Lo scritto A Diogneto appartiene all’aprile del pensiero cristiano, chiamato a giustificare la nuova intuizione della vita dinnanzi a se stesso non meno che agli occhi degli avversari e di quanti, anche in quel tempo, muovevano con animo puro e disinteressato alla ricerca del senso profondo da dare alla vita. Piccolo di mole, essenziale e rapido nelle argomentazioni, sublime nel delineare il perenne paradosso del cristiano nel mondo, l’A Diogneto è un prolungamento diretto dei Vangeli e delle lettere di Paolo. Sconosciuto e mai citato dagli Apologisti e dai Padri della Chiesa, è la perla preziosa, lo scritto più affascinante della letteratura cristiana in lingua greca. Il testo greco dell’A Diogneto è giunto a noi tramandato da un solo manoscritto, quando ormai si era alle soglie dell’era moderna, verso il 1436, e nella maniera più casuale. Faceva parte, infatti, di un manoscritto cartaceo di duecentosessanta pagine usato, insieme ad altra carta da imballaggio, per avvolgere il pesce in una rivendita di Costantinopoli! E fu acquistato per quattro soldi da un giovane umanista italiano, Tommaso d’Arezzo, che era andato a studiare greco nella capitale bizantina. Il manoscritto quasi certamente risaliva a un altro del XIII secolo, che a sua volta si rifaceva a un codice molto più antico. Dopo varie peripezie il manoscritto sottratto per caso alla distruzione entrò a far parte della Biblioteca municipale di Strasburgo; ma fu proprio qui che nel 1870 fu distrutto durante un bombardamento dell’artiglieria prussiana. Tuttavia di esso, per nostra fortuna, esistevano due accuratissime trascrizioni e recensioni dovute a studiosi alsaziani, a cui si rifanno tutte le edizioni successive.
Il personaggio a cui è indirizzato lo scritto è un pagano colto, che vuol rendersi conto della natura del messaggio cristiano e della fondatezza o meno di quanto si andava dicendo, spesso abbandonandosi alle più sfrenate fantasticherie, sui seguaci della nuova religione, che le persecuzioni non erano riuscite ad estirpare. Il nome Diogneto era diffuso nei primi secoli dell’era cristiana. Anche Marc’Aurelio, il filosofo che fu imperatore tra il 161 e il 180 d.C., cita nei suoi Ricordi (I, 6) tra i suoi maestri uno che aveva quel nome. Questo fatto e l’interesse di Marc’Aurelio, come in genere dell’ambiente stoico romano, a darsi una ragione della libertà del cristiano di fronte alla morte, hanno indotto una studiosa italiana, M. G. Mara, a individuare in quel Diogneto, ben noto a corte e tra gli intellettuali pagani, il destinatario del nostro scritto (Osservazioni sulla «Ad Diognetum», in «Studi e materiali di storia delle religioni», vol. 35, 1964). Il Marrou avanza un’altra ipotesi. Risulta dai papiri che procuratore di Alessandria tra il 197 e il 203 è Claudio Diogneto; a un personaggio come lui, appartenente all’ordine equestre e funzionario di alto prestigio, ben si addice l’aggettivo «illustre» (krátistos) con cui l’Autore dell’A Diogneto si rivolge all’interlocutore. Queste sono due intelligenti e preziose indicazioni, che hanno una loro credibilità; tuttavia non sono sufficienti a farci individuare storicamente né il destinatario, né il geniale Autore. Se il corrispondente ha un nome e non un’identità, non ha neppure un nome l’Autore di quello scritto straordinario. Le differenze fra lo stile e i contenuti di pensiero di Giustino e l’A Diogneto sono tali che nessuno oggi lo ritiene opera del filosofo cristiano, come aveva creduto l’amanuense del codice scoperto nel 1436. Quasi tutti gli studiosi convengono che l‘A Diogneto sia stato scritto nel secondo secolo dell’era cristiana e alcuni, come il Bonaiuti e l’Andriessen, tendono a porre la data di composizione nella prima metà, più vicino ai Padri Apostolici che ai Padri Apologisti. Tuttavia