Eliot, sebbene nato in America, e precisamente il 26 settembre 1888 a St. Louis nel Missouri, da famiglia che vi si era stabilita ormai da secoli (fin dalla metà circa del Seicento), facente quindi parte dell’aristocrazia coloniale americana, aveva le sue più lontane radici in Inghilterra, perché era stato un suo antenato, Andrew Eliot, a emigrare in America con la famiglia al tempo delle lotte di religione.
Andrew Eliot si era fermato nel Massachusetts. Poi, in tempi più recenti, una parte della famiglia Eliot era andata verso il Sud, stabilendosi nel Missouri. Questo può sembrare uno sfondo molto remoto ma, in realtà, in Eliot questi fili, Inghilterra ed America, si sono fortemente intrecciati; come si sono intrecciate, nell’America stessa, la Nuova Inghilterra e le regioni del Sud, che pure sono molto diverse tra loro. Ci sono state in Eliot tante sollecitazioni che poi egli ha ricomposto in unità.
Infatti, se c’è una tendenza che si rivela e poi procede costante, ben visibile nella vita di Eliot, è proprio verso la ricomposizione, verso l’unità: ricongiungere, quindi, ciò che era lontano, entro il continente dov’era nato, e poi ricongiungere quel continente e il nostro. Eliot è stato un uomo di ritorni: ritorni sul piano della cultura stessa e sul piano di una riscoperta di valori che sono costanti nella storia dell’uomo. Eliot ci appare, da giovane, molto insoddisfatto di quella che era la produzione poetica del suo tempo, ed è interessante vedere il motivo della sua insoddisfazione. Egli dice che la sensibilità di quel tempo era “dissociata”: il pensiero andava da una parte, i sensi da un’altra; era come se le facoltà dell’uomo si fossero frantumate. Ed Eliot si volge, nel passato, proprio a quei poeti e a quei periodi in cui notava, invece, quella che lui chiamava la “sensibilità unificata”, cioè dove pensiero, sentimento, immaginazione, sensazione, formavano una cosa sola. Tra questi i più recenti erano i simbolisti francesi, ai quali infatti nel suo primo periodo si volge.
La prima fase della sua poesia mostra l’influsso riconoscibile di Baudelaire e, ancor più, di Laforgue, per l’ironia che vi si diffonde, un’ironia, però, molto amara, non certamente gioiosa né superficiale. Un altro gruppo di poeti in cui Eliot trovò alimento furono i metafisici inglesi del Seicento: poeti che avevano forti interessi insieme intellettuali e religiosi e che erano stati messi lungamente in disparte dagli studiosi. Fu Eliot che li andò a riscoprire e, dopo di che, fioccarono le tesi di laurea su questi poeti, durevolmente rivalutati per merito suo. Ciò che lo attraeva in loro era, ancora una volta, la “sensibilità unificata”. Ma il poeta in cui trovò più alimento – in cui trovò più grandezza e più ispirazione – fu Dante. Si può dire che, in un certo senso, la crescita di Eliot è stata anche la crescita di Dante in Eliot. Nel periodo in cui si era stabilito da poco in Inghilterra, un suo amico, anche lui poeta, Conrad Aiken, racconta come nei momenti di libertà tirassero fuori di tasca una piccola edizione della Divina Commedia e passassero le loro ore inebriandosi delle meravigliose scoperte che facevano nella lettura di Dante.
Bisogna che ora io vi rammenti alcuni dati biografici importanti. Vi ho già detto che Eliot è nato a St. Louis. Poi, in un primo tempo, è andato nella Nuova Inghilterra, cioè nel Massachusetts, dove avevano fatto la prima tappa i suoi antenati inglesi e dove c’erano ancora alcuni suoi parenti. Un ramo della famiglia era proprio a Boston e il Presidente dell’Università di Harvard era allora un Eliot, lontano parente di Thomas. Eliot iniziò gli studi universitari a Harvard e, cosa molto notevole, studiò filosofia e sanscrito. Successivamente andò in Inghilterra con una borsa di studio per prendere il dottorato ad Oxford con una tesi di filosofia, che completò ma non pubblicò mai.
