Vorwort zu dem Arbeitspapier des «Gesprächskreises Juden und
Christen» des Zentralkomitees der deutschen Katholiken vom 8. Mai 1979.
16 Cfr. Dial. cum Tryphone 93 e I Apol. 48.
17 Agostino, Enarr. in Ps 62.
18 AAS 1962, p. 792.
19 Cfr. G. Carzaniga (ed.), Giovanni XXIII e il Vaticano II. Atti degli Incontri svoltisi
presso il Seminario vescovile di Bergamo 1998-2001, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003,
20 Knecht, Frankfurt a.M. 1952, ora in Id., Gesammelte Schriften, vol. III/2, Herder,
Freiburg i.Br. 2008, pp. 40-58.
21 Cedam, Padova 2003, pp. 137-149. Cfr. anche B. Casper, Dal Sacro al Santo. Sul
senso ambiguo dell’orizzonte trascendentale «das Heilige», in C. Vigna-S. Zanardo (eds.),
Etica di frontiera. Nuove forme del bene e del male, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp.
99-115.
22 Minuit, Paris 1977 (tr. it. Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche,
Città Nuova, Roma 1985).
23 Il pensiero religioso di John Hick corre forse il pericolo di essere inteso proprio in
questo modo.
24 GS 1, p. 1071