le giustificazioni addotte sono o manifestamente false, del tutto insostenibili – ed è il caso del Bonaiuti – o di una verosimiglianza non stringente – ed è il caso dello Andriessen. Il primo attribuisce l’A Diogneto agli gnostici ed anzi allo stesso Marcione; il secondo vi ravvisa l’apologia perduta che lo scrittore cristiano aveva indirizzata all’imperatore Adriano (117-138 d. C.). Il Marrou e R. Brändle spostano la data verso la fine del secolo, tra i Padri Apologisti e la Scuola di Alessandria. Insistendo sul carattere «alessandrino» dello scritto, che manifesta grande finezza, Marrou indica in Panténo, il fondatore della Scuola di Alessandria, il probabile autore dell’A Diogneto. La soluzione più prossima alla certezza può venire solo da criteri interni all’opera stessa e, a nostro modesto avviso, c’è un punto della polemica con gli ebrei che getta una qualche luce non sull’Autore dell’A Diogneto, che rimane ignoto, ma sulla datazione dello scritto. Il nostro Autore è addirittura scandalizzato dal fatto che gli ebrei collegassero le feste religiose (Pasqua, Pentecoste, giorno dell’espiazione ecc.) al corso degli astri e al mutare delle stagioni e ne parla con aperta derisione (IV, 1; IV, 5). Ebbene la stessa prassi della sinagoga tende ad affermarsi verso la metà del II secolo nella chiesa nascente. Le più antiche controversie sulla determinazione della data di Pasqua si ebbero, ad alto livello, nel 154 – protagonisti Policarpo di Smirne e papa Aniceto – e nel 167, a Laodicea, in Frigia, con l’intervento dell’apologista Melitone di Sardi (Eusebio, Hist. Eccles. IV, 26, 3; V, 24, 16-17). Questi dati ci inducono a pensare che nel momento in cui fu scritto l’A Diogneto il problema del calendario liturgico non fosse stato ancora risolto e neppure dibattuto pubblicamente. Lo scritto risale a un’epoca in cui la chiesa non aveva ancora scelto di porsi su questo punto, gradualmente, sulla stessa strada della sinagoga. È, infatti, del tutto impensabile che un apologista, nel presentare a un pagano la visione della vita a cui aderisce, si accanisca a definire segno «non di pietà, ma piuttosto di stupidità» (IV, 5), una delle «cose ridicole di cui non bisognerebbe nemmeno far menzione» (IV, 1), la correlazione posta dalla liturgia ebraica tra le vicende del cosmo e gli eventi della salvezza, se appena si fosse profilata, anche alla lontana, l’ipotesi di vedere la propria chiesa incamminarsi per quella strada, giudicata senza mezzi termini aberrante.
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Il cuore di questo breve scritto è nei capitoli V e VI, in cui si delinea e si giustifica la condizione del cristiano nel mondo .
Dopo aver motivato il rigetto del paganesimo e del culto ebraico, il nostro Autore risponde alle domande che Diogneto gli aveva rivolto sui cristiani: qual è il loro Dio, quale la natura del culto che essi gli rendono, quale il loro atteggiamento di fronte al mondo. La risposta non indugia nel tracciare una specie di identikit etnologico dei cristiani, non ci dà un’analisi dettagliata dei riti del culto cristiano, come fa Giustino nella Prima Apologia (61-67). L’A Diogneto preferisce andare al nocciolo della questione che le forme culturali tentano di esprimere. È di lì che bisogna partire, dal valore propriamente religioso del mistero cristiano, se si vuol capire la situazione originalissima dei cristiani nel mondo, il valore eminente della loro presenza nella società, «il paradosso riconosciuto da tutti, della loro società spirituale» (V, 4).
L’ouverture, solenne e senza artificio, poggia interamente su proposizioni negative: su ciò che i cristiani non sono. È, infatti, la differenza che porta l’idea, è la negazione che prepara meglio l’intuizione del che cosa significa essere cristiani.
