Mi sbarazzerò rapidamente del quesito che fornisce il titolo a questa mia chiacchierata: perché narrare? Lo farò tanto più in fretta in quanto mi pare esso indulga un po’ alla moda sociologica dei nostri tempi, i quali sembrano giustificare soltanto ciò che ha un significato totale e tende al collettivo. Io in questo non seguo affatto l’andamento della nostra epoca. Non credo per niente che l’individuo si risolva in una serie di relazioni sociali, che per sé non sia nulla e che, di conseguenza, le sue istanze profonde, i suoi sentimenti, le componenti della sua anima siano quasi privi di valore
Il punto di partenza della mia visione del mondo è la persona. Appartengo alla civiltà cristiana e liberale, non a quella socialista. Sono narratore, dunque, per ragioni del tutto personali, non sociali e collettive. Io narro semplicemente perché provo l’esigenza di farlo; perché narrare mi realizza, riempie la mia vita, le dà senso e carattere. Narro perché la cosa mi diverte immensamente. Narro perché, pur sapendo fare molte cose, quello di narratore mi sembra il mestiere sovrano, il privilegiato.
Mi sentii vocato alla narrativa fin da ragazzo. Ben presto mi accorsi che tutte le cose che avrei potuto fare, al di fuori del narrare, avrebbero lasciato un fondo di insoddisfazione e di incompiutezza dentro di me. Capii che non ero fatto per vivere la vita, con tutto ciò che essa comporta, in maniera diretta e immediata, ma piuttosto per contemplarla e rappresentarla. Una volta, ricordo, mi trovai immerso nel carnevale di Monaco di Baviera, uno dei più allegri e sfrenati del mondo. Non fui capace di immergermi nelle danze e nelle bevute di birra. Per un po’ stretti a guardare lo spettacolo, come fosse una cosa lontana, già portata dalla corrente senza stazioni del tempo.
Lo guardai con una certa malinconia, per la mia impossibilità di viverlo come tutti gli altri. Mi sentii un po’ come il Leopardi, che indugiava ogni diletto e gioco in altro tempo, e non sapeva perché. Mi sentii come Tonio Kröger, quando scopre che la ragazza di cui è innamorato preferisce un altro, un giovane sano e normale non sforacchiato dalla tignola dell’arte. Sentii che io non sapevo più divertirmi e giocare come quando ero bambino. Per me maturare, diventare uomo, significò scoprire che la fonte maggiore di gioia consisteva nella lettura dei libri, che alimentavano sempre di più il desiderio di scriverne anch’io. Quella volta a Monaco smisi di guardare il Carnevale e salii al Maximilianeum, in cui vivevo, a leggere Proust.
Forse in quel giorno, più che in qualsiasi altro momento della mia vita, compresi quanto fosse vera la frase di Mann, che si illude colui il quale ritiene di poter far cadere su di sé la più piccola fogliuzza della gloria letteraria, senza cedere in cambio le gioie della vita quotidiana. Oggi più che mai sono convinto che, a questo mondo, lo scrivere ed il vivere si escludano a vicenda. Coloro che s’illudono di poter tenere il piede in due scarpe, e di poter cogliere l’una e l’altra rosa dell’esistenza, in genere sono cattivi scrittori, o gente che tenta di ingannare se stessa, perché quella dello scrittore è una vocazione esigente e totalizzante. E’ un Mefistofele che in cambio della scrittura esige la vita, e fa dello scrittore un eterno straniero nella città degli uomini.
Non un estraneo, un indifferente, un transfuga, un abitatore di torri d’avorio e di campi elisi, segregati dall’aiuola feroce dell’esistenza. Ma senza dubbio uno che guarda le cose da lontano. Lo scrittore, almeno quello della razza cui io appartengo, sa magari sentire la vita quotidiana con lo struggimento e la malinconia profonda con cui la sentono, a volte, Leopardi, Wilder, o Cassola. Ma non viverla. Sente la dolcezza della quotidianità e lo scorrere soave del tempo come un paradiso perduto, che gli passa vicino, ma che non può afferrare perché separato da esso da un’infrangibile lastra dì cristallo. Le sue gioie più vere vengono dalla pagina scritta, dalla consapevolezza di lasciare dietro di sé delle cattedrali narrative, o meglio delle sinfonie, di cui altri apprezzino la poesia e la sapienza costruttiva.
Questa consapevolezza gli rende accettabile anche il pensiero della morte.