A Londra conobbe Ezra Pound e insieme iniziarono una fervida attività poetica, in aperta rottura con la poesia che era di moda allora. Questa era una poesia molto convenzionale, molto idillica, molto arretrata rispetto a quelle che erano le vere situazioni del momento. Eliot aveva delle antenne sensibilissime perché, già negli anni tra il’12 ed il ’15, mentre i poeti cosiddetti “georgiani” (dal nome del re d’Inghilterra) si dilettavano di composizioni piuttosto arcadiche, Eliot scriveva delle poesie (poi raccolte in Prufrock and Other Observations e successivamente nei Poems) in cui è rappresentata invece una realtà sgradevole, angosciosa. Egli è sensibile, per esempio, al clima di incubo delle grandi città, dove la folla è dispersa e anonima, dove le persone hanno perso la loro identità, o comunque non riescono a definirla, non sanno amarsi e sono tutte estranee tra loro.
Queste sono cose che Eliot scrive molto presto: infatti il suo primo libro (Prufrock and Other Observations) esce nel’17 comprendendo, naturalmente, tutte cose anteriori, che si distaccavano dalla produzione di quel tempo, proprio perché registravano il clima di inquietudine e di angoscia che gli altri poeti non avevano captato.
Nel Prufrock, come anche in alcuni dei Poems, vediamo un’angoscia soprattutto individuale, un interrogarsi e un non trovare risposta: i rapporti fra gli esseri umani sono sempre falsati.
Vediamo a volte, in queste prime poesie, dei dialoghi che ad un certo momento cadono, abortiscono: le persone non riescono mai veramente a mettersi in contatto. Quello che in Prufrock and Other Observation era, per così dire, un malessere, una pena individuale, poi nei Poems si allarga, diventa quasi una sensazione data dalla Storia.
Nel primo dei Poems, un poema abbastanza lungo, intitolato Gerontion, si vede un vecchio che sembra avere un’età antichissima, tale da conoscere anche tempi immemorabili, che si esprime sulla vanità, sulla futilità della Storia. La Storia impartisce delle lezioni che l’uomo non è capace di apprendere, perché i suoi insegnamenti vengono o troppo presto, quando l’uomo non è maturo per profittarne, oppure troppo tardi, quando non ha più la forza di seguirli anche se li ha compresi.
La poesia di Gerontion è veramente di un pessimismo, di una negatività quasi assoluta. Ma il cammino più importante – o perlomeno più noto – di Eliot comincia nel’21 con The Waste Land che fu indubbiamente l’opera poetica che fece più scalpore. Al momento della sua uscita trovò soprattutto denigratori, ma trovò anche ammiratori appassionati. Fu una specie di pietra di paragone che divise la società letteraria.
Essa segnò il precisarsi del mondo poetico di Eliot, sia sul piano del contenuto sia su quello della forma. Quest’ultima è quanto mai nuova, fatta di immagini giustapposte – si passa dall’una all’altra senza nessun termine intermedio – fatta anche di ritmi nuovi, che in qualche modo potevano riecheggiare quelli del Jazz, che in quegli anni (gli anni Venti) era in pieno sviluppo. Essa è espressione di una enorme carica intellettuale ed emotiva, anche se l’aggettivo “emotiva” non va inteso nel senso di sentimentale.
The Waste Land ha inizio con un verso molto famoso, che tutti ricordano, citandolo magari a sproposito, senza sapere esattamente da dove viene e che cosa significa. Da quel verso è bene cominciare, perché si presta per appoggiarvi il nostro discorso successivo: “April is the cruellest month” (Aprile è il mese più crudele). Quando diceva questo, nel’21, Eliot non intendeva rifarsi ad un particolare aprile che fosse bizzarro od inconsueto, come sono state a volte certe nostre primavere. Alludeva proprio all’aprile classico, all’inizio della primavera, e lo chiamava il mese più crudele perché il risveglio, questo impulso e fremito della primavera, suscitava sgomento e rifiuto nelle anime morte, cioè anime pusillanimi, che avevano paura di vivere e avrebbero voluto rimanere sempre nascoste, in una specie di torpore che, negando la vita, le esonerasse da ogni responsabilità. Non per nulla la prima parte di The Waste Land s’intitola The Burial of Dead (La sepoltura dei morti) e, come ha osservato un critico americano, Cleanth Brooks – forse il miglior esegeta di questo poema di Eliot – tutta The Waste Land è costruita su un doppio significato della parola “vita” e della parola “morte”. Ci sono due specie di vita e due specie di morte.
C’è una vita che è fatta d’inerzia, di egoismo e che perciò coincide con una morte spirituale, e c’è invece una vita spirituale e perciò autentica, che la morte non intacca. Così per la morte: c’è una morte fisica che però può essere anche la porta d’ingresso ad una vita spirituale, come Eliot poi dimostrerà in Assassinio nella Cattedrale. C’è dunque la morte spirituale, indipendente dalle condizioni fisiche, e c’è la morte fisica, che può coincidere con una vita spirituale.