«I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per il modo di vestire. Non abitano città proprie, non si servono di un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non è dovuta a un’intuizione geniale o alle elucubrazioni di spiriti che si perdono dietro a vane questioni (polypragmónon). Essi non professano, come tanti altri, dottrine umane insegnate dall’uno o dall’altro caposcuola» (V, 1-3).
Dopo aver ribadito il rifiuto dei cristiani a far ghetto e a lasciarsi ghettizzare («sono sparpagliati nelle città greche e barbare, secondo che a ciascuno è toccato in sorte» V, 4), le affermazioni successive sono caratterizzate da un ritmo antitetico che accentua mirabilmente la singolarità della situazione del cristiano.
«Si conformano alle usanze locali nel vestire, nel cibo, nel modo di comportarsi, e tuttavia, nella loro maniera di vivere, manifestano il meraviglioso paradosso, riconosciuto da tutti, della loro società spirituale. Abitano ciascuno nella propria patria, ma come immigrati che hanno il permesso di soggiorno. Adempiono a tutti i loro doveri in quanto cittadini, eppure sopportano i pesi della vita sociale con interiore distacco. Ogni terra straniera per loro è patria, ma ogni patria è terra straniera. Si sposano e hanno figli come tutti, ma non abbandonano i neonati . Mettono vicendevolmente a disposizione la mensa, ma non le donne. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma col loro modo di vivere vanno ben al di là delle leggi» (V, 4-10).
Il ruolo dei cristiani nel mondo è espresso con una formula ardita, vigorosa, che abbraccia da sola i più diversi aspetti del problema:
«In una parola, ciò che l’anima è nel corpo, i cristiani lo sono nel mondo» (VI, 1).
Non pochi pensatori precristiani fanno di Dio l’anima del mondo. Nella visione panteistica, Dio, pur identificandosi con la totalità delle sue produzioni, assolve, nell’unità sostanziale divina dell’universo, il ruolo di principio formatore, mentre la materia ne è il contenuto.
Virgilio nell’Eneide (VI, vv. 726-727) ha mirabilmente sintetizzato tutto ciò in due soli versi:
Spiritus intus alit totamque infusa per artus
Mens agitat molem et magno se corpore miscet.
(Uno Spirito avviva dal di dentro e una Mente infusa per le membra tutto agita il mondo e
al grande corpo s’unisce).
La concezione di Dio anima del mondo è tipica dello stoicismo (la si trova anche in un autore come Seneca, che ha più viva la sensibilità morale e religiosa e tende a ripensare in modo personale i postulati della scuola); in contesti diversi fu poi ripresa da Plotino, che muore nel 274 d. C., da alcuni filosofi del rinascimento e dal romanticismo tedesco nel secolo scorso. L’Autore dell’A Diogneto toglie ogni implicazione panteistica all’espressione che usa, precisando rigorosamente i termini della comparazione: i cristiani svolgono nel mondo la stessa funzione di presenza, di animazione, di azione che l’anima personale – e non certo l’anima cosmica – adempie in rapporto al suo corpo e per suo mezzo. L’anima unifica, governa, ispira la vita e l’azione del corpo che le appartiene. I cristiani animano il mondo perché rappresentano una più degna forma e prospettiva di vita, costituiscono un principio di unità e di amore tra gli uomini, attuano e propongono agli altri un tipo altissimo di moralità personale e sociale. L’autenticità del messaggio di Cristo e lo sforzo sincero d’incarnazione di esso da parte di chi lo accoglie dimostrano che il Vangelo risponde all’interrogazione dell’uomo su se stesso e su Dio. Il cristiano sa che il mondo non è soltanto il luogo dei falsi valori, ma significa anche la grande, insostituibile occasione per testimoniare quelli veri. Egli non è nemmeno nel mondo per costruire in esso esclusivamente la sua individuale salvezza, secondo l’errata visuale di certa pietà moderna, ignara delle idee direttrici del cristianesimo autentico. Nel mondo il cristiano assolve a un compito a cui non può venir meno, secondo quanto è detto nel Discorso della Montagna:
«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde sapore, con che cosa si potrà salare? A nulla più serve quel sale; lo si può gettar via e lasciarlo calpestare dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; città posta sul monte non può nascondersi. Né si accende un lume per metterlo sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così la vostra luce risplenda davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt. 5, 13-16).
