n.97 di Città e Dintorni – 2009
“L’Italia è libera! L’Italia risorgerà!”.
Così intitolava “Il Popolo” il 25 aprile del 1945, data simbolica della liberazione dell’Italia dal regime nazi-fascista. Da allora, in ogni città italiana, il 25 aprile viene annualmente commemorato come la “Festa della Liberazione”.
La Resistenza italiana contò un numero di circa 300.000 partigiani, i quali erano soprattutto ma non solo italiani: abbastanza consistente era anche il numero dei russi (si parla di 5.000, 5.550 uomini) e dei disertori tedeschi. Si calcola che i caduti per la Resistenza italiana (in combattimento o uccisi a seguito della cattura) siano stati complessivamente 44.700; altri 21.200 rimasero mutilati ed invalidi. Circa 35.000 donne fecero parte dei gruppi partigiani.
Per il sessantaquattresimo anniversario della Festa della Liberazione, ho incontrato e ascoltato la testimonianza di un partigiano bresciano, Giulio Cittadini, padre filippino all’Oratorio della Pace. Ecco come descrive quegli anni.
«Sono nato a Trento nel febbraio del 1924, l’era fascista era già incominciata da circa due anni. Andando a scuola sono diventato ipso facto un balilla; indossavo la divisa e in quarta elementare dovetti prestare il giuramento al regime. Lo ricordo ancora: “Giuro di eseguire gli ordini del Duce, di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della rivoluzione fascista”. Sono stato educato a scuola nella convinzione che l’amor di patria si identificasse con la fedeltà al fascio. Fortunatamente, però, nel mio caso l’educazione fascista riuscì solo in parte perché, frequentando l’ambiente della Pace, ne ricevetti anche una cristiana. Il Vangelo non insegna la violenza, l’odio dei nemici e il razzismo. I fascisti invitavano a scagliare il sasso di fronte al nemico, ma il Vangelo ci dice che l’amore non ha preferenze, non ha scelte, che deve sempre e comunque essere elargito. Ero quindi un’anima contesa tra due poli opposti, ma ero ancora troppo giovane per accorgermene chiaramente.
Nel 1938 vennero emanate le leggi razziali (le quali, vorrei ricordare, furono controfirmate anche da Vittorio Emanuele III), e l’Italia entrò in guerra nel 1940. Mi apparve sempre più chiaro che il fascismo era soprattutto un invito a non pensare, c’è il Capo che pensa, che ha sempre ragione e che decide. Non c’era libertà di pensiero, era semplicemente un seguire le direttive.
Ho qui tra le mani un rapporto di polizia, scritto nel 1940 da un certo Bozzi, sull’attività antifascista dell’Oratorio della Pace, la quale “esercita una deleteria influenza tra i giovani”, e li conduce “a pensare e a ragionare contro le organizzazioni e le direttive del regime”.
In quegli anni ebbi la fortuna di rendermi conto della gravità della situazione, soprattutto grazie a due libri: La mia battaglia di Hitler, e La Germania religiosa del III Reich di Mario Bendiscioli. In modo particolare quest’ultimo mi aprì gli occhi sulla realtà anticristiana e antiumana, pagana e razzista del nazionalsocialismo. Questo mi indusse a prendere una posizione. Ad un certo punto, movimenti storici di questo tipo o si contrastano o si appoggiano, non c’è una via di mezzo, la neutralità equivale all’appoggio. Non potevo più scappare o fingere di non sapere, e fu così che cercai di fare una scelta coerentemente cristiana, e quindi democratica e antinazista.
Fondamentale per tutta la durata di questo processo interiore fu la FUCI (Federazione Universitari Cattolici Italiani), che cominciai a frequentare quando iniziai l’Università, nel 1942. La FUCI, che aveva sede alla Pace, era guidata dalla grande personalità di padre Carlo Manziana, nello spirito del suo maestro padre Giulio Bevilacqua. Lì si respirava il clima di una irrinunciabile libertà.
Con la caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943, la FUCI prese chiaramente posizione per la Resistenza, intesa come un’obiezione di coscienza su scala non soltanto italiana, ma europea.