Quindi ci sono queste due coppie antitetiche di significato sia per la parola vita sia per la parola morte, che possono trapassare l’una nell’altra. In The WasteLand vediamo soprattutto gli aspetti di una morte spirituale: ritorna il senso delle città opprimenti ma nello stesso tempo irreali, nel tema della “Unreal city”, dove le persone si muovono come i dannati di Dante. E c’è il senso dell’egoismo, del disamore: The Waste Land significa “La terra desolata” e ciò che rende desolata la terra è proprio la mancanza di amore. La colpa che ha fatto inaridire questa terra è l’egoismo, il chiudersi degli uomini ciascuno in sé, come dei prigionieri volontari, rifiutando di conoscere e di comprendere gli altri.
Si può dire che The Waste Land, attraverso le sue cinque parti, è tutta una serie di illustrazioni di questo fatto, una variazione continua su quest’unico tema dell’inaridimento e del disamore. Però contiene anche degli elementi positivi, che al tempo in cui uscì non furono tanto notati, ma che poi invece sono apparsi molto chiaramente, alla luce del cammino successivo di Eliot. Intanto questa sete, questa arsura da cui ci si sente divorati è essa stessa una richiesta di salvezza, una invocazione di acqua. Nell’ultima parte di The Waste Land che è intitolata What the Thunder Said (Cosa disse il tuono) la pioggia alla fine si prepara; non la vediamo ancora scendere, ma è ormai imminente: si sono radunate le nubi e tutta la terra la sente vicina, per la sua redenzione. E la voce del tuono – che dà appunto il titolo a questa parte del poema – dice all’uomo ciò che deve fare per uscire dalla desolazione. Dice tre cose: “Give, Sympathize, Control” e le dice in sanscrito, “Datta, Dayadvam, Damyata” (per questo vi ho fatto notare che Eliot aveva studiato il sanscrito) non per fare una cosa peregrina, tanto per sconcertare il lettore, ma – siccome il sanscrito è la lingua più antica che si conosca – per far vedere come queste siano in realtà delle massime eterne, che valevano nei tempi in cui le persone parlavano sanscrito e valgono ancor oggi. La prima delle tre parole significa “dà”, “tu devi dare”; la seconda significa “sii compassionevole”, “compatisci” e l’ultima “controlla”, cioè “abbi una disciplina su te stesso, impara a dominarti, a non abbandonarti all’egoismo delle tue passioni”.
Eliot scrisse di getto questa ultima parte del poema, che è la più positiva, come se fosse ispirato, mentre tutte le parti precedenti gli erano costate molta fatica, al punto che si era terribilmente esaurito ed era dovuto andare in Svizzera a curarsi. Li si sbloccò e scrisse d’impeto questo meraviglioso finale della “Waste Land”. Oltre agli insegnamenti del tuono abbiamo qui, come di scorcio, molto rapidamente, due scene della vita di Cristo, e cioè la cattura nell’orto (inizio della Passione) e poi l’incontro con i discepoli di Emmaus, quando già comincia il messaggio della Resurrezione.
L’itinerario di Eliot si può considerare un itinerario dantesco e certamente il primo periodo della sua poesia, da Prufrock a Gerontion, The Waste Land e anche The Hollow Men (Gli uomini vuoti) che seguono di alcuni anni The Waste Land, rappresenta in gran parte una discesa all’Inferno, un Inferno che non è neppure quello dei grandi peccatori, ma finisce con l’essere piuttosto un “antinferno”, dove, come in Dante, ci sono gli ignavi, che non hanno mai saputo prendere una decisione, sono stati sempre inerti e perciò sono ora condannati a correre dietro a uno straccio di bandiera che non ha alcun significato. L’Inferno di Eliot è di questo tipo e dà il senso di un infinito squallore, di un’infinita pena, degradazione e frustrazione.
Viene poi, nella sua poesia, quello che possiamo chiamare il “periodo purgatoriale”. Esso ha inizio con Ash Wednesday, (Mercoledì delle Ceneri), poesia purgatoriale per eccellenza, anche nel titolo che si rifà al primo giorno di Quaresima, cioè all’inizio di un periodo penitenziale.
Vi erano stati nel frattempo altri avvenimenti importanti nella vita di Eliot. Egli si era stabilito ormai definitivamente a Londra (in America sarebbe tornato solo molto più tardi, per due brevi visite). Ormai la sua patria di elezione, in cui aveva ritrovato le sue remote radici, sarebbe stata l’Inghilterra.