La conclusione a cui l’Autore dell’A Diogneto perviene è sulla stessa linea e suona appello al servizio e alla testimonianza:
«È tanto nobile il posto che Dio ha assegnato ai cristiani, che a nessuno è permesso disertare» (VI, 10) .
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Minoranza da un punto di vista statistico, i cristiani sono annunciatori di un messaggio universale e di una realtà, il regno di Dio, che «è già in mezzo a noi» (Lc 17, 21) – come fermento, imperativo, aspirazione e speranza – e, nel contempo, nella sua pienezza e totalità, «non è ancora», perché nel suo perfetto compimento «non è di questo mondo, non è qui» (Gv 18, 36). La trascendenza del mistero cristiano è tale che non esclude, ma esige il dono e il metodo dell’incarnazione, il farsi carne del pensiero, il tradursi della fede nella vita. La fede a cui ci chiama il Vangelo è qualcosa di totalmente altro da una fuga nirvanica dal reale e non ha nulla da spartire con la mentalità alienata di chi scarica in Dio ciò che compete alla responsabilità degli uomini.
I cristiani non nutrono pregiudizi contro la società; anzi, in virtù di ciò che sono, debbono giocare in essa un ruolo positivo, a vantaggio di tutti. Sono dentro la società civile e politica e fanno lealmente la loro parte. Essi debbono respingere come una tentazione la tendenza a contrapporsi al mondo in cui sono inseriti, proprio perché sanno che tocca a loro conferirgli un supplemento d’anima. Chiamati a portare, là dove vivono, l’ampiezza dell’orizzonte evangelico, contro ogni clausura egoistica, e la certezza dei valori che non passano e che l’amore riscatta da ogni deformazione filistea e farisaica, i cristiani immettono nel mondo un’ispirazione superiore che li rende interiormente distaccati dal potere, una visione della vita che tutto assume e trasfigura. Alla domanda ‘qual è la risposta del mondo alla prospettiva che il cristiano gli offre’ il nostro Autore non si sottrae affatto e le sue parole (V, 11-17, e VI, 5-12) sono nello stesso tempo disincantate, prive nel modo più totale di umane illusioni, sublimi. È spontaneo commentarle ricorrendo a due celebri passi di Paolo.
«Ritengo che Dio – scrive l’Apostolo – abbia messo noi all’ultimo posto, come condannati a morte, perché siamo diventati spettacolo agli occhi del mondo… Soffriamo la fame, la sete, la nudità; veniamo schiaffeggiati, siamo costretti a vagare di luogo in luogo… Ed ecco che, insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo (1 Cor 4, 10-13)… Siamo giudicati impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo ben noti; moribondi, ed ecco viviamo; afflitti, ma siamo sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possiede tutto!» (2 Cor 8-9).
Il cristiano non può accettare supinamente lo «spirito del mondo», il Weltgeist, inginocchiandosi dinnanzi a tutto ciò che irrompe nella storia e si afferma con il sigillo del successo e della violenza. Nello «spirito di libertà», che gli viene dal Vangelo, il cristiano unisce l’atteggiamento di serena accettazione e di lievitante presenza nel mondo all’incrollabile decisione di non svendere la sua anima e la sua fede, di non cedere alle minacce e alle lusinghe di un potere divenuto corrotto e, pertanto, distruttivo dei diritti della persona umana. L’ultimo libro del Nuovo Testamento designa senza mezzi termini l’essenza anticristiana dello stato totalitario, additato appunto come la «Grande Bestia» e la «Grande Prostituta» . La fedeltà dei cristiani ai compiti richiesti dal bene comune, dalla società e dallo stato in cui vivono è fuori discussione ed è apertamente comandata da tutto il Nuovo Testamento; ma quando lo stato vien meno alla sua ragion d’essere, facendosi strumento sistematico di violenza contro le coscienze, allora i cristiani devono resistergli: con fermezza, senza violenza, pronti ad accettare la sofferenza e la stessa morte.