Un narratore della mia specie, di conseguenza, non può rappresentare che i problemi eterni dell’anima e della persona, non quelli pratici e chiassosi, di cui risuonano tutti i mercati delle idee correnti, tutte le piazze e tutti i palchi del nostro tempo, che ha consacrato il sociale, ma che ci ha rubato l’anima, l’interiorità, i sentimenti più veri e più intimi come gusci di cicala. A un narratore come me non interessano le questioni della prassi, dell’organizzazione della società, le utopie politiche, le aberrazioni e le patologie del vivere di oggi. I suoi materiali sono gli smarrimenti, le paure, gli stupori, le inquietudini, le ossessioni, le malinconie, i rimpianti dell’uomo, collocato da una sorte enigmatica dentro ferrei limiti esistenziali.
Quando scrivo, a me interessa il fatto che l’uomo è un essere misterioso, calato in una realtà impenetrabile da forze cosmiche di cui non sappiamo niente, se non i loro effetti esteriori e la loro smisurata potenza. Sento l’uomo come un essere con gli occhi gremiti di stupore, che non sa da dove viene, chi è e dove va. La sua unica certezza è costituita dalla morte, che lo sovrasta in modi così formidabili, nel senso corrente ed in quello etimologico, da avere, in alcuni filosofi moderni, sostituito l’assoluto, ossia preso il posto di Dio. L’uomo, assillato dall’inesorabile fuga del tempo, compie tentativi patetici e disperati di dare concretezza alla sua esistenza, e per questa via non fa che accumulare fallimenti sopra fallimenti, per una fatalità inerente alla sostanza stessa del suo vivere. Nei miei libri questi fallimenti possono provocare grottesche disperazioni, e affannosi tentativi per evitarli, e per realizzare qualcosa di solido e di concreto, che ne allontani la coscienza. Avviene ad esempio nei miei romanzi meno noti, La poltrona, o La notte del ragno mannaro. Ma possono provocare anche elegiaci sentimenti di accettazione, una malinconica rassegnazione all’inevitabile, come accade in quasi tutte le altre mie storie.
I miei personaggi, in genere, non possiedono la stoffa dei ribelli e dei prometei, ma piuttosto quella dei pensosi contemplatori del fenomeno dell’esistenza. Essi cercano di dare tutta la possibile sostanza alla inconsistenza fugace della vita, che continuamente scivola loro di mano, e tende a farsi vana e areiforme come un batuffolo di fumo. Alcuni di essi spendono anche qualche energia per aggredire l’esistenza, per tentare di chiuderla in gabbia. Altri, più saggiamente, si contentano di ciò che essa può dare, senza violentarla e senza sciuparne i lineamenti. Sanno che essa è avara, e che la cornucopia che reca sulle spalle non è che un miraggio ed un inganno. Si contentano di un po’ di serenità, un rifugio sicuro, un lavoro, un affetto. Si sforzano di sentire che la morte fa parte della vita; che è l’altra faccia di essa, l’epilogo inevitabile, che domina e condiziona tutta la loro esistenza, perché in nessun momento perdono di vista la loro consapevolezza di essere mortali.
Alcuni oppongono al fatale stillicidio del tempo un’attività creativa, o almeno il tentativo di essa. Pensano che soltanto la creazione possa costituire un punto fermo, un approdo sicuro contro lo scialo irrimediabile della vita.
La creazione infatti è una forma che si oppone al caos, dà la certezza di essere vissuti, e fornisce una provvisoria àncora di salvezza nell’eterno naufragio dell’esistere. La forma, la creazione, costituiscono per i miei personaggi la riprova che non sono soltanto ombre, fantasmi in fuga, inseguiti da sfaceli misteriosi: che non sono esseri inconsistenti come Martin Numa, costretti a riempirsi le tasche di sassi per poter restare sulla terra, dentro le sue coordinate, e non navigare nel vuoto e nell’arbitrio.
Le loro esperienze si svolgono entro una geografia letteraria che si aggira tra Pirandello e Borges.
I loro volti paiono recare la traccia dello sbalordimento di coloro che durano fatica ad esistere, e la cui vita precaria è minacciata di sfaldamento per il solo fatto che esistono la notte, la fuga del tempo, la morte.
Alcuni miei personaggi però non appartengono al genere dei Martin Numa, ma a quello dei demiurghi, visitati dall’orgoglio di plasmare non soltanto il proprio destino, ma anche quello degli altri. Arrivano magari a sfiorare la coscienza che la vita non sia che un precario collage di immagini, sopra le quali però essi possiedono un’assoluta signoria. Arrivano a credere che gli altri non contino, che non abbiano consistenza ontologica, proprio perché di essi hanno soltanto una nozione fenomenica e illusoria. Ma il loro sterile orgoglio finisce regolarmente per essere vanificato da quel domatore irresistibile che è l’esistenza. Dimentichi di ogni nozione morale, al punto da considerare gli altri come immagini di un proiettore, destinati a sparire per la semplice pressione di un pulsante, finiscono per conoscere terribili risvegli, paragonabili a quelli di maghi e stregoni che un bel giorno si accorgano di aver speso fino all’ultimo spicciolo le loro capacità magnetiche. Si ritrovano soli, sbattuti da chissà quali venti della vita, con la nuova coscienza di essere anch’essi come fumo disfatto dal vento.