Eliot aveva attraversato un periodo difficile, in cui per mantenersi e mantenere la moglie che era molto malata di nervi (infatti finì poi in una clinica), doveva accettare qualsiasi lavoro gli capitasse. Aveva lavorato nella Banca dei Lloyds, dove c’era moltissimo da fare, oltretutto perché erano gli anni successivi alla prima guerra mondiale e c’era da rivedere tutta la contabilità, complicata, appunto, dai debiti di guerra. Eliot aveva un lavoro terribile, per quantità e responsabilità.
Inoltre per arrotondare il bilancio e avere un po’ di respiro economicamente, teneva conferenze e lezioni. Queste sono state molto proficue anche per noi, perché poi Eliot le ha raccolte in un libro chiamato The Sacred Wood (Il bosco sacro), in cui si trovano alcune delle sue dichiarazioni critiche più importanti, giacché Eliot è stato così stimolante, così fecondo nel campo della critica come nel campo della poesia. E’ proprio in The Sacred Wood che abbiamo un saggio importantissimo, intitolato La tradizione e il talento individuale, in cui Eliot definisce qual è la posizione del poeta riguardo alla tradizione.
Egli afferma che la tradizione è l’insieme vivente delle opere valide che sono state scritte, da Omero fino ai giorni nostri, e che questo passato agisce su ogni scrittore sensibile. Afferma, anzi, che lo scrittore sensibile deve “prendere” da questo passato, ma non in una maniera servile o meccanica: deve far rivivere in sé i grandi del passato, che sono anagraficamente morti, ma che, come poesia, come validità di quanto hanno conosciuto e insegnato, sono sempre vivi, molto più vivi di tanti vivi “anagrafici”. Quella affermazione di Eliot era di una novità straordinaria per quel tempo (1920) e conserva intatto il suo valore anche oggi.
Nelle poetiche, in genere, si cerca di mettere in risalto quello che distingue un singolo autore, l’originalità è considerata una virtù. Per Eliot, invece, la virtù sta nell’inserirsi armoniosamente nel “vivente insieme” di tutte le opere da Omero in poi. Egli arriva a dire che l’arte deve essere non affermazione della personalità ma “spersonalizzazione”, proprio nel senso di sentirsi parte di un tutto più vasto. Quando ciò avviene – e questo è l’altro grande assioma eliotiano – “il presente modifica il passato”. Come il passato influisce sul presente, così il presente influisce sul passato, perché ogni nuova opera valida che viene ad aggiungersi a quell’insieme già esistente ne impone, in qualche modo, una risistemazione. E quindi abbiamo la tradizione come qualcosa non di statico, non di fermo, non di polveroso, ma di dinamico e perennemente operante. Eliot è, direi, il migliore esempio che possa illustrare la sua teoria. Nel ritorno alla tradizione, intesa in questo senso assolutamente vivo e moderno, c’è un altro grande concetto che viene a delinearsi nella sua poesia a partire da Ash Wednesday: è il concetto di ortodossia, cioè il tentativo di fare parte anche di una comunità che sia vincolata religiosamente.
“Religio”, nella etimologia che viene più comunemente accettata, viene da “re-ligare”. Eliot, anche in questo senso desidera di non essere un isolato ma di entrare in un disegno più vasto. Questa tendenza agiva in lui ancor prima di estrinsecarsi in Ash Wednesday.
Particolarmente importante nella vita di Eliot è il 1927, perché è l’anno in cui egli aderisce al ramo anglo-cattolico della Chiesa Anglicana, il ramo che più degli altri conservava elementi della Chiesa Cattolica. Eliot sentiva che esso era quello che meglio si inseriva in un insieme, riallacciandosi in qualche modo al tempo in cui tutta la cristianità era unita. E ad un senso di unità, o almeno di unificazione, abbiamo visto come Eliot tendesse su ogni piano dell’essere: Ash Wednesday è uno dei primi frutti della sua conversione. Altri frutti, quasi contemporanei, sono gli Ariel Poems, uno dei quali è il Cantico di Simeone, che si rifà ad un episodio evangelico. Un altro degli Ariel Poems, il Viaggio dei Magi deriva dalla stessa fonte. Ci sono poi altri due Ariel Poems, non così esplicitamente evangelici come tema, ma pervasi anch’essi da uno spirito religioso, di forte derivazione cristiana: sono Animula e Marina. Ma certamente il pezzo più importante di questo periodo rimane Mercoledì delle Ceneri.