In una situazione del genere il rapporto tra i cristiani e il potere politico assume i caratteri del dramma: dramma che non ha mai cessato di risvegliare nei credenti il senso della loro vocazione e il coraggio della testimonianza, accendendo così per tutti gli uomini una ,luce e una speranza che alleviano quello che, altrimenti, sarebbe l’orrore della storia. Nelle ore buie dell’imbarbarimento degli spiriti e dell’oppressione bestiale, il cristiano è chiamato ad eseguire la duplice, chiarissima consegna di Pietro: «È meglio soffrire, facendo il bene, che fare il male» (1Pt 3, 17) – «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29). La fecondità della presenza cristiana nel mondo è tale da manifestarsi come vittoria del bene che libera sul male che opprime, certezza interiore che trasforma il disprezzo di cui si è investiti in motivo di onore, la calunnia in prova della propria innocenza, la stessa persecuzione e la morte – non cercate e non volute, ma accettate con grande serenità – in testimonianza di un mistero divino d’amore.
La coscienza è di per sé appello alla Sorgente divina, alla trascendenza di Dio, ed è in quanto soggetto di una coscienza che si rapporta a Dio che «l’uomo ha la testa più alta della società», come dirà nel nostro secolo il filosofo russo Nikolaj Berdjaev. La società, d’altra parte, è tanto più alta quanto più gli uomini che la compongono sono coscienze radicate nell’Assoluto, persone consapevolmente emergenti sul semplice fatto della loro aggregazione politica ed economica. Ne consegue che l’atteggiamento del cristiano verso il mondo sociale e politico non può essere che di servizio – anche quando si ha il dovere di dissentire e di resistere, innanzitutto con le armi della non-violenza – e di amore, persino verso i nemici e i persecutori. La trascendenza della coscienza religiosa e della società spirituale sulla società politica si rivela, così, la prima e più importante forza liberatrice dell’uomo. «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà» (2 Cor 3, 17).
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Chi scrive ritiene che occorra ‘ripensare’ oggi un testo come l’A Diogneto e per molte ragioni. In quelle poche pagine il lettore moderno trova una genuina risposta alla domanda «che cosa è mai Dio» (VIII, 1), e le ragioni che fanno dell’evento cristiano un annuncio di gioia e di libertà interiore, un appello alla coscienza personale, un fermento attivo nella storia, qualcosa di inconfondibile con tutto ciò che pure lo ha preparato. Viviamo in un tempo di secolarizzazione massificata e anche noi ci troviamo in una condizione non molto diversa da quella del pagano Diogneto: effettiva ignoranza della fede cristiana e del suo nucleo vitale, tentazione ricorrente di banalizzare quel messaggio riducendolo alla mera dimensione sociologica o ideologica. Anche noi, come Diogneto, cerchiamo una risposta che per essere intelligente non deve perdersi nelle questioni secondarie (la polypragmosýnē di cui si parla nel capitolo IV, 6 e V, 1), ma saper cogliere l’essenziale e il proprio, evidenziando coraggiosamente anche la differenza da ciò che è altro («è la differenza che porta l’idea a quel che si cerca è sempre l’elemento proprio», aveva ammonito profondamente Aristotele). Anche noi, come Diogneto, abbiamo bisogno, e non certo in via subordinata, di una testimonianza vissuta, capace di proporre una libera e degna forma di esistenza. La risposta ai quesiti posti da Diogneto offre una prospettiva anche per l’uomo del nostro tempo. Questo piccolo scritto è pieno di finezza, di eleganza, di decisione, di sentimento ed è una testimonianza insigne della fede e della mentalità del cristianesimo delle origini. Siamo in molti a pensare che ben pochi messaggi parlino così direttamente all’uomo come quello che ci viene dall’A Diogneto.
Humanitas, n. 5, ottobre 1984. Il testo comprensivo di note si può scaricare dall’allegato file in formato .pdf