A Dachau era diretto nel novembre del ’43, con duecento ebrei, il “prigioniero deportato” Bernhard Lichtenberg, la personalità di maggior spicco, dopo il vescovo Preysing, nella diocesi della capitale del Reich. In che modo quell’uomo era pervenuto alla decisione semplice e radicale di far suo, fino all’ultimo respiro, l’imperativo di Pietro “è meglio obbedire a Dio che agli uomini”?
Quando Hitler ascese al cancellierato nel gennaio del ’33, Lichtenberg, da un mese prevosto nel duomo di Berlino, era preparato al peggio: dal trionfo di idee criminali non si attendeva che crimini. Lichtenberg era una vecchia conoscenza per i capi del nazionalsocialismo. Nessuna meraviglia, quindi, se dopo la presa del potere i nazisti incominciarono a praticare perquisizioni domiciliari e intimidazioni. Nel ’34 attaccò duramente dal pulpito l’ideologo del regime, Rosenberg, e l’anno seguente, venuto a conoscere da un rapporto segreto quel che accadeva nel campo di concentramento di Esterwegen, richiese immediatamente per telefono un colloquio con Göring, allora capo della Gestapo, e si recò di persona a consegnargli, in rappresentanza ufficiale della Chiesa berlinese, il testo del rapporto, assumendo su di sé la responsabilità di quanto si affermava in esso. I nazisti temevano tanto il coraggio di quell’uomo pacifico che il giorno suc¬cessivo alla nefanda “notte dei cristalli”, il 10 dicembre del ’38, accerchiarono la cattedrale per garantirsi da una eventuale azione di forza del prevosto. Tuttavia Lichtenberg alla preghiera serale osò dire ad alta voce: “Ciò che è stato ieri lo sappiamo. Ma ciò che è avvenuto oggi l’abbiamo vissuto: là fuori brucia la sinagoga. Anch’essa è casa di Dio”. E quella sera, sotto gli occhi e gli orecchi delle spie, cominciò la preghiera pubblica per ebrei perseguitati, per i quali organizzò, d’accordo con Preysing e presso lo stesso ordinariato vescovile di Berlino, l’Opera di soccorso.
Il 26 giugno del ’41 nella lettera pastorale collettiva dei vescovi tedeschi si leva solenne la protesta della coscienza cattolica contro l’eutanasia di Stato: “Vi sono obblighi sacri di coscienza da cui nessuno può dispensare, che noi dobbiamo adempiere, ci costasse la vita stessa: mai, in nessun caso, l’uomo può uccidere un innocente”. Il 3 agosto il vescovo di Münster, von Galen, scendeva in campo pubblicamente contro l’assassinio delle cosiddette “persone inette a vivere” e “improduttive”. Il 28 agosto Lichtenberg indirizzava al medico capo del Reich una vibrata protesta. “Se i dieci comandamenti – egli scrive – sono pubblicamente ignorati, il codice penale del Reich ha ancora valore legale. Orbene l’articolo 221 commina la pena di morte a chi uccide con premeditazione e l’articolo 139 fa obbligo a chi viene a conoscenza, da fonte attendibile, del progetto di un delitto contro una vita, di sporgerne denuncia a tempo debito all’autorità o al minacciato”.
Nell’autunno del ’41 l’offensiva antiebraica toccò il culmine. Dal 15 settembre tutti gli ebrei dovettero portare la stella di David con la scritta “giudeo” e questo faceva di loro una selvaggina di libera caccia. Era il preludio alle deportazioni in massa e all’annientamento. Un ignobile volantino anonimo, ma fatto stilare da Goebbels, incitava all’odio dell’ebreo, alla delazione, alla sua “eliminazione”. Lichtenberg non aveva mai taciuto, ma ora egli sentì di dover “professare” a viso aperto, in maniera solenne ed esplicita, il rifiuto del razzismo e il dovere dell’amore cristiano per gli ebrei minacciati di genocidio. Stilò in appena otto righe un “avvertimento” ai fedeli perché non si lasciassero sviare da un orientamento anticristiano, venendo meno al comandamento supremo “amerai il prossimo tuo come te stesso”. Ma non poté nemmeno leggerlo, come aveva deciso, nella festa di Cristo Re, la domenica successiva alla distribuzione del volantino, perché il giovedì fu tratto in arresto. Due studentesse fanatizzate, entrate per curiosità nel duomo, avevano ascoltato le acco-rate invocazioni del prevosto “per gli ebrei, per i prigionieri nei campi di concentramento, per i milioni di profughi senza nome e senza patria, per i soldati dell’una o dell’altra parte, per le città bombardate in un paese amico o nemico” e lo avevano denunciato alla Gestapo.
Nei verbali degli interrogatori del prevosto della Cattedrale cattolica di Berlino, Ber¬nhard Lichtenberg, da parte della polizia e negli atti processuali e carcerari c’è la più sconcertante e involontaria apologia di un martire cristiano del nostro tempo. Nelle sue risposte taglienti, senza attenuanti di sorta, la grandezza incomparabile del messaggio evangelico trova una testimonianza non adulterata da compiacenze intellettualistiche e da strumentalizzazioni politiche. In particolare il verbale dell’interrogatorio del 30 ottobre ’41 va segnalato come documento di straordinaria chiarezza interiore, di coraggio, di acume critico. Lichtenberg è chiamato a spiegare, ad una ad una, le annotazioni da lui scritte a margine del “Mein Kampf” del Führer. Le ragioni addotte mettono a nudo, in modo implacabile ed estremamente esplicito, l’essenza mistificatoria e oppressiva del nazismo.