Fu così che partecipai, a Brescia, alle azioni del gruppo delle “Fiamme Verdi”, che si organizzavano intorno alla figura di Astolfo Lunardi. La nostra attività principale consisteva nel redigere fogli di opposizione, incitando alla diserzione le classi chiamate alle armi dalla RSI (tra cui, per esempio, vi era anche la mia annata). Per alcuni mesi la nostra azione ebbe pieno successo, ma dovemmo cedere quando fu emessa l’ordinanza della fucilazione nei confronti di chi non si fosse presentato all’addestramento entro – se ricordo bene – l’8 marzo del 1944. Io e i miei amici ci presentammo col proposito di accettare e subire l’addestramento, ma di passare dalla ‘parte giusta’ non appena impiegati al fronte. Fra chi mantenne il proposito, ricordo con commozione persone Emiliano e Federico Rinaldini, Alvero Valetti e Aldo Lucchese.
Finito l’addestramento a Vercelli, alcuni dovettero andare in Germania, mentre altri restarono in Italia. Io fui mandato in Val d’Aosta, in una batteria di montagna. Di lì, con un amico, riuscii ad fuggire, passando la Dora e raggiungendo la formazione partigiana che era nella valle di Champorcher. Era la 76a Garibaldi, una brigata prevalentemente comunista. Io mi sono sempre manifestato come cattolico e portavo sul basco, al posto di una stella bianca rossa e verde, la medaglietta della FUCI, che pure aveva un piccolo tricolore. Quando mi chiesero il nome di battaglia scelsi, in onore di padre Carlo Manziana in qual momento deportato a Dachau, quello di Manzio.
Nella brigata ho sempre trovato un grandissimo rispetto per la mia fede e anche una forte presenza di cattolici; vi era pure un distaccamento intitolato a don Minzoni. Faceva sempre parte della 76a Garibaldi anche Gino Pistoni (Ginàs), caduto qualche mese prima nella Val de Grissoney. Ginàs era un ventenne di Ivrea che, dopo essere stato raggiunto da una scheggia di mortaio all’arteria femorale, sentendosi morire, ebbe la forza di scrivere col proprio sangue su un sacchetto: “offro mia vita per A.C. Italia W Cristo Re”.
Nella brigata ho incontrato una compattezza che non immaginavo; è stata un’esperienza che dal punto di vista umano mi ha dato molto. Ci si conosceva appena col nome di battaglia, ci si dava del ‘tu’, ma anche i capi discutevano e ascoltavano quello che noi avevamo da dire. Ho conosciuto delle persone responsabili e non avventate, tra cui anche altri tre bresciani, io però sono l’unico che è poi riuscito a tornare a casa.
Spesso mi domandano come posso conciliare la scelta di aver partecipato ad una formazione partigiana – a maggior ragione come la 76a Garibaldi -, con quella che ho fatto dopo, di entrare in una congregazione religiosa. Secondo me sono state due scelte chiaramente cristiane; non potevo stare dalla parte di una realtà lesiva per la dignità dell’uomo. Ed è stato per questo stesso processo interiore che poi sono entrato in una congregazione che serve la persona umana e quei valori che la esaltano.
Ogni brigata era composta da più distaccamenti, ognuno dei quali contava venti, al massimo trenta uomini, il numero di persone che potevano essere ospitate da una malga o da una stalla. Quello che ricordo della vita di quel tempo è la fame, lo sporco, il sonno. Per un certo periodo mi nutrii solo di vecchie pecore e castagne. Tenni indosso la camicia, unico indumento di lana che possedevo, per nove mesi senza toglierla mai. Non dimenticherò la mia prima notte da partigiano, in una stalla, su delle foglie secche, tutto avvolto in una coperta che mi avevano dato. Pensavo: “non è che abbia messo la pelle al sicuro, però questa volta, se muoio, muoio dalla parte giusta”.
L’inverno fu rigidissimo, con una quantità enorme di neve, la quale rendeva tutto più difficile, poiché dovevamo anche preoccuparci di non lasciare tracce dei nostri spostamenti. Alla fine di gennaio del ’45 fu catturato e freddamente eliminato dai nazifascisti l’intero comando della brigata, e quello fu un momento tragico per noi.
