Il nostro Partito vuol dare al Paese una risposta precisa e democratica

Il Cittadino, 1 dicembre 1963. Relazione politica del Vice-segretario reggente Matteo Perrini in occasione del XIII Congresso provinciale della Democrazia Cristiana, celebrato a Brescia al Franciscanum il 9 novembre 1963. Il Congresso ad ampia maggioranza ha votato una mozione a favore della linea politica a favore del centro-sinistra, ha nominato i membri del Consiglio Provinciale (primo Boni con 19.875 voti, seguito da Perrini con 19.560), il quale ha nominato Bruno Boni Presidente e Matteo Perrini Segretario Provinciale.

IL NOSTRO PARTITO VUOL DARE AL PAESE UNA RISPOSTA PRECISA E DEMOCRATICA PER LA SOLUZIONE DI TUTTI I PRESSANTI PROBLEMI CHE INTERESSANO LA NOSTRA SOCIETÀ

Signor Presidente, onorevoli Deputati e Senatori, amici delegati, amici che cortesemente avete accolto l’invito di venire ad assistere ai nostri lavori, è per me un grande onore prendere la parola dinanzi ad un’assemblea così altamente qualificata, all’assemblea che rappresenta tutta la D.C. bresciana qui convenuta nella pienezza dei suoi poteri e nelle persone più autorevoli al suo XIII Congresso Provinciale.

Siamo qui, amici, per un libero ed approfondito dibattito sul rinnovamento del Partito nella provincia e sulle scelte più idonee a portare avanti una politica democratica e popolare, nel momento forse più delicato e decisivo della storia politica di questo dopoguerra.

Omaggio a Papa Montini

Ma prima di entrare nel vivo del dibattito politico, so d’interpretare i sentimenti umani di questa assemblea, elevando il cuore e la mente alla Cattedra di Pietro, ove da giugno siede un figlio di questa nobile terra, un bresciano, Papa Montini, Paolo VI.

La D.C. bresciana non può non ricordare di avere avuto l’onore di essere vicina, per più generazioni, alla famiglia in cui nacque e si formò Paolo VI. Il nostro pensiero va, quindi, reverente e commosso al padre del Papa, all’on. Giorgio Montini, uomo politico di intransigente amore alla libertà, organizzatore del movimento cattolico bresciano, in tempi tanto difficili, alfiere generoso di idee attraverso il Cittadino ch’egli diresse, costruttore geniale di organismi e istituti che davano sostanza e possibilità di respiro all’iniziativa cattolica.

Ci sia altresì permesso di rivolgere un caloroso saluto al nostro senatore Ludovico Montini, che più direttamente ha seguito le orme illustri del padre, militando nella D.C. fin dalle origini.

Dal 29 settembre il colloquio della Chiesa Cattolica coi suoi figli, con i fratelli separati, con il mondo moderno è in atto e nel discorso di Paolo VI alla ripresa della seconda sessione del Concilio Vaticano noi abbiamo avvertito l’esuberante vitalità di una rinnovata Pentecoste, che dà concretezza, efficacia e profondità allo slancio e alla traiettoria dell’indimenticabile Giovanni XXIII.

Questa Chiesa antica e sempre nuova, combattuta e sempre vittoriosa, silenziosa e sempre presente ai grandi traguardi dell’umanità, questa Chiesa Maestra e a artefice di pace e per questo cittadina d’elezione d’ogni comunità umana, la Chiesa che, liberandosi da ogni residuo di mentalità temporalistica, ha visto sempre più potenziata la recettibilità del suo messaggio universale, la Chiesa di Cristo «sine macula et sine ruga», in quest’ora che è una delle più alte della sua storia, ha per supremo pastore un bresciano.

Tutto ciò è motivo di gioia e di soddisfazione ed è invito alla responsabilità e alla capacità creatrice d’essere, nelle forme di oggi in così rapida e radicale evoluzione, «attuali, vigilanti, tesi nei bisogni del momento» e insieme fedeli a quello che vi è di sostanziale nella nostra storia e nella nostra ideologia, fedeli all’ispirazione cristiana che anima interiormente la nostra visione della vita.

La ribellione per amore

Vi è un’altra circostanza, che va ricordata all’inizio dei nostri lavori affinché questi siano investiti dalla luce che da essa emana: fu proprio in queste piovose settimane di novembre, che venti anni fa, essendo il fascismo della Repubblica di Salò passato agli atti esecutivi della collaborazione nazista, si profilava e si organizzava la Resistenza.

Nel ventennale di quell’evento decisivo nella storia della Patria, la D.C. di Brescia, che tanta parte ebbe nella lotta contro i tedeschi occupanti e i fascisti al loro servizio, fa memoria del calvario dei suoi uomini alla macchia, abbarbicati alla montagna, braccati senza sosta nei quartieri operai della città e nelle campagne, torturati dalla fame e dal freddo, seviziati nelle carceri, nelle deportazioni, nei campi di concentramento che ovunque inesorabilmente si trasformarono per troppi esseri umani in un campo di morte.

La Resistenza per noi cattolici, secondo la epigrafica definizione di Olivelli, fu una ribellione per amore; ribellione della coscienza cristiana alla barbarie neo-pagana e razzista che «offende giustizia, legge, umanità, gratitudine, decenza e moralità» (Wiechert), che calpesta ogni ordine umano e divino; ma ribellione per amore, e dunque ansia di riscatto contro l’avvilimento che ogni dittatura porta con sé, lotta per la riconquista dei diritti umani primordiali, dalla libertà alla giustizia, dalla solidarietà alla pace.

Non dimentichiamolo: i nostri combattenti, i nostri martiri, la nostra gente non volevano semplicemente “resistere”. Se leggiamo le sublimi lettere dei resistenti cattolici condannati a morte tocchiamo con mano come essi – nella lucida attesa della dipartita da questo mondo – sentirono d’essere l’avanguardia di una società migliore, “il concime della civiltà”, e la loro morte vollero sacra e seminatrice di promesse.

L’aspirazione, la quale fu propria del movimento della Resistenza verso uno Stato più popolare, cioè basato più largamente sul consenso popolare, verso uno Stato che assicuri maggiore giustizia, e, sulla base di questa, maggiore libertà, è tuttora come un germe vivo che fermenta la storia di questo dopoguerra e di questo momento politico in modo particolare.

Ebbene, è al patrimonio spirituale che fa la grandezza e la verità della Resistenza, è all’aspirazione etico politica di uno Stato sostanzialmente democratico e popolare che la D.C. deve consapevolmente ricollegarsi come a punto di partenza, a dato preliminare, a scelta di fondo, nella edificazione di una nuova società.

