Giornale di Brescia, 28 marzo 2010
Una «figura» della Passione pasquale
L’archetipo letterario, che trova il proprio adempimento storico e metafisico nella vicenda pasquale del Cristo morto e risorto, è la figura del «Giusto sofferente».
La più antica e potente incarnazione dell’interrogativo esistenziale «perché anche il giusto soffre e muore?» si trova nel biblico Giobbe, recentemente tornato alla ribalta a Brescia con la Sacra Rappresentazione proposta nella Chiesa di San Francesco dalla Cooperativa Cattolico-Democratica di Cultura per la regia di Carlo Rivolta e Nuvola de Capua.
Il ricco e felice, saggio e pio, buono e giusto Giobbe, è messo alla prova da Satana che, sfidando Dio, lo priva di tutto, figli ricchezze e salute, lasciandolo a grattarsi con un coccio sul letame, e più ancora dai suoi falsi amici, che per consolarlo gli ricantano il vecchio luogo comune (se ne trovano tracce in tutti i miti sulla natura mortale dell’Umanità): le disgrazie sono la giusta punizione divina per i suoi peccati occulti, dunque li ammetta, e la smetta di chiamare Dio a testimone della propria innocenza.
Tutti i ruoli si intrecciano nella polifonica interpretazione di Luciano Bertoli, con l’ausilio essenziale ed efficace di musiche e luci, fino alla soluzione del dramma: fieramente invocato da Giobbe, l’Onnipotente stesso si manifesta, esalta la piena bellezza del Creato, che necessita anche della presenza del male, unica e terribile garanzia per una reale libertà dell’uomo, perché la sua adesione al progetto divino sia un libero gesto d’amore e non un passaggio obbligato, rimprovera la presunzione di Giobbe, ma ne loda al tempo stesso la costanza, dichiarando ai suoi amici che solo per la preghiera di Giobbe li perdona, perché non hanno detto il vero di Lui, riducendo l’Altissimo a un idolo collerico e vendicativo, mentre Giobbe, «il ribelle», ha ben compreso il difficile amore che unisce la creatura al suo Creatore.
Questo grande testo è, nella storia della letteratura, forse il primo che si possa definire una tragedia.
Databile al VI sec. a.C. per la trasparente analogia con l’esilio babilonese del Popolo Eletto, ma forse anche, in nuce, più antico, perché il Giusto sofferente è figura ricorrente nella Bibbia, da Abele a Giuseppe, da Davide ai Profeti, «Giobbe» affianca e forse precede l’elaborazione ellenica del medesimo tema che, dopo le prove mitiche di Eracle e Bellerofonte, si esprimerà pienamente, nel V secolo, con gli eroi della tragedia attica: Aiace, Filottete e soprattutto Edipo.
Costui, al pari di Giobbe, dalla massima fortuna (vincitore della Sfinge, salvatore e re di Tebe, sposo e padre felice) precipita nell’abisso dell’orrore senza aver commesso scientemente colpa alcuna, ma alla fine gli Dei, inspiegabilmente come ne hanno permesso la rovina, lo assumono tra Loro, beato eroe difensore di Atene, nell’«Edipo a Colono» di Sofocle.
Consacrato dalla letteratura greco-latina (ne è un esempio lo stesso Enea virgiliano, manovrato dagli Dei e destinato a morte precoce, nonostante la sua coerente «pietas») il Giusto sofferente è interpretato dalla Patristica e dalla successiva tradizione medievale e barocca come «figura Christi» e, da enigmatica icona dell’assurdo esistenziale, diviene nesso risolutivo del problema del Male, nei drammi di Shakespeare e di Calderòn come nell’arte, che trasfigura gli antichi uccisori di mostri nel Risorto vincitore degli Inferi (ma anche in san Giorgio ecc.).
Dall’Oriente mediterraneo Giobbe approda così all’Occidente nordico, e dà nuova vita alla saga dei Nibelunghi nelle opere dell’ultimo Tolkien, rimaste inedite perché non finite, e pubblicate solo recentemente a cura del figlio Christopher (la traduzione italiana è edita da Bompiani): ne «I figli di Hùrin» tramite l’incrocio del mito edipico con il tema nibelungico dell’uccisione del drago, inseriti in un’epoca antecedente la vicenda del «Signore degli Anelli»; nel più recente «La leggenda di Sigurd e Gudrùn» nella rivisitazione della saga di Sigfrido (mediatore è il mito di Balder, già decisivo per l’evoluzione spirituale e artistica di Tolkien).
Irretito in una trama d’inganni che la sua stessa leale ingenuità contribuisce a rendere inestricabile, l’eroe viene condotto a morte con l’assenso di Odino perché – innova Tolkien – è il Prescelto del Mondo, destinato, nel Giorno del Giudizio, a vincere definitivamente la Morte, da lui già subita senza colpa, e a salvare «il Mondo Rinato», la Gerusalemme Celeste che Giobbe aveva incrollabilmente sperato.