In Mercoledì delle Ceneri abbiamo veramente un cammino penitenziale: la persona che parla è un penitente. E’ quindi una persona che acquista e conserva una sua identità, mentre in The Waste Land è difficilissimo stabilire l’identità di chi parla, com’è difficilissimo stabilirne la collocazione: non si capisce chi è dentro e chi è fuori a ognuna delle parti della poesia, perché si ha come una folla mutevole e irreale, composta più da spettri che da persone; uno si sovrappone all’altro, e non si riesce né a vederli nettamente né a contarli: il loro significato direi che è proprio in questo loro comporsi e decomporsi da incubo. Invece in Ash Wednesday abbiamo una individualità che torna a definirsi. E torna a definirsi proprio nella penitenza: ha ancora una tensione verso un passato colpevole, ma ha la volontà di procedere e comincia ad acquistare l’umiltà. E’ in Ash Wednesday che appare per la prima volta questo elemento dell’umiltà, che poi porterà, nel secondo dei Quartetti East Coker, ad un’affermazione importantissima: “La sola saggezza che possiamo sperar di acquistare / è la saggezza dell’umiltà. L’umiltà è infinita”.
Con la presenza dell’umiltà si varca come una linea equatoriale che divide due emisferi: l’emisfero del deserto, in cui Eliot si è mosso fino a The Wast Land e agli Uomini vuoti, e quello che invece potrà diventare l’emisfero del giardino.
Per esempio il tema del giardino già appare più volte in Ash Wednesday, mentre continua ad apparire anche il deserto, perché la penitenza si muove fra questi due mondi. In The Waste Land si avevano spesso delle citazioni dantesche, non mediante allusioni o parafrasi, ma con le parole di Dante riportate tali e quali, introdotte direttamente nel tessuto eliotiano. Eliot, in uno dei saggi di The Sacred Wood, il suo libro più creativo dal punto di vista critico, aveva detto che il poeta non imita ma ruba, cioè il suo rapporto con la tradizione si esprime anche nel prendere, magari, un pezzo di un’opera di un altro poeta e inserirlo direttamente nella sua, facendo così vedere quanto naturalmente questo pezzo si saldi al nuovo contesto. Eliot prende molto dall’Inferno dantesco per The Waste Land, e prende molto dal Purgatorio per Ash Wednesday dove vediamo un giardino che può ricordarci il Paradiso Terrestre della Divina Commedia,
Vediamo una ”Lady”, una signora che rimane un po’ evanescente, ma che sembra in certi momenti confluire nella figura di Matelda, in altri in quella di Beatrice e, più ancora, forse, in quella della Vergine Maria. Il primo brano di Ash Wednesday si chiude proprio con l’Ave Maria: “Prega per noi nell’ora della nostra morte”, e c’è anche un pezzo della Salve Regina, ci sono molti pezzi di preghiera inseriti nel poema in quel modo tipicamente eliotiano, senza presentazione, senza commento: messi li all’improvviso fra le immagini del suo mondo. Anche questo dà un senso liturgico, quaresimale.
Un altro scrittore che Eliot cita molto in Ash Wednesday, riportandone i simboli, è S.Giovanni della Croce, grande teologo mistico del Cinquecento spagnolo. C’è nel poema il senso della notte oscura – la teologia notturna, appunto, di S.Giovanni della Croce – e c’è anche il simbolo della scala, un simbolo molto amato dal santo che ritroviamo ripetutamente in Ash Wednesday: la scala sulla quale faticosamente ascende il peccatore. Il culmine della salita eliotiana si avrà nei Quartetti Four Quartets, che Eliot scrive in gran parte negli anni della seconda guerra mondiale: soltanto uno, Burnt Norton (il primo) è precedente. Gli altri tre furono scritti negli anni più duri, più tragici, non soltanto per gli individui, ma anche per le nazioni.
L’Inghilterra sofferse molto durante la guerra: ci fu il periodo dei cosiddetti VI e V2, i micidiali missili tedeschi che distrussero interamente alcune città, per esempio Coventry e alcune zone di Londra: era un periodo veramente di incubo. Nei Quartetti c’è fortissimo il senso della sofferenza, ma anche il senso di qualcosa che la redime. I Quartetti sono interessanti non solo presi uno per uno, benché anche così si avverta certamente la grandezza e la potenza di questa poesia, ma soprattutto presi nel loro insieme. Hanno tutti come base uno dei quattro elementi: Burnt Norton l’aria, East Coker la terra, The Dry Salvages l’acqua e Little Gidding il fuoco.