È lo stesso sorprendente Lichtenberg che tira nel modo più esplicito possibile la conclusione della lunga serie di contestazioni e di risposte: “Per finire vorrei osservare che le annotazioni a margine da me fatte nel libro “Mein Kampf” dimostrano che non mi sono accontentato di una lettura superficiale di quest’opera. Lo studio intensivo di questo libro mi ha confermato nella convinzione che la Weltanschauung nazional-socialista è inconciliabile con la dottrina e i precetti della Chiesa cat-tolica”. L’estensore del “rapporto finale” del 2 novembre scrive testualmente: “Lichtenberg è un oppositore attivo dello Stato, che ha volontà di non nascondere il suo atteggiamento nemmeno in predica dal pulpito. Tra l’altro egli dichiara: “Poiché il libro “Mein Kampf” è il fondamento della Weltanschauung nazionalsocialista, io come sacerdote cattolico devo respingere questa Weltanschauung”.
Nel dibattito al Tribunale speciale, richiesto su che cosa avesse da replicare, Lichtenberg rispose: “Signor Procuratore dello Stato, ciò che lei ha detto su leggi e paragrafi e cose del genere io non comprendo del tutto e nemmeno mi interessa. Ma vorrei ringraziarla per una cosa sola: lei ha riconosciuto che non mi debbono essere concesse circostanze attenuanti, non potendo assolutamente contare su un cambiamento di sentimenti dell’imputato. Ciò è puntualmente esatto e di ciò la ringrazio”. Lichtenberg ringrazia per la motivazione della sentenza, che accerta la “incorreggibilità” della sua scelta. Ma lo fa senza iattanza, anzi accompagnandola con una confessione della propria vulnerabilità d’una grandezza che scuote e commuove: “Signori, in questi mesi, dall’ottobre 1941 in poi, ho sperimentato molte cose e debbo dire: è stato un periodo ricco di grazie dietro le mura del carcere. Ringrazio Dio per le grazie della mia vita, ma specialmente per questa, che negli ultimi mesi non sono stato costretto a soccombere alla disperazione. Vi sono, infatti, ore in cui anche un prete è tentato a disperare”. Nella cella 367 di Berlino-Moabit egli aveva, dunque, sofferto e molto; ma aveva anche pregato e lavorato molto: “2000 ore all’incirca” scrive in una lettera del 18 maggio 1942, per tradurre 147 inni e stendere 153 schemi di prediche per i suoi parrocchiani.
Dopo la condanna, Lichtenberg entra nel carcere penale di Berlino-Tegel con l’animo del “novizio certosino” che cerca ormai il rapporto assoluto con l’Altissimo, in una donazione totale di sè a Dio e ai fratelli. Lichtenberg provò, assai più di prima, la fame, il freddo, l’altalena tra lazzaretto e carcere, l’aggravarsi di malattie renali e cardiache, le orribili torture testimoniate in due distinti rapporti scritti dal compagno di prigionia di Lichtenberg, dottor Schulze, evangelico. E fu sotto le terribili randellate di satana che le due confessioni cristiane, la cattolica e la protestante, riscoprirono nella comune assunzione della croce di Cristo il senso della ecumenicità, il bisogno di “concrescere” di nuovo a formare una totalità organica. Due settimane prima di abbandonare il carcere di Berlino-Tegel, il vescovo Preysing potè riabbracciare il suo fedele amico. Lichtenberg aveva fatto la sua parte, ora occorreva trarlo di prigione e permettergli, se si era ancora in tempo, di riacquistare la sa-lute. C’era, però, una condizione della Gestapo: non predicare per il periodo di guerra. Ma Lichtenberg non era affatto disposto a tacere mentre infuriava l’oppressione: “Se noi preti taciamo, la gente perde del tutto la bussola e non sa più dove si trova”.
Prima della scadenza della pena, la Gestapo provvide al “riarresto” per avviarlo al campo di concentramento di Dachau. L’indomito prevosto fu aggregato a un contingente di ebrei in marcia verso Dachau, e accomunato in tutto al destino di quei fratelli perseguitati, come egli stesso più volte aveva chiesto. Nel campo di lavoro di Berlino-Wuhlheide conobbe ancora bestiali bastonature e insulti. Ultima stazione, la prigionia e l’ospedale di Hof. Qui ebbe fine il suo martirio.
Lichtenberg cadde per tutto ciò che doveva allora e deve sempre essere difeso da un cristiano. E come lui, il francescano Maximilian Kolbe, il gesuita Alfred Delp, la carmelitana ebrea Edith Stein, gli obiettori di coscienza cattolici padre Paul Metzer e il contadino Franz Jägerstätter, i fratelli Scholl, i giovani della “Weisse Rose” e molti altri, il cui sacrificio costituisce uno degli ultimi capitoli di quegli “Atti dei Martiri” che, ad ogni svolta della storia, accompagnano ed autenticano il cammino della Chiesa nel mondo.
Giornale di Brescia, 27.4.2001 e 29.4.2001.