La condizione preliminare: il primato della lealtà

Il partito è oggi qui riunito per il suo XIII Congresso: con quest’atto solenne il mandato affidatomi il 13 luglio è stato assolto, l’impegno di portare il Partito al Congresso nel severo rispetto delle norme democratiche e nel libero confronto delle idee e delle forze, è stato mantenuto.

Ma se ciò è stato possibile, lo si deve anche alla collaborazione di tutti gli amici, dal Presidente prof. Boni, agli amici dell’Esecutivo provinciale, dai membri del Comitato Provinciale uscente al personale degli uffici del Partito, e in primo luogo, grazie al lavoro sodo, difficile, paziente svolto dai segretari di zona e di sezione. Un ringraziamento debbo pure a quanti liberamente e con rude franchezza hanno sviluppato dalle colonne de Il Cittadino e in incontri di gruppo la ricca e complessa problematica relativa al rinnovamento del Partito in provincia e alle prospettive politiche in campo nazionale.

Nell’assolvere il compito affidatomi non sono mancati motivi di preoccupazione e di amarezza per alcuni aspetti deleteri emersi qua e là. Ma bisogna guardare ben oltre le scorie e i residui negativi, e perciò di nessun valore, di un moto che, in realtà, nel suo complesso è, invece, altamente positivo. La realtà positiva sta nel fatto che il Partito è tornato a muoversi: un senso di attesa ha ridato slancio alle sezioni; gli iscritti han fatto sentire la loro voce; i problemi più urgenti della Provincia sono stati posti sul tappeto; i temi della politica nazionale sono stati dibattuti in termine di crescente razionalità e concretezza. Il mio augurio è che quello stile, vivace e responsabile ad un tempo, che ha quasi dappertutto dato il tono alle assemblee sezionali e agli incontri interzonali di Montichiari, Breno, Manerbio, Rovato, Gardone V.T., Vestone, segni di sé anche il presente dibattito congressuale.

Per la prima volta il nostro Congresso Provinciale non coincide con quello per la nomina dei delegati al Congresso Nazionale.

È quindi giusto discutere con ampiezza sulle più razionali e democratiche forme di gestione del Partito e sul rinnovamento delle strutture organizzative; ma sarebbe stoltezza e ipocrisia dimenticare che la premessa logica del discorso sul Partito riguarda l’orientamento politico e la volontà politica della D.C. in intima connessione alla coscienza che la D.C. ha della ideologia politica e dei problemi del Paese.

Un discorso serio sul Partito implica, pertanto,

  1. un preliminare sforzo di apprendimento dell’ideologia dei democratici cristiani;
  2. un esame del presente momento politico e della soluzione da prospettare ai problemi del Paese;
  3. un piano di concreto rinnovamento del Partito nella provincia.

A questi tre problemi fra loro interdipendenti, intendo dare, in un limite di tempo sufficientemente breve, una risposta chiara, per non alimentare alcun equivoco e perché il primo dovere d’un amico che parla ad amici è la trasparenza del proprio pensiero, è il primato della schiettezza su quello della furbizia e del calcolo, il primato della lealtà tanto più necessario in un mondo in cui si accresce di continuo il numero di coloro che ha fatto della loro testa una specie di luogo geometrico di opinioni contrarie.

In discussioni private, in articoli e saggi, nei comizi durante le campagne elettorali spesso ci sentiamo accusare da opposte parti di non avere una nostra visione politica, una nostra ideologia originale come movimento politico per cui la partita si giocherebbe tra il liberalismo e il socialismo delle molte anime, unici interlocutori e protagonisti effettivi della realtà politica italiana.

L’accusa è tendenziosa ed è riprovevole semplicismo. Ma forse non tornerebbe con tanta insistenza polemica se il partito riproponesse di continuo ai suoi militanti, ai suoi avversari e all’opinione pubblica, quasi a norma delle sue scelte operative, le ragioni della sua presenza nel Paese, le sue direttrici basilari, i suoi connotati originari validi e quelli validamente acquisiti attraverso l’elaborazione critica di una esperienza storica veramente eccezionale.

L’autonomia politica del Partito e la sua autentica ispirazione cristiana

La premessa della nostra esistenza del partito democratico di ispirazione cristiana fu nella scelta operata da Strurzo nel 1919, la scelta della autonomia politica dei cattolici, impegnati nell’attività politica: autonomia che va gelosamente difesa contro ogni tentazione integralistica così come contro ogni radicalismo.

L’integralismo confonde, il radicalismo separa ciò che invece va solo distinto; l’uno e l’altro sono pericoli gravissimi che falsano e deformano un’autentica animazione cristiana della vita politica.

Integralismo e radicalismo sono opposti, ma sono accumunati nell’errore: l’uno e l’altro danneggiano la Chiesa, affliggono la D.C., ammorbano l’atmosfera politica, rendono assai più difficile il superamento dello storico steccato “guelfi-ghibellini”, “clericali-anticlericali”, superamento che fu la passione e la missione storica di Alcide De Gasperi, il suo più alto testamento spirituale.

L’integralismo confonde piani, finalità, metodi, sfere di attività e di competenza che vanno distinte e trascina l’onore e la dignità delle cose più care e più alte nella opinabilità dei contrasti politici a cui è inevitabilmente connesso un largo margine di errore; addossa direttamente o indirettamente alla Chiesa responsabilità che invece debbono pesare sulle nostre spalle di laici responsabili. L’integralismo non comprende che la fede che tutti ci accumuna non può essere, non può diventare motivo di giustificazione politica di una corrente piuttosto che di un’altra.