Vi si trova dunque una specie di cielo degli elementi. Inoltre ciascun quartetto ha il nome di un luogo come titolo: i quattro titoli non sono altro che dei toponimi significativi, ciascuno per un motivo diverso.
Il primo, Burnt Norton, si riferisce ad una villa in rovina dopo un antico incendio (”burnt” significa “bruciato”) dove Eliot capitò per caso. Fu un incontro casuale, ma pregnante, rivelatore: infatti in Burnt Norton abbiamo alcune delle considerazioni più profonde dal punto di vista filosofico che Eliot ci abbia dato. East Coker è quel villaggio del Somersetshire da cui, nel XVII secolo, era partito Andrew Eliot, per stabilirsi al di là dell’Atlantico. Quindi East Coker sancisce il ritorno di Eliot alle sue radici, chiude un cielo: infatti East Coker, attraverso le stagioni della terra, considera la continuità biologica, la continuità delle generazioni, che viene rappresentata nella bellissima figurazione della danza campestre. E su questo sfondo considera ciò che l’uomo acquista durante la sua vita individuale: si tratta del grande acquisto dell’umiltà. East Coker è, fra i Quartetti, quello di dimensione più intima, più raccolta.
In The Dry Salvages abbiamo il grande elemento dell’acqua.
Il nome The Dry Salvages designa tre scogli che si trovano al largo della costa di Cape Ann, nel Massachusetts, dove Eliot trascorreva le sue vacanze da ragazzo. Quel nome era la storpiatura dell’antico nome francese di questi scogli: “Les Trois Sauvages” cioè “I Tre Selvaggi”. The Dry Salvages è certamente uno dei Quartetti più belli, anche se è difficile dire qual è il più bello. lo confesso che la mia preferenza forse va proprio a The Dry Salvages per questo elemento dell’acqua che è rappresentato in una maniera stupenda. C’è il fiume, che è il Mississippi, cioè il fiume sulla cui foce era cresciuto Eliot, perché attraversa lo Stato del Missouri per andare a sfociare nel Golfo del Messico. E c’è il mare ed il senso del mare come vita, come morte, come minaccia. Io amo particolarmente The Dry Salvages anche perché vi è contenuta una delle più belle poesie che siano state scritte sulla Madonna.
Vi ho detto che già in Ash Wednesday, alla fine, c’era una Lady evanescente, ma che tendeva ad identificarsi con Maria. Ora, in The Dry Salvages, Eliot scrive una preghiera bellissima alla Madonna, dove ancora una volta combina quelle sue citazioni dagli antichi in una maniera straordinaria: comincia con la citazione di Dante, prosegue con una citazione da Villon e poi va per conto suo in una maniera che non è inferiore a quella dei suoi due grandi predecessori.
La poesia è questa:
Donna il cui tabernacolo sorge sul promontorio,
prega per tutti i naviganti e per tutti
i pescatori e per quelli
che vivono di un lecito commercio
e quelli che li guidano.
Anche ripeti una preghiera per le donne che videro
i loro sposi e figli
partire senza ritorno,
Figlia del tuo Figlio, Regina del Cielo.
E prega per coloro che navigarono e il viaggio
chiusero sulla sabbia, nelle labbra del mare
o nella nera gola che mai li renderà,
e dovunque non può raggiungerli la voce
della campana marina nel suo perpetuo Angelus.
In The Dry Salvages c’è infatti questo senso della vita come navigazione, questo simbolo antichissimo, ma sempre valido, del mare su cui va l’uomo. Anche il fiume è un simbolo della vita individuale o per lo meno familiare: sangue che scende in un unico corso, a perdersi nell’immensità in cui tutte le correnti s’incontrano, si incrociano, si frantumano oppure si sommano.
Comincia quindi in The Dry Salvages ad aversi un ampliamento rispetto non solo a Burnt Norton, che è il più astratto dei Quartetti, ma anche rispetto a East Coker, dove tutto rimaneva circoscritto nell’ambito della famiglia, della propria stirpe nella regione in cui è radicata. In The Dry Salvages abbiamo già un senso dell’intera umanità, di un mondo vastissimo e quasi inconoscibile.
