Voce del Popolo, 24 settembre 2020
Quando dai nostri sacerdoti, che spesso andiamo a cercare in situazioni di sofferenza dell’anima e del corpo, prima dell’invito a reagire riceviamo una sincera condivisione delle nostre fatiche, nascono in noi fiducia e, magari, anche la forza per rimetterci in viaggio. Mi sono venuti questi pensieri aprendo “Il piccolo libro delle grandi domande” di José Tolentino Mendonҁa, perché la prima pagina che egli ci propone parla del pianto di Gesù: “Verso chi piange Gesù?”, considerando che quando si piange, anche se lo si fa in totale solitudine, si piange “perché un altro veda”? Piange davanti al Padre? per Gerusalemme? per noi?
Nel Vangelo si legge della gioia di Gesù, ma più spesso si legge del suo turbamento, delle sue lacrime, espressione di un amore ferito e sofferente. Questo tratto della sua umanità ci attrae particolarmente, perché è nostra esperienza quotidiana che il dolore segni pesantemente la vita di tutte le creature su questa Terra, anche se a volte fingiamo che non sia così. Sui banchi di scuola, quando tendevamo, comprensibilmente per l’età, a illuderci facilmente, Leopardi ci aveva messi in guardia rappresentandoci come quei mariti che, per “vivere tranquilli”, credono le loro mogli fedeli “anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro”. Ma non si era molto disposti a riconoscerlo.
Certamente, della nostra vulnerabilità in questi mesi abbiamo fatto tutti una forte esperienza fino allo smarrimento: quanto male diffuso in tutto il mondo – e senza neppure qualche minima speranza per i paesi più poveri – a causa di una invisibile entità biologica… E, di conseguenza, quanti problemi sociali ed economici per le famiglie ora e nei prossimi mesi, anni. Nell’accostare l’autore di questo libro, si è subito avvolti da uno sguardo dolcissimo e buono. E’ uno sguardo di cui abbiamo tutti bisogno. Gesù lo sapeva, quando i sacerdoti ce li ha “creati” come “pastori”!
Nato a Madeira da una famiglia di pescatori, sacerdote, teologo, raffinato studioso della Bibbia, José Tolentino Mendonҁa è cardinale dall’ottobre scorso, archivista e bibliotecario di quello straordinario patrimonio di testi antichi e di libri che dal Quattrocento sono raccolti presso la Santa Sede. I libri sono una delle sue grandi passioni insieme con la natura, contemplata fin da bambino in quella meravigliosa isola portoghese (“Sembra un posto sognato da qualcuno”), ma prima di tutto lo è l’uomo. Noi – egli ci ricorda spesso nei suoi scritti – siamo opera gli uni degli altri; ognuno di noi è nutrimento per gli altri, e questo scambio di vita è un grande dono: “La cosa decisiva per me è stata prendere ogni cristiano come mio maestro, mio fratello; così ho imparato ad essere prete”.
Le sue parole sanno accogliere il “vuoto delle nostre mani” (pag.19 di questo prezioso libretto), quello del “dolore estremo” che non trova consolazione; ma con delicatezza ci dicono poi anche: questo nostro male, questa nostra sofferenza “vissuta su scala intima” può incontrarsi con il “mistero delle stelle”: che il Signore “chiama per nome” (Salmo 147); il Signore “mette la nostra vita in connessione con una dimensione più grande, articolandola con l’immensità, l’infinito, l’incommensurabile”.
Considerate lilia agri (“Osservate i gigli del campo”) è il motto voluto da mons Mendonҁa per la sua ordinazione episcopale. Anche solo tale scelta ci rivela l’altra splendida vocazione della sua persona, quella della poesia, che poi in realtà, come egli precisa, è una sola: sacerdote “molto felice di esserlo” (racconta: “Ho scoperto che ‘padre’ è una delle parole più belle della vita perché la paternità e la maternità spirituali sono la finalità della nostra esistenza, siamo tutti chiamati a generare vita”) e poeta tra i più significativi della letteratura portoghese, tradotto in numerosi paesi.
Con i poeti, leggiamo a pag. 67, siamo aiutati a scendere in profondità; a percepire, come quando guardiamo “da una terrazza”, che “la vita è più grande di noi”. Ma come può accadere questo stato di grazia? Sono le domande, come quelle “sconcertanti e di un acume lampante” della nostra infanzia, che possono metterci in contatto con “la vita aperta, non predeterminata”. In età adulta diventiamo spesso “sonnambuli ripetitori di risposte prefabbricate, riempiti di saperi, previsioni e mappe” e “viviamo come se ciò che vediamo fosse tutto quello che c’è da vedere”, quando invece ascoltare le domande che ci salgono dentro, per quanto questa possa risultarci una “pratica dolorosa”, è fondamentale per avvicinarci maggiormente “all’apertura di senso”.
Ogni paginetta, una riflessione che si fa domanda, e “ogni domanda una possibilità di nascere”, di ricominciare. Così il “piccolo libro” di José Tolentino Mendonҁa. Lieve sulle nostre spalle: perché ci restino spazi di pensiero. La sua passione di “lettore” in ascolto del mondo gli fa evocare voci mirabili della letteratura, della filosofia, dell’arte… e anche (il sacerdote-poeta sa davvero sorprenderci!) semplici “cose” del “paesaggio della nostra quotidianità”, le quali pure possono “avere tanto da insegnarci sulla vita spirituale”: una panchina dei giardini, una bicicletta, una canzone pop…. Solo spunti, però, perché fondamentale, a suo avviso, è che ci si alleni nell’arte dell’interiorizzazione: “Il mondo è attraversato da un filo di silenzi che attendono di essere ascoltati”. E cita il mistico tedesco Angelus Silesius: Dov’è silenzio ascolta: / è lì che parla Dio.
Abbiamo bisogno di questa “disciplina del cuore” per purificarci “dall’inquinamento di parole, immagini, desideri delusi, finzioni”; prendere “distanza dall’avidità, dall’istinto di possesso”; lasciare che “la rivelazione dell’alterità ci abiti”; ascoltare “l’irresistibile pulsare della vita”. Negli spazi di raccoglimento e di contemplazione i nostri sensi spirituali si perfezionano e apprendiamo una leggerezza che dilata l’anima. “E che è, in fondo, ciò che ci permette di attraversare la notte, le avversità e le contraddizioni, con gli occhi fissi sulla piccola fiamma della speranza”.
In questo “lavoro di depurazione interiore” impariamo a ospitare la “vita quale essa si presenta a noi, senza menzogne e senza illusioni […] accettando che non sia possibile spiegarla interamente”; a fare nostra l’umiltà del giardiniere che, con grande impegno, si dedica al suo giardino “ma consapevole che il seme si apre senza sapere come”; a non vincolare nei nostri schemi lo straordinario “fiume della vita”. “Beati coloro che si nutrono di questa meraviglia interminabile: questi, e solo loro, sentiranno il passaggio incompiuto del tempo come una promessa”.