L’integralista crede si di servire la Chiesa con più zelo degli altri, ma al di là delle buone intenzioni soggettive la impoverisce, la strumentalizza, ne compromette la presenza e il progresso sul piano religioso, mette in opera una vera e propria «materializzazione politica delle energie religiose» secondo l’incisiva espressione di Jacques Maritain. De Gasperi nel suo ultimo grande discorso, a Napoli, su questo problema di fondo fu di un’estrema chiarezza: «Nessun dubbio che nella sfera che è della Chiesa la nostra adesione è piena, sincera. Tale sentimento si estende anche alle direttive morali e sociali, contenute nei documenti pontefici, che quasi quotidianamente hanno alimentato e formato la nostra vocazione alla vita politica. Ma è anche vero che per operare nel campo sociale e politico non basta né la fede né la virtù; conviene creare ed alimentare uno strumento adatto ai tempi, il partito, cioè una organizzazione politica che abbia un programma, un metodo proprio, una responsabilità autonoma, una fattura e una gestione democratica. Non è possibile operare in regime democratico nel secolo XX con il paternalismo di Bossuet. Soprattutto non è possibile ottenere dei risultati senza una disciplina volontaria, ma sincera. La democrazia cristiana è un partito che ha il suo statuto, le sue regole, i suoi organi deliberativi ed esecutivi. Quando uno vi entra sa gli obblighi che si assume. Noi non gli diciamo: sei cattolico, quindi democratico cristiano. Diciamo: se sei democratico cristiano abbiamo il diritto di ritenere che tu sei un cattolico che sente il dovere di esercitare una funzione pubblica, quale gli interessi del Paese e la stessa difesa che le tue convinzioni esigono dalla tua coscienza. Non ci sono alibi né paraventi: c’è una distinzione necessaria di funzioni, e di doveri, ma le funzioni diverse non si escludono né contrastano, purché la coscienza cristiana sia retta, e l’animo aperto alla realtà ed alle esigenze della vita».

Se negli anni scorsi l’integralismo fu la minaccia più grave dell’autonomia del Partito, oggi il pericolo maggiore sta nell’errore opposto, nel radicalismo.

A chi è affetto di radicalismo sfugge che l’autonomia del Partito non è, e non deve essere mai indifferenza alla matrice religiosa del nostro impegno politico, della nostra vita. Chi considera il cristianesimo come una formula vuota che va riempita solo con l’azione politica; chi riduce la politica a mera prassi, più o meno razionalizzata, a idolatria del contingente; chi non collega l’azione politica al senso cristiano della dignità dell’uomo; chi liquida troppo a buon mercato essenziali rivendicazioni della coscienza cristiana quali l’unità della vita familiare e il problema della libertà di dare ai nostri figli un’educazione cristiana, nella scuola statale e in quella che l’amico De Zan chiama, nel suo intervento alla Camera, la “scuola pubblica non statale”, ebbene costui crederà di essere un democratico cristiano, ma è un radicale – di fatto e di diritto – e potrà rimare nella D.C. solo a patto che superi la dissociazione interiore in cui lo ha gettato una certa mentalità.

Chi relega i valori religiosi nella penombra dei tempio, e guarda con sospetto ogni forma di dilatazione della presenza cattolica nella società italiana, travisando sistematicamente le finalità che animano le opere cattoliche di apostolato, di cultura, di educazione e di assistenza; chi assume atteggiamenti di fastidiosa sufficienza e di indiscriminata denigrazione verso coloro che lavorano e soffrono al proprio fianco, preoccupato solo del facile plauso di ambienti esterni e avversi; chi confonde la decisione con la violenza, l’intelligenza con l’astuzia, lo slancio ardente con l’impazienza ribelle, nuoce al Partito, soprattutto in un momento come questo in cui l’incontro con forze politiche democratiche orientate in senso marxista esige la più netta coscienza di ciò che siamo, di quello che rappresentiamo, del tipo di società che vogliamo costruire.

La presenza dei cattolici sulla scena politica si giustifica a patto che i protagonisti non si adattino ad un cattolicesimo formale, ma rendano il cattolicismo più coerente alla sua origine evangelica.

Alfredo Oriani scriveva che il moto dei cattolici nella vita politica sarà religioso o non sarà. E aggiungeva: «O i democristiani aggiungeranno alla democrazia socialista tutto quanto le manca fatalmente, la carità vera nella fratellanza soltanto formale, il sentimento del divino nel dramma umano, l’autonomia suprema dell’anima che può solo redimere sé stessa, e la necessità di spiritualizzare più tragicamente e delicatamente la vita, o dilegueranno senza traccia come tutte le forme vuote. I democristiani non possono uscire dallo spirito del Vangelo e della grande tradizione cattolica: l’uno e l’altro consentono moderni adattamenti ideali».

Dobbiamo fare le Regioni

Il secondo caposaldo tipico della nostra ideologia è il riconoscimento dei corpi intermedi tra il cittadino e lo Stato, il potenziamento degli enti territoriali minori, delle autonomie locali, dell’auto-governo che trova nella riforma regionale il suo punto di focalizzazione. Il programma delle autonomie locali, che è una delle visioni più nitide della dottrina sociale cristiana, risalta in tutta evidenza sin dal famoso discorso tenuto da Don Sturzo a Caltanisetta nel 1902 e trova espressione più pregnante nella relazione del 23 ottobre 1921 del Segretario del Partito Popolare al III Congresso Nazionale, tenuto a Venezia, relazione che aveva per tema «il decentramento amministrativo, le autonomie locali e la costituzione della Regione».

Il principio proprio della dottrina sociale cristiana enunciato sotto il nome di «sussidiarietà dello Stato», afferma che ogni persona deve essere logicamente integrata dai diversi gruppi sociali in quelle attività ch’egli non può efficacemente svolgere con le sole sue forze; ma tale integrazione deve avvenire con criterio di progressiva gradualità, procedendo dai gruppi più vicini e ristretti fino a quelli più larghi e comprensivi, e giungendo allo Stato attraverso il Comune, la Provincia, la Regione.

Contro lo statalismo accentratore ereditato dai liberali e dai fascisti, noi dobbiamo costruire lo Stato democratico che si articola nella pluralità degli enti politici cui l’individuo può e deve appartenere perché la sua libertà abbia concrete dimensioni.

Dobbiamo, dunque, fare le Regioni e non continuare ad ignorare un problema già risolto in tutti gli Stati moderni più progrediti. Ma dobbiamo farle bene e dobbiamo saperle rendere popolari presso l’opinione pubblica: ciò che non sarà possibile finché appariremo noi stessi su questo punto poco chiari, divisi, scarsamente convinti e costretti da altri a compiere quel passo.

Non v’è dubbio che un regime democratico vive a livello comunale, provinciale e regionale e non solo a livello parlamentare e statale. Che la democrazia sia direttamente proporzionale alla maggiore partecipazione possibile dei cittadini alla formazione delle decisioni di interesse pubblico è un assioma del credo democratico, ma questo ragionamento pienamente valido in linea teorica ha pure una solida conferma empirica. Infatti «gli Stati che fanno più largo ricorso all’autogoverno locale e all’elezione popolare di larghe schiere di dirigenti politici, come la Svizzera, la Germania e l’Inghilterra, sono anche gli Stati in cui la compattezza nazionale, la contribuzione finanziaria alle spese pubbliche, la solidarietà dei cittadini con le loro istituzioni, sono decisamente all’avanguardia» (F. Demarchi, Attualità e originalità delle regioni, in «Humanitas» 1963, nn. 9-10, p. 862).