In Little Gidding abbiamo il senso della Storia e del suo recupero, in una dimensione metastorica. Little Gidding si può ricollegare, per antitesi, a Gerontion: come Gerontion è il Nadir, così Little Gidding è lo Zenit del senso storico di Eliot. In Gerontion la Storia è un’enorme somma di futilità, di assurdità. Invece in Little Gidding la Storia ha un significato e lo intuiamo attraverso un luogo. Little Gidding è il nome di una piccola cappella nella quale pregavano Nicholas Farrar e una comunità religiosa anglicana che egli aveva fondato ai tempi del contrasto fra il re e il parlamento, nel XVII secolo.
Sembra che Carlo I, quando stava fuggendo perché oramai i suoi seguaci erano stati sconfitti dalle armate di Cromwell, abbia sostato a Little Gidding presso questa comunità. Nicholas Farrar era un nobile ed anche un umanista, un erudito. La sua comunità era formata da anglicani, che facevano una vita quasi monastica e pregavano insieme.
Eliot parla proprio di questa comunità, dice di aver intuito il significato di questo luogo, dove la preghiera era stata qualcosa di molto più che una serie di parole disposte in un certo ordine. E a Little Gidding egli coglie anche il senso della Storia: Farrar e i suoi facevano parte dei vinti – d’altronde anche i vincitori non ebbero una vittoria definitiva. Perciò Eliot dice che in quel luogo si sente tutto quello che la Storia può insegnarci, e sono gli sconfitti a comunicarcelo: “Un simbolo, un simbolo compiuto nella morte”. Il vero significato è dato dalla preghiera, perché la preghiera segna l’intersezione del tempo cioè della Storia, con l’intemporale, che è il divino.
A questa “intersezione” tendono tutti i Quartetti. Essa, dice Eliot, è qualcosa a cui tutti ci sforziamo di giungere e forse non vi giungeremo mai: vi giungono soltanto i santi. Però noi non dobbiamo desistere dal tentare, perché la vittoria per noi consiste solo in questo: “Noi non siamo sconfitti, perché abbiamo continuato a tentare”. Dall’altezza di questo luogo di preghiera, Eliot guarda tutta la sua vita, la vede come una vita in parte di errore, di peccato, volontario o anche involontario: tante cose che lui ha creduto di fare per il bene, guardandole retrospettivamente, gli sembrano cattive e allora anche gli onori, la gloria, che oramai sa di avere, lo addolorano, quasi lo pungono, invece di rallegrarlo.
Però l’armonia interiore si ricompone nella certezza che tutto sarà per il bene. In Little Gidding la citazione fondamentale – ripeto che le citazioni in Eliot non hanno un carattere ornamentale, ma un’importanza sostanziale – deriva da una mistica inglese, Santa Giuliana di Norwich, la quale disse: “Tutto sarà per il bene, ogni sorta di cosa sarà buona”. Questa visione è ancora una volta proiettata in un ricordo dantesco, il ricordo del XXVI canto del Purgatorio, il canto di Arnaut Daniel, in cui c’è da attraversare una cortina di fiamme per arrivare poi al Paradiso Terrestre. Proprio in questo fuoco, che è il fuoco dell’espiazione ma anche il fuoco della purificazione, dello splendore – in questo fuoco che alla fine si intreccia con la rosa – Eliot pone il simbolo supremo del cammino positivo, che, se non termina nella suprema estasi dantesca, tocca almeno la vetta della sacra montagna dell’espiazione: “Il fuoco e la rosa sono uno”.
Questo è il verso finale di Little Gidding. In Little Gidding possiamo dire che si concluda il cammino spirituale di Eliot. Ma dobbiamo anche tener presente che la poesia lirica non è stata la sua sola forma di espressione. Eliot si è dedicato molto anche alla poesia drammatica e anzi, proprio dopo il compimento dei Quartetti, vi si è dedicato quasi esclusivamente.
Ci ha lasciato quello che è probabilmente il più bel dramma sacro del nostro secolo, cioè Assassinio nella Cattedrale. Ma l’Assassinio nella Cattedrale è una cosa che sta a sé: è un grande studio sulla santità e sul martirio, visto attraverso il protagonista, che è San Tommaso Becket, il “nuovo santo di Canterbury”, come dicono le donne del coro. Il coro è un grande personaggio in Assassinio nella Cattedrale, è quasi un deuteragonista, perché anche il coro subisce una prova a cui segue una elevazione. Tommaso la subisce affrontando quattro tentatori e così purificandosi. Le donne in un primo momento si trovano in una condizione di rifiuto, in cui rifuggono dal prendere coscienza, simili in questo ai “morti” del primo tempo della “Waste Land”, che non volevano rivivere. Le donne di Canterbury vorrebbero che l’arcivescovo se ne andasse, che non le coinvolgesse, non le facesse assistere a qualche cosa di terribile, che sentono si prepara e che preferirebbero ignorare.