Iniziammo a subire parecchi rastrellamenti, soprattutto nel mese di febbraio, durante i quali eravamo continuamente costretti a fuggire. Soltanto a fine febbraio di furono paracadutate dagli aerei alleati armi nuove con relative munizioni e la situazione cominciò a cambiare. Nel piccolo triangolo rea il Canavese e la Valle d’Aosta ci sono stati più di 4.000 morti tra combattenti e vittime civili di ritorsioni, a riprova di quanti sacrifici sia costata la scelta per la libertà.
Dopo aver patteggiato con i tedeschi, il 3 maggio facemmo il nostro ingresso trionfale ad Ivrea senza sparare un solo colpo, mentre le divisioni corazzate della Wermacht si ritirarono a nord e a sud della città. Fu una giornata radiosa, felicissima, ricordo il tripudio della popolazione. La guerra sarebbe finita solamente cinque giorni dopo.
Il ritorno a casa è stato poi movimentato, ma per mia incoscienza. Mi sono dimenticato di chiedere il permesso, e mi sono incamminato per uscire da Ivrea. Le corazzate della Wermacht erano però ancora presenti intorno alla città, e così mi sono imbattuto – vestito da partigiano – in una di quelle. Mi hanno fermato, e ho davvero rischiato di essere ucciso, paradossalmente più che durante tutta la guerra.
Una volta tornato a Brescia le notizie non erano tanto buone; molti dei miei amici – tra cui Emiliano e Federico Rinaldini – erano stati uccisi, e così l’avvocato Andrea Trebeschi.
Il primo ottobre del 1945 entrai alla Pace come aspirante al sacerdozio filippino. Anche prima della guerra avevo il proposito di diventare sacerdote, ma alla fine del conflitto ne ero ormai convinto in modo maturo. Fu così che, nel 1950, ricevetti l’ordinazione.
Per molti anni non ho voluto parlare di questa vicenda, ma più tardi, quando invece avevo desiderio di riportarla a galla, non ne ho avuto spesso l’occasione. Ci ho però meditato a lungo, e ho pensato se è vero che senza gli Alleati non avremmo potuto raggiungere le nostre mete di libertà, è altrettanto vero che la Repubblica Italiana è nata dalla Resistenza. Da essa è emersa la carica di voler ricominciare, di voler far tutto di nuovo e da capo, di creare un’Italia – come dice Teresio Olivelli – “generosa e severa”.
La Resistenza non fu una “guerra civile” nella quale ha ragione chi vince, fondamentalmente fu una rivolta morale nei confronti di regimi spietati che minavano la dignità umana nella sua libertà di pensiero e di espressione.
David Bidussa ha designato la “mentalità totalitaria” con la metafora del vampirismo. Come il vampiro succhia il sangue della sua vittima, così ogni totalitarismo succhia l’identità personale e l’anima delle persone, riducendole ad automi obbedienti e succubi. Una delle frasi che animava la mia Resistenza e che mi aiutava a tenere duro nei momenti difficili era: “dove c’è lo spirito c’è libertà” di San Paolo. O si crede in certi valori di universalità e nel rispetto della persona, oppure si crede nel predominio di una razza. O si crede nella libertà di pensiero, oppure si dà obbedienza cieca ad un capo che pensa, decide e comanda al nostro posto.
Sono molto felice di aver potuto parlare di questa mia esperienza, perché se si hanno presenti certi presupposti del passato si scopre che questo può ritornare come presente e come futuro. Forse molti giovani non si rendono conto che se non stiamo attenti facciamo presto a ricadere in forme più o meno larvate, più o meno scoperte di fascismo. Dove c’è la prepotenza di un capo, lì certamente cova qualche cosa che minaccia la persona umana nel suo profondo.
Churchill aveva ragione: non è mai stato provato un sistema di governo migliore della democrazia. Democrazia vuol dire partecipazione, vuol dire critica, vuol dire pensiero. Il cristianesimo è nato sotto forma di obiezione di coscienza alle pretese di un potere politico che voleva divinizzarsi. Ed il potere diventa demoniaco quando pretende di essere divino.
Il 25 aprile dovrebbe essere interpretato come il giorno festoso della vittoria della libertà contro l’oppressione totalitaria di qualsiasi colore».