Uno dei grandi vecchi della filosofia del Novecento, Hans Jonas, ci ha lasciato. Dei pensatori della sua stessa levatura restano Karl Popper, Emmanuel Lévinas, Hans Georg Gadamer. È sempre interessante cogliere in una personalità vissuta per la ricerca scientifica il momento magico, l’occasione che la rivelò a se stesso. “Nel mio passato, se proprio devo parlare della mia persona, trovo il mio primo incontro con la scienza molto tempo prima che io stesso entrassi nelle sue aule come discepolo, ossia già nel periodo in cui ero studente del ginnasio e avevo quindici anni”. Lo stimolo fecondo alla conoscenza della verità, in un certo ordine di fenomeni e di avvenimenti, gli venne da un libro di storia, “La storia della decadenza e della caduta dell’Impero Romano” di Edward Gibbon, e dallo studio dei profeti di Israele. Il terzo incontro fu con la “Fondazione della metafisica dei costumi”, che forse è il vero capolavoro di Kant. Osserva con finezza Jonas: “Come tutti, anch’io sperimentai la scienza nella persona dei miei docenti”. Ed egli ebbe la fortuna di incontrare grandi maestri tra cui, in particolare, Husserl, il fondatore della fenomenologia, Heidegger e Bultmann. Nel seminario per principianti tenuto da Heidegger, Jonas avverte sia la forza di un incantesimo (“prima ancora di comprendere Heidegger si era in suo potere”), sia la straordinaria capacità del professore di guidare gli allievi a fare una “esperienza originaria” in rapporto al testo che era oggetto di studio.
“Tutti dovevamo ritornare ad essere principianti, cosa che non è affatto di per sé facile per l’uomo moderno, dalle molte letture, dalla vita basata su esperienze di seconda o terza mano. Eravamo però principianti che partivano non dal nulla, ma dalla grande scuola che indagava sulle origini storiche e sugli sviluppi successivi”. Fu la sola vera lezione di Heidegger. “Del lato oscuro, presente nella dottrina e nella persona di Heidegger, non voglio parlare” confessa Jonas e noi lo comprendiamo perfettamente, ricordando che nel 1933 dalla Germania nazista egli fu costretto all’esilio prima in Inghilterra perché ebreo e poi in Palestina. L’altro maestro di Jonas, il più caro al suo cuore, fu Rudolf Bultmann (1884-1976), che può essere considerato uno dei maggiori studiosi del Nuovo Testamento. In Bultmann s’intrecciano la critica dell’immagine del mondo che accompagna la storia della salvezza, cioè la critica del mito, e la chiarificazione in profondità del messaggio di Cristo. Ebreo per educazione ma agnostico in religione, Jonas trovò nei seminari di Bultmann sul Vangelo di Giovanni la spinta a scoprire il carattere esistenziale della fede, ma anche di quel mondo che si profila dietro il pensiero proto-cristiano, il mondo angosciato della gnosi nei suoi lussureggianti rivestimenti mitologici. Jonas tornò in Germania nel ’45 come soldato che aveva combattuto nell’esercito inglese e corse subito a riabbracciare Bultmann, il maestro che nel ’34 aveva presentato il suo primo lavoro sullo gnosticimo, cioè l’opera di un autore ebreo appena emigrato, con una prefazione generosa e coraggiosa. “Egli come fu l’unico che, partendo, salutai, così fu anche il primo che, proprio dodici anni più tardi, nella Germania desolata dell’estate del ’45 volli rivedere”, scrive Jonas.
Il cammino teoretico di Hans Jonas si può delineare in tre tappe. La prima è caratterizzata dallo studio della gnosi tardo-antica sotto il segno dell’analisi esistenziale. La sintesi completa dei suoi studi in questo campo è “La religione gnostica” (1958). La seconda tappa è segnata dall’incontro con le scienze naturali nella prospettiva di una filosofia dell’organismo. L’organismo condivide, infatti, con ogni vivente la sua modalità di essere, come aveva ben visto Bergson. Una filosofia della realtà organica divenne il programma di ricerche di Jonas nel dopo-guerra e culminò nell’opera “Il fenomeno della vita
– Verso una filosofia biologica” (1966). La terza tappa del cammino speculativo di Jonas nasce dalla riscoperta del primato della ragion pratica, ossia dell’etica, sì che siamo obbligati a riscoprire “i venerabili problemi della coscienza” alla luce degli interrogativi dettati dalle nostre esperienze quotidiane e dalle nostre paure di uomini che vivono in un’età tecnologica e temono sia per il loro futuro, sia per l’avvenire dei loro figli. L’ultima e più importante opera di Jonas ha non a caso per titolo “Il principio responsabilità” (che è del 1979 e fu tradotta da Einaudi solo nel 1990). All’etica Jonas è giunto non solo a compimento di una filosofia dell’organismo nell’uomo, con il fenomeno della libertà che lo caratterizza; egli vi è stato costretto anche dallo shock della realtà, cioè dalla coscienza non solo e non tanto del pericolo di un olocausto atomico, quanto piuttosto dall’effetto cumulativo di tutta la nostra tecnologia, praticata ogni giorno, anche nella sua forma più pacifica. Rispetto ad essa è vano il semplice rifiuto. Proprio perché la tecnica è ormai indispensabile alla nostra sopravvivenza, essa diventa problema permanente di saggezza morale, impegno di responsabilità. Se il principio della responsabilità non ammutolisce, esso fa tutt’uno col principio speranza.
Giornale di Brescia, 7.2.1993.