Passano da questo stato di pusillanimità e di torpore ad uno stato di coscienza, di accettazione, di più intensa sofferenza in un primo momento (ma la vita, quando ritorna, si fa inizialmente avvertire come dolore) e poi invece ad uno stato di capacità, di completa adesione alla volontà di Dio che lodano e glorificano nell’ultimo coro, associato al Te Deum.
Gli altri drammi di Eliot non sono così belli, sono decisamente inferiori all’Assassinio nella Cattedrale, però sono tutti notevoli, in quanto tutti si occupano sempre del tema della santità, vista in varie situazioni, che a differenza di quanto avviene per il personaggio eccezionale di Becket, sono prese dal mondo quotidiano. ne Cocktail Party riguarda un matrimonio in crisi, un altro dramma riguarda una ricerca di identità ed è ne Confidential Clerk (Il segretario particolare). Ce n’è uno, The Family Reunion (La riunione di famiglia), con una storia fra eschilea e psicanalitica, una presa di coscienza del proprio peccato e di ciò che nella famiglia può avere indotto a questo peccato.
L’ultimo dramma di Eliot, The Elder Statesman (Il vecchio statista) è, per conto mio, il migliore, sempre dopo Assassinio nella Cattedrale, perché ritrova una compattezza e linearità che negli altri drammi erano andate perdendosi.
Comunque, anche dove non sono eccelsi come Assassinio nella Cattedrale o come le liriche di cui vi ho parlato prima, questi drammi sono molto interessanti, anche, e forse soprattutto, riguardo al linguaggio, perché Eliot è riuscito a rendere teatrale e teatrabile il verso. Ha fatto un teatro di poesia, che però, nello stesso tempo, regge sul palcoscenico.
Vorrei terminare ricordando un’altra osservazione critica di Eliot, che io trovo estremamente importante per inquadrare il suo lavoro di poeta.
Riguarda le “Tre voci della poesia”: c’è un suo breve saggio così intitolato. Eliot dice che la poesia può avere tre voci: non tutte e tre insieme, ma o l’una o l’altra di queste voci.
La prima voce è quella del poeta che “parla per se stesso oppure per nessuno”: è dunque la poesia lirica, quella del cosiddetto “orfismo”, dove il poeta non si cura di sapere se gli altri lo sentono, se lo capiscono, se lo seguono o non lo seguono. Poi c’è la seconda voce, quando il poeta parla per gli altri ed agli altri. La terza voce è quella della poesia drammatica, in cui il poeta non parla più in prima persona, ma mette in scena dei personaggi che devono essere il più possibile autonomi: non si deve vedere la mano che tira i fili per farli muovere. Questa distinzione è molto bella, molto giusta, ed Eliot la illustra con esempi tratti dalla letteratura inglese e anche da altre letterature.
Io mi sono spesso domandata quale delle tre voci sia la più consona alla poesia di Eliot, in quale delle tre aree essa si muova di preferenza. Credo che si muova soprattutto nel campo della seconda voce, perché la poesia lirica di Eliot non è mai lirica pura: vi si formano sempre degli elementi drammatici senza d’altra parte arrivare fino alla vera e propria azione.
Inversamente la poesia drammatica di Eliot tende un po’ a ripiegarsi sulla lirica e le parti più belle, nei suoi drammi, sono le parti liriche. Quindi la sua voce più propria mi sembra la seconda. Trovo molto istruttivo che sia così: perché è la voce del poeta che parla agli altri, quasi come potrebbe parlare un sacerdote, un vescovo (gli amici a volte lo chiamavano, di soprannome, “Bishop Eliot”, il “Vescovo Eliot”).
Parla cioè per darci una sollecitazione anche morale, non vuole appagare soltanto le nostre vaghe aspirazioni sentimentali, ma vuole incitarci a percorrere una via severa, che impegni non solo il sentimento, ma anche l’intelletto, che ci porti ad un recupero e ad un modo di rivivere più profondamente tutto quello che è umano e tutto quello che di veramente importante e valido ci è stato dato sia nel tempo, sia nello spazio, essendo consapevoli di diverse culture e perciò degli innumerevoli canali, attraverso i quali circolano la linfa, il sangue e lo spirito della nostra umanità.
NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 4.3.1988 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.