D’altra parte, l’efficienza amministrativa è direttamente proporzionale alla massa su cui si esercita un controllo: in Germania vi è un Comune su ogni 1800 abitanti, da noi un Comune su 6200 abitanti.

Sotto questo profilo l’ordinamento italiano è assolutamente arretrato ed è troppo diverso da quello degli altri Paesi europei per poter sperare di resistere a lungo nel processo di razionale integrazione delle strutture amministrative nel quadro di un Europa unita.

Il regime democratico è nemico della uniformità.

Posto il principio che il cittadino è libero di spostare la propria residenza dovunque vuole, nell’ambito della Repubblica, ne consegue che gli ordinamenti debbano adattarsi alle correnti migratorie, residenziali e occupazionali dei cittadini. Ciò significa che non si possono prevedere uniformi strutture amministrative per una metropoli che si ingrossa a vista e per un paesotto di montagna che si va spopolando. L’uniformità delle strutture amministrative è un criterio organizzativo valido per regimi centralistici, ma è inadatto per regimi pluralistici.

La pesante lentezza della burocrazia dà luogo nel nostro paese ad un universale lamento. Ma sfugge ai più la causa vera del male: il sistema dello Stato accentratore.

Chi, oggi può sostenere che lo Stato centralizzatore sia in grado di orientare lo sviluppo economico e la spinta del progresso in atto nel Paese?

Ci sono validi motivi che consigliano l’istituzione della Regione anche come centro coordinatore dell’attività economica, ma la Regione è un cardine dell’ordinamento pubblico che va concretato non solo perché serve alla produzione, ma in primo luogo perché serve alla libertà dei cittadini e alla sburocratizzazione dello Stato.

Dobbiamo avere il coraggio di uscire dal binario morto in cui da quindici anni abbiamo accantonato la questione – mentre le disfunzioni scandalose dello Stato centralista sono diventate ogni giorno più insopportabili ad ogni onesto cittadino. Ormai siamo al punto in cui o le Regioni si fanno o si cancellano dalla Costituzione.

Senza dubbio l’estrema sinistra farà sentire il suo peso in due o tre regioni su diciannove; ma questo fatto è già preesistente all’istituzione della Regione e non viene certo creato da essa.

È inutile dire poi che tutto ciò che riguarda l’ordine pubblico e la difesa della libertà dovrà rimanere saldamente in mano allo Stato.

Ogni democrazia, pena il fallimento, deve sapersi liberare da certe finzioni e osservare la legge che si è data o mutarla.

Non si può stare seduti contemporaneamente su due poltrone; non si può assistere insieme all’inefficienza del centralismo burocratico e opporgli solo sulla carta l’istituzione delle Regioni

La politica di centro-sinistra è una scelta democratica

Terza connotazione essenziale del nostro credo politico è la instaurazione dello Stato di diritto nel consolidamento degli istituti della libertà attraverso l’alleanza con altre forze politiche democratiche, di diversa ispirazione, di differenti ideologie. Questa alleanza è resa possibile e operante grazie appunto al superamento dello storico steccato guelfo-ghibellino, clericale-anticlericale che per troppo tempo avvelenò la lotta politica in Italia.

É in questo spirito che si realizzò, sul terreno dell’impegno democratico e di alcuni contenuti programmatici, il centrismo quadripartito tra il ’48 e il ’53; è in questo spirito che, esaurita inesorabilmente quella formula negli anni che vanno dal ’53 al ’60, si è avviato il dialogo, difficile ma necessario fra il P.S.I. e le forze della sinistra laica.

A una situazione nuova la D.C. ha cercato di dare una risposta nuova, in spirito di creativa fedeltà ai suoi postulati etici e politici. Ieri, contro il frontismo a guida comunista e il fascismo, per costruire il Paese distrutto De Gasperi cercò un’alleanza tra democratici cattolici e democratici laici, e l’alleanza costituì un fatto storico di portata innovatrice.

Oggi, contro la dilatazione del comunismo e la sfida della destra conservatrice, per dare soluzioni efficaci ai massimi problemi italiani, Moro cerca un’alleanza tra D.C., P.R.I., P.S.D.I. e P.S.I., allargando alla sinistra democratica l’area della libertà e della responsabilità nella direzione politica del Paese.

Oggi come ieri la D.C. cerca di attuare quella che De Gasperi definiva “una politica umanistica”, una politica cioè di collaborazione con uomini e correnti d’altra ispirazione nell’interesse della libertà, per allargare la partecipazione diretta delle classi lavoratrici allo Stato democratico che deve essere finalmente sentito come opera e costruzione di tutti, senza le angustie classiste di marca borghese o di tipo proletario.

Altri avranno tempo e modo di illustrare le ragioni, le prospettive e i contenuti programmatici di quella politica che noi chiamiamo di centro-sinistra e che, se in queste settimane sarà definita con chiarezza inequivocabile, segnerà di sé un lungo periodo della storia del nostro Paese.

A me qui basta ricordare che il nuovo indirizzo politico e di governo che si vuol varare è, sì, una novità, ma una novità che non ha soluzioni di continuità con una concezione ed una metodologia altamente democratiche che il nostro Partito fece proprie con Alcide De Gasperi e che sono per noi ormai un acquisto fatto per sempre.

Certo, non basta dire sì o dire no ad una politica per definirla. Pertanto, l’adesione o il ripudio del centro-sinistra deve avvenire con precise motivazioni e non sulla base di slogans di dubbio gusto pubblicitario. E al punto in cui siamo un discorso critico sul centro-sinistra esige un giudizio sereno sul documento approvato dal recente Congresso socialista. L’impegno del P.S.I. va giudicato, infatti non certo da certe posizioni particolari ma dalla mozione conclusiva: non altrimenti da come fecero tutti gli altri partiti nei confronti della D.C. dopo il Congresso di Napoli, il cui documento finale determina la linea del Partito.

L’assise socialista ha visto Nenni impegnato a ricondurre il suo partito verso una coscienza moderna e realistica dei problemi dell’Italia e la mozione autonomistica approvata contiene molte decisioni positive, anche se permane qualche ombra, di cui è bene circoscrivere l’effettiva portata.

a) Il primo elemento che balza alla nostra considerazione – e di cui la destra e il comunismo cercano di sminuire ognora l’importanza, il valore, l’impegno che esso comporta – è costituito dal fatto che i socialisti, dopo settant’anni di opposizione, interrotti soltanto dalla breve parentesi ciellenistica, sono pronti ad assumersi la responsabilità di una partecipazione diretta al potere, accettando la collaborazione con forze della democrazia cristiana e della democrazia laica.

Ciò significa la rottura con il massimalismo e la scelta della democrazia politica come «patrimonio della classe lavoratrice, strumento della sua emancipazione, indispensabile mezzo dell’esercizio del potere e del suo pubblico controllo», secondo le testuali espressioni della mozione autonomista.

Ed è certo significativo, amici, che il socialismo sia giunto a questo traguardo avendo come suo principale pungolatore e interlocutore il nostro grande partito, finalmente riconosciuto per quello che esso è: forza veramente popolare e democratica, permeata da profonde e vaste istanze innovatrici.

b) Né meno importante è il passo del documento socialista che riguarda il ripudio del frontismo e dell’alleanza politica col P.C.I. Dice, infatti, la mozione socialista: «Permane l’impossibilità, già constatata del Partito nei suoi precedenti Congressi, di un lotta comune per il potere insieme con i comunisti, giacché questi, pur nel fermento delle esperienze nuove del movimento operaio e nel fermento di situazioni nuove del movimento, non hanno ancora risolto i problemi del rapporto fra socialismo libertà e democrazia, tanto sul piano ideologico quanto nella struttura e nella vita del Partito e dello Stato e nell’esercizio del potere; come non hanno ancora risolto il problema dell’effettiva autonomia in politica internazionale».

Occorre coraggio per battere il P.C.I.

Noi tutti siamo in grado di comprendere che cosa significhi questa decisione per un partito come il P.S.I.: perché se per noi essere all’opposizione del comunismo è una scelta morale prima che politica, per il socialismo italiano quest’atto politico significa attuare il distacco da una delle sue stesse radici ideologiche. E questa decisione i socialisti la prendono in un momento in cui hanno alle spalle un partito comunista forte di otto milioni di voti, pronto a non perdonargli la minima debolezza e a rinfacciargli tutto ciò che non riusciranno a fare.

Alle prossime trattative sul centro-sinistra noi chiediamo alla D.C. di muoversi con perfetta autonomia, con chiara volontà politica, con piena consapevolezza dei suoi doveri, in uno schieramento unitario intorno all’ on. Moro, che è il Segretario politico di tutto il Partito e non di una o due correnti di esso.

La sfida lanciata dalla D.C. al comunismo richiede, oltre che lungimiranza, coraggio. Senza coraggio non si batte un partito abile, spregiudicato come il P.C.I.: senza coraggio non si sbocca una situazione come quella in cui si dibatte il Partito socialista.

Lo so, non mancano anche nel nostro partito i portavoce dell’ottimismo dozzinale, i Don Ferrante di manzoniana memoria, coloro che negano le tremende difficoltà e i gravi problemi irrisolti che pure ci attanagliano. Sono problemi difficili e indilazionabili quelli che ci vengono imposti dalla crisi endemica dell’agricoltura, della speculazione edilizia, della inefficienza della burocrazia che costa cento e produce uno, dell’evasione fiscale, dell’assenza di controllo pubblico effettivo sulla spesa pubblica, del caotico funzionamento dei servizi di assistenza e di previdenza sociale, dell’insopportabile sistema distributivo che mentre affama i contadini permette ad altri guadagni assurdi. Sono problemi annosi e urgenti a un tempo quelli della strutturale incapacità delle attrezzature sanitarie e scolastiche, dell’urbanesimo suburbano di masse ex-contadine, delle pensioni che umiliano chi le percepisce dopo un’intera esistenza di dura fatica, degli squilibri sempre crescenti di un’economia essenzialmente dualistica. I problemi del Paese attendono: rinviare la soluzione significa comprometterla.

Chi vuol vivere nel nostro tempo non per subirlo, ma per guidarlo, deve prendere coscienza dello spirito di revisione da cui l’ambiente italiano è spronato a dare un assetto più libero e più giusto al Paese. I problemi del Paese attendono: facciamo presto e bene; alle prossime elezioni sarebbe troppo tardi. Se sciupiamo questa legislatura, mettiamo in gioco l’avvenire della democrazia in Italia.

A quegli amici che guardano al passato come al paradigma dell’avvenire, noi ricordiamo che l’orologio fermo non ferma il tempo, perché la storia cammina, le realtà sociologiche cambiano con estrema rapidità e gli ordinamenti, quand’anche fossero elaborati con competenza e lungimiranza, devono essere di continuo adattati alla mutevole complessità dei problemi e al grado do maturità storica raggiunto dai popoli. Lo ha detto assai bene Moro a chiusura del terzo Convegno di S. Pellegrino: «È una pericolosa illusione quella di chi vede la garanzia delle istituzioni in una D.C. addormentata, rivolta al passato, invece che aperta alle nuove esigenze. Un siffatto partito preparerebbe il Paese al più amaro risveglio».

Per battere il P.C.I. non basta la contropropaganda, né bastano le sole riforme sociali. Si tratta di promuovere, di costruire una società effettivamente democratica che dia il gusto, l’orgoglio della libertà, una società che arresti il comunismo attraverso un confronto di civiltà.

Di qui il “tipo” della nostra opposizione del comunismo.

La nostra lotta si svolge sul terreno della democrazia e non ha nulla a che fare col metodo di eliminazione di qualsiasi altra opposizione che il Comunismo di ogni confessione, mette in atto là dove governa, né con i tribunali speciali e le garritte dei vari fascismi.

L’on. Moro ha detto all’ultimo Convegno di San Pellegrino: «O si accetta la logica della difesa dal comunismo con la rottura del gioco democratico o si accetta la sfida al comunismo, il confronto delle posizioni, una intensa e difficile battaglia democratica nella quale fare ricorso a tutte le risorse morali e insieme ad una enorme capacità costruttiva di un ordinamento sociale veramente umano. Noi rifiutiamo la prima alternativa che è quella del fascismo ed accettiamo la seconda che è la più difficile prova che una democrazia debba affrontare».

Questa fu costantemente la posizione di De Gasperi e ad essa la Democrazia Cristiana considera titolo d’onore rimanere fedele.

È tempo di richiamare a noi stessi e agli italiani il tipo di società nuova più libera, più giusta che ci proponiamo di costruire nella presente evoluzione storica del Paese, se vogliamo ridestare non dico l’entusiasmo, ma la fiducia intorno al nostro Partito.

La nostra netta contrapposizione ideologica e metodologica al partito comunista è senza alcuna concessione o attenuazione, avviene sul terreno della democrazia e del libero confronto.

Il centro-sinistra comporta la effettiva, crescente partecipazione alla vita dello Stato democratico delle masse lavoratrici, ma non può assolutamente essere piegato a strumento del tatticismo comunista perché noi siamo per la crescita civile, politica e cristiana del nostro popolo non per una nuova barbarie totalitaria. Pe questo diciamo a chiare lettere: vogliamo una politica risolutamente democratica e popolare, e non un “fronte popolare” perché né il comunismo né il conservatorismo ci attireranno mai nella loro orbita; la nostra politica è inseparabilmente anticomunista e anticonservatrice.

Per chi crede nella libertà e nel regime democratico come in una forza che si palesa sempre più liberatrice e capace di continue correzioni e integrazioni, per chi la difesa del metodo democratico e della pluralità dei partiti è la condizione di ogni sviluppo progressivo ed è la frontiera che va difesa ad ogni costo, il totalitarismo comunista è l’ipotesi proibita.

Oggi, dopo il fascismo e il nazismo e i lori meschini residui, il comunismo è la più grande minaccia totalitaria incombente sul mondo. Dinanzi questo pericolo, chi si pasce di illusioni ottimistiche e chi si attarda in soluzioni ormai superate, divenute logori ed inefficienti, lo favorisce. Il “no” da opporre al comunismo non lascia esitazioni in noi. Il materialismo intollerante e fanatico che è al fondo della dottrina comunista, il freddo diniego di ogni trascendenza, la meditata volontà di togliere all’uomo Dio e la speranza cristiana sono ferite così gravi recate all’umanità, che ogni altro eventuale beneficio ne resta annullato.

Non c’è difesa che possa cancellare tutto il sangue versato dal comunismo dovunque si è assiso sovrano, che possa far dimenticare i suoi ergastoli, i processi con le autoconfessioni degli accusati, di tutto un sistema di oppressione disumana, per cui l’opinabile pare scomparso dal mondo comunista e l’uomo “sovietico” ha la prerogativa angelica d’ignorare il dubbio, poiché per conoscere le verità gli basta specchiarsi nella «Pravda».

GLI OBIETTIV DA RAGGIUNGERE PER IL POTENZIAMENTO DEL PARTITO

La D.C., dicevamo poc’anzi, deve richiamare a se stessa e agli italiani il tipo di società che si propone di costruire, e richiamarlo in termini di certezza storica, ossia in rapporto alla presente situazione del Paese e alle forze politiche oggi disposte a percorrere un cammino comune, non certo facile, ma necessario alla crescita democratica della società italiana, forze che, dal Congresso di Napoli all’ultimo consiglio nazionale, la quasi totalità della D.C. ha individuate in quella della sinistra democratica e del socialismo.

Ma per assolvere il compito di rinnovamento civile del Paese nel modo più proficuo, la D.C. deve tornare a funzionare come Partito.

Qui, amici, si impone un onesto discorso sul Partito e sui criteri di gestione a cui deve rigorosamente ispirarsi la maggioranza che uscirà vittoriosa al prossimo Congresso.

Il problema del Partito in campo nazionale e provinciale si affaccia oggi in termini di particolare gravità e urgenza: non può infatti, la D.C. impegnarsi senza rischio in una politica di centro-sinistra se di quella politica il partito non diviene il sostegno reale e la forza propulsiva.

Il rilancio di una politica così impegnativa come quella di centro-sinistra richiede un vigoroso rilancio del nostro Partito.

Negli ultimi anni la vicenda politica è stata così intensa, impegnativa, delicata che i problemi della linea politica e i contrasti di indirizzo hanno finito per assorbire quasi tutto il nostro impegno e poca attenzione è stata dedicata al Partito. E trascurando il Partito abbiamo indebolito la linea politica che volevamo portare avanti.

Perché quando si deve fare una politica di rinnovamento, che urta contro interessi, pregiudizi, pigrizie e luoghi comuni di ogni genere, contro avversari potentemente organizzati, su chi, su che cosa, si deve fondare l’azione se non sul Partito? Sulla sua organizzazione articolata e capillare, sulla sua capacità di educazione e di orientamento, sulla sua funzione di guida rispetto all’elettorato.

Bisogna dunque rafforzare il Partito e mobilitarlo, metterlo al passo con i tempi.

La discussione e il confronto di idee non debbono esaurire l’impegno del partito, ne debbono costruire la premessa. Oggi troppe energie si esauriscono nel dibattito e nel chiarimento delle posizioni all’interno del partito: le correnti diventano troppo spesso elemento di contraddizione e di paralisi, quando invece dovrebbero sempre risolvere il loro impegno in atti conclusivi di rafforzamento e di propulsione del partito verso l’esterno, verso gli elettori, contro gli avversari a sostegno, a stimolo (a rettifica se necessario) delle responsabilità di direzione politica nella vita della Stato e della Provincia.

Per il rinnovamento democratico del partito nella nostra provincia, che cosa è dunque possibile fare?

Un coraggioso piano strategico di rinnovamento fissa gli obiettivi e cerca di raggiungerli. Quali sono gli obiettivi minimi dal cui raggiungimento potrà dipendere la maggiore efficienza del partito?

Le sezioni debbono tornare a vivere

IL PRIMO OBIETTIVO è la ripresa della vita democratica nelle Sezioni. L’attività della Sezione ha il compito fondamentale di dare una formazione politica agli aderenti e di trarre dal loro seno le élites popolari. Se la Sezione non funziona, il Partito è assente e l’assenza del Partito da un determinato ambiente prepara il graduale meritato declino.

La riscossa democratica di cui si è parlato dopo il 28 aprile non ci sarà se il partito non tornerà a vivere nelle sue Sezioni, se il lavoro non sarà ripreso senza eccessive intermittenze, senza ristagni troppo prolungati.

Il rinnovo democratico degli incarichi deve essere rispettato secondo le scadenze statutarie nel modo più rigoroso, se non vogliamo lasciar formare incrostazioni e apparati sempre più lontani dalla realtà sociale in movimento che la Sezione dovrebbe saper riflettere e interpretare.

Di fronte all’aumento costante del Partito comunista, di fronte alla pressione socialdemocratica sul nostro elettorato, di fronte al nuovo capillare, irruente attivismo liberale diventa ragione di vita o inizio di agonia per la D.C. disporre di una continua presenza fra i suoi militanti, tra i suoi elettori, con l’opinione pubblica

Si otterrebbe già un notevole risultato se coloro che saranno eletti nel Comitato provinciale si impegnassero fin d’ora col Partito tutti, senza eccezione, ad essere disponibili due o tre sere al mese per portare nelle Sezioni il dibattito sui grandi temi della nostra ideologia politica e dell’attività governativa in cui la D.C. sarà tra poche settimane impegnata assai duramente.

Oggi è diffusa fra i ceti medi soprattutto la tendenza a rifuggire dalla vita di Sezione per la molteplicità degli impegni che affaticano la giornata di ciascuno e per altre ragioni che non voglio qui analizzare. L’assenteismo impera su vasta scala. Bisogna tener conto di questa realtà invece di imprecare e di figurarsi l’impossibile, occorrerà studiare forme nuove di presenza e di collegamento diretto e indiretto del Partito con gli iscritti, con i simpatizzanti, con l’opinione pubblica.

Di qui la necessità di non rinunciare al manifesto murale ben fatto e di diffondere con nuovo impegno la stampa del Partito – e in primo luogo il nostro settimanale politico – fra tutti gli iscritti, negli organismi collaterali, nei luoghi di incontro. Mi sembra che non si sia ancora considerata la posizione di rilievo che tengono i locali pubblici nell’influenzare le opinioni politiche dei piccoli centri.

Il posto più propizio per la propaganda politica è oggi, probabilmente, il bar dove ci si riposa, ci si incontra in parecchi e si discute liberamente Sarà bene non dimenticare che il caffè o il circolo tendono ad essere l’agorà delle democrazie moderne.

Non vogliamo amministrazioni a dirigenza liberal-qualunquista

IL SECONDO OBIETTIVO di un rinnovamento del Partito sta nel costruire un rapporto di rispettosa solidarietà tra la Sezione e il Comune. Il segretario di Sezione è ponte permanente tra la Sezione e gli amministratori e cura particolari rapporti col capogruppo consiliare, con il sindaco, con il consigliere provinciale della zona.

Il Partito ringrazia gli amministratori D.C. o amici della D.C. che si sono posti al servizio della loro comunità e che fondono il loro prestigio e quello del Partito che rappresentano sulla stima che han saputo meritarsi per competenza e per dignitosa indipendenza da qualsiasi pressione di interessi di parte.

Ai dirigenti sezionali il partito rivolge l’invito a valorizzare nelle amministrazioni e nelle varie commissioni le persone migliori e politicamente idonee che l’ambiente offre, superando la tentazione della chiusura e del ghetto.

Questo è un atteggiamento positivo della D.C. bresciana su cui non è lecito nutrire dubbi, ma indubbio altresì deve essere per tutti che la D.C. bresciana non sarà più in nessun caso il mantello che ricopre le nudità di certe amministrazioni di nome democristiane, di fatto a dirigenza liberal-qualunquista.

Meglio correre il rischio di perdere provvisoriamente qualche comune, che alimentare equivoci e situazioni di disagio, che indeboliscono il Partito moralmente e politicamente e perpetuano nei nostri militanti ed elettori un complesso di inferiorità che deve cessare.

Il problema dei quadri è il problema dei giovani

IL TERZO OBIETTIVO a cui si deve tendere con tutta l’anima è la formazione della classe dirigente del domani. Le forze vive che rappresentano potenzialmente la classe dirigente del domani devono essere sistematicamente individuate e segnalate ad un apposito ufficio-quadri che dovrebbe sorgere presso la Segreteria provinciale. Il problema dei quadri è quello dei giovani e chi non ama i giovani, non serve il partito nel modo migliore, perché non ne prepara l’avvenire.

I giovani capaci e moralmente degni devono essere valorizzati, avviati a ricerche, studi, corsi di formazione e immessi gradualmente in posti di responsabilità politiche ed amministrative.

Dobbiamo tutti sentire l’assillo di trovare nuove forze, di abbattere incrostazioni, di fare credito nel Partito a chi ha idee e volontà per realizzarle.

Il Partito ha bisogno di una ininterrotta circolazione di uomini e di idee e il dirigente politico che ha senso democratico amplia sempre più le possibilità di collaborazione e ha occhio costantemente rivolto alla maturazione umana e politica di coloro che raccoglieranno dalle sue mani la fiaccola degli ideali e il peso delle responsabilità.

Ai giovani mi sia permesso di rivolgere da qui un saluto particolare accompagnato dall’invito a ricercare innanzitutto le ragioni profonde e le radici umane e cristiane della loro concezione politica.

L’acqua, giovani amici, è più pura alle sorgenti. Per questo vi esorto a non lasciarvi attrarre dal vuoto della facilità retorica e dal luccicare delle etichette di correnti. Preferite lo studio all’attivismo spicciolo, non lasciatevi trascinare nel terreno del tatticismo e dei deteriori personalismi, impegnatevi a conoscere la storia nazionale e quella bresciana del movimento dei cattolici democratici. Voi non potete immaginare quale forza vi verrà dal meditare le opere sturziane della maturità, quale arricchimento trarrete dalle opere di un Mounier, di un Maritain, di un Romano Guardini. Il Partito verrà incontro alle esigenze della vostra formazione umana, della vostra crescita culturale e politica perché con voi, cari giovani, sta già in mezzo a noi l’avvenire!

Per la crescita culturale del Partito

IL QUARTO OBIETTIVO di un concreto rinnovamento del Partito riguarda il rapporto di onesta chiarezza con il mondo cattolico, con gli organismi culturali e con tutti quegli amici capaci di dare un contributo alla crescita culturale del Partito.

Per quanto concerne il mondo cattolico in generale e l’Azione Cattolica in particolare è evidente che l’autonomia del Partito, se esclude per un verso interferenze a livello di scelte politiche, per un altro esige la più cordiale collaborazione nella verifica dei valori da accettarsi e da difendersi insieme anche se con metodi diversi e da posizioni diverse.

Gli incontri diretti tra i responsabili autorizzati devono essere assai più frequenti che per il passato affinché si stabilisca finalmente un dialogo corretto e costruttivo con quelle forze accomunate a noi nella fede e nella difesa dei valori cristiani della società: valori che noi democratici cristiani accettiamo per le nostre personali convinzioni e per la loro fecondità etica e sociale, perché, malgrado tutto, «il sentimento religioso costituisce ancora in Italia l’elemento più forte e più fecondo della solidarietà, tanto è vero che, anche nella polemica, ogni parte tenta di richiamarsi alla comune legge del Cristianesimo, al concetto della fraternità degli uomini, alla paternità di Dio, concetti che operano nelle coscienze e nelle menti nel senso della solidarietà umana e della giustizia sociale».

Questo sentimento è come un ponte gettato sui gruppi di interessi, un ponte spirituale, umano e nazionale, su cui il popolo, ancora in maggioranza, passa sperando in un mondo più giusto.

Rapporti di amicizia e di colleganza nella chiara distinzione di responsabilità si devono instaurare con le associazioni collaterali, dalla Coltivatori diretti alle Acli, agli altri organismi che non accettano qualificazioni ideologiche, ma che sono utili e necessari ad uno sviluppo democratico della nostra società.

E tuttavia è ben chiaro che la distinzione vale per gli organismi e non per le persone che hanno la duplice veste di dirigenti di quelle organizzazioni e di democratici cristiani. Quando agiscono sul terreno politico non sono portatori di fratture corporative e di interessi settoriali, ma sono soggetti all’autorità e alla disciplina del partito.

Decisivo è poi il tema indilazionabile crescita culturale del Partito: tema al quale sono particolarmente sensibile, non per fisime professionali, ma perché credo nel valore della cultura e perché per influire efficacemente sulla vita sociale del Paese non basta creare proprie scuole ed istituti, né basta organizzare i cattolici sul piano sociale e politico; i destini anche politici di una comunità si fondano, assai più che non sembri, sul piano delle idee e, dunque, della cultura.

A Brescia, in concreto, quali sono i rapporti fra gli intellettuali cattolici e la Democrazia Cristiana? E in quali modi è possibile ottenere dagli intellettuali cattolici il loro libero contributo di idee e di opere?

Più che di frattura, forse si deve parlare di uno stato di indifferenza. Capisco, non è facile partecipare alla vita politica, uscire dall’isolamento della vita professionale, andar incontro a responsabilità che esigono una continua tensione morale, un paziente dominio di sé, un grande dispendio di energie. D’altra parte, molti aspetti della realtà politica sembrano fatti apposta per favorire i presuntuosi e i mediocri e non certo l’attiva partecipazione dell’uomo di cultura.

La D.C. non può trarre che beneficio dalla presenza e dalla vitalità della cultura cattolica bresciana, da cui si attende un contributo di approfondimento ideologica, di documentazione nei più diversi campi, di richiamo, di stimolo, di testimonianza.

All’uomo di cultura il Partito non chiede di far opera di propaganda, ma di esercitare il suo spirito critico, di suscitare il confronto delle posizioni, di far aderire le soluzioni di problemi di cui si discute; chiede insomma di guardar lontano, al domani, oltre le contingenze del momento, là dove non giunge la miopia degli illusi e dei fanatici.

Oggi l’attività politica esige una sintesi di competenza scientifica, capacità tecnica, esperienza professionale e di valori spirituali. Per gli uomini di cultura di ispirazione cristiana si apre dunque un vasto campo di possibilità e di doveri al servizio della comunità. Il Partito dovrà in avvenire ricorrere più di frequente alle loro indicazioni e accettare i contributi più validi; gli intellettuali cattolici dovranno, però, dal canto loro, guardare alle responsabilità politiche e, se è il caso, accettarle, come adempimento di un dovere e prestazione di un servizio.

Fare del Partito una scuola di vita democratica

IL QUINTO OBIETTIVO di un concreto rinnovamento del partito riguarda il funzionamento degli organi provinciali del Partito (Comitato esecutivo e Giunta) e i loro rapporti con i parlamentari.

La prevalenza da darsi al dibattito politico non deve esonerare il Comitato Provinciale e ancor più la Giunta esecutiva dall’esame collegiale sempre più vigile e dettagliato dei molteplici problemi riguardanti la vita del Partito nella Provincia e la presenza responsabile del Partito in settori e attività che lo toccano assai da vicino.

Alle riunioni dell’Esecutivo e a quelle del Comitato Provinciale sarà bene che i parlamentari, a turno, illustrino problemi e aspetti di loro specifica competenza, così come sarà bene che facciano in appositi convegni di studio, convegni che dovrebbero essere più numerosi perché rispondono a sentite esigenze.

Il lavoro dei nostri parlamentari per la risoluzione dei problemi della provincia deve essere sempre meglio strutturato, ma è indubbio che avrebbe un’altra efficacia se qualcuno dei nostri illustri amici entrasse a far parte della compagine governativa. Su questo argomento ho l’onore di dirvi di aver avuto di recente un cordialissimo colloquio con l’on. Moro, una volta mio professore, e che il Segretario del Partito comprese le nostre buone ragioni e dette in proposito le più ampie assicurazioni: tocca a lui ora trovare il modo di dare alla nostra Provincia il riconoscimento che le compete.

Vi sono altri importanti aspetti della vita del Partito, ma io ho già abusato della vostra cortesia e, d’altra parte, so che la mia introduzione ai lavori troverà le più opportune correzioni e integrazioni attraverso i vostri interventi.

In questi mesi di reggenza ho sperimentato a mie spese, come sia difficile l’incontro anche tra amici di uno stesso Partito: ma è pur vero che l’incontro, la discussione hanno un proprio dinamismo, una propria efficacia e un’assemblea è qualcosa di originale, qualcosa di nuovo e di meglio in rapporto a quello che i singoli uomini chiamati a comporla possono far prevedere.

In questo, infatti, consiste la forza e la superiorità della democrazia e il metodo da seguire per il rinnovamento democratico del Partito consiste proprio nel saper interrogare di continuo il Partito sulle questioni più importanti e nei suoi rappresentanti più qualificati.

Io sono convinto che da questo metodo può derivare un beneficio immenso, se è vero, come scrive il poeta Rilke, che «a forza di ascoltare bene le domande finiremo per entrare insieme nelle risposte».

Oggi i problemi sono tali e tanti che dinanzi ad essi occorre il coraggio dell’umiltà, nella schietta convinzione che nessun gruppo, nessuna corrente, dico nessuna, può avere la presunzione di essere detentrice di un discorso compiuto e di un bagaglio di idee sufficiente all’attuale momento storico del Partito in generale, e adeguato alle innumerevoli necessità politiche, organizzative ed amministrative della Provincia.

Se questo spirito ci animerà, se sapremo unire nella responsabilità gli uomini migliori di ogni generazione in uno sforzo comune e cosciente, se il nostro dialogo politico sarà sempre nutrito di rispetto, pur nella diversità delle posizioni particolari, allora amici, avremo fatto del Partito una scuola di vita democratica, la via per compiere il nostro dovere verso la comunità