Essi, dunque, ricadono nell’ontologismo precario degli altri, dei Martin Numa. Forse la realtà più consistente che i miei personaggi riescono a ritrovare in sé è costituita da archetipi misteriosi, simili a grucce o trampoli smisurati, che sprofondano nel passato.
Non appartengono soltanto al presente, che sentono precario ed effimero, ma anche e soprattutto al passato. Sentono d’istinto che lo schema esistenziale della loro vita è lo stesso degli uomini che li hanno preceduti da mille o duemila anni. Sentono che la loro personalità è fatta di costanti esistenziali, legate alla natura, e di variabili legate alla storia e alla cultura, e che le prime sono più importanti delle seconde. Sentono che i mutamenti della storia sono soltanto lo sfondo della loro vita, e che i contenuti più autentici di essa sono costituiti invece dalle costanti esistenziali.
Avvertono, soprattutto, per una sorta di atavismo, di essere la risultante di un’evoluzione biologica di millenni, di milioni di anni, e che la loro vera ricchezza e la loro vera realtà sono il passato, che ha creato dentro di loro gli schemi misteriosi dell’istinto e del pensiero.
Sono personaggi saturi di passato; essi non lo sentono lontano da sé, privo di rapporti col presente, ma come una sorta di foresta vergine, o di intatta miniera.
Sentono che l’hic et nunc è il luogo della brevità e della precarietà. Perciò fuggono da essi, non se ne lasciano ingabbiare, e preferiscono percorrere i doviziosi sentieri del passato, in cui tutto sopravvive e in cui, a chi le sappia cercare, si svelano tutte le più autentiche dovizie dell’uomo.
Ogni scoperta dei miei personaggi è in certo modo una riscoperta, un dono che essi hanno la sensazione di ritrovare dentro di sé, che avevano già posseduto e poi avevano perduto, come fosse loro appartenuto in un’esistenza precedente. Sembra che essi abbiano già avuto tutte le possibili esperienze, ma che siano sepolte sotto fitti strati di sonno, ovattate di lontananza e di dimenticanza. Il loro spirito è inconsapevolmente ricco come il sottosuolo dell’Etruria. Per essi vivere significa soprattutto affondare le loro sonde nella necropoli interiore, e riportare alla luce ciò che essa nasconde da millenni. Anche per questo hanno un’eterna aria di sonnambuli, di esseri stupefatti e disorientati. Possiedono una perenne, nebulosa consapevolezza che le loro emozioni, i loro sentimenti, le loro esperienze sono già avvenuti milioni di volte prima di loro, in altri che li hanno preceduti sulla terra.
Possiedono un’intima consapevolezza che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, e tutto non è che un perenne rifacimento del già avvenuto. Una delle ideologie più ribadite nei miei libri è che la vita è ciclica, e che tutto si ripropone in un’eterna giostra che gira e ritorna perennemente al punto di partenza. Gli uomini spesso non se ne accorgono soltanto per la brevità della loro esistenza, per la vastità del cielo e la lentezza del suo girare. Un movimento circolare, di raggio enorme, può ben avere la parvenza di un moto rettilineo. La terra stessa è curva, ma sembra piatta a causa delle sue grandiose dimensioni.
Ma ai personaggi più avvertiti, più carichi di capacità contemplative e di doti profetiche, questa verità elementare non sfugge, e anzi si arricchisce di tutti i possibili corollari. Essi, sovente, hanno la sensazione di percorrere binari già prefissati, come fossero delle carrozze ferroviarie. Magari se ne accorgono soltanto a posteriori, non lungo il tragitto, ma soltanto quando giungono alla stazione. Molti di essi sono accompagnati da un forte senso del destino, e da un amore nicciano per esso.
Li accompagna una coscienza imprecisa che, comunque vadano le cose per loro, esse si impasteranno in modo da formare l’abbozzo di qualcosa di cui esisteva un archetipo da tempo immemorabile.
Talvolta sentono di essere dei vocati, dei potenziali profeti, che parlano in nome di molti, che sono portavoce di tutto un popolo, come il Simone di Gli dei torneranno. Talaltra, alla sensazione di essere stati chiamati, non corrisponde in seguito una realizzazione effettiva: ma il loro destino di stranieri, di personaggi che vedono le cose dal balcone dell’eternità, sembra compensare a sufficienza la vuotezza, l’inconsistenza e la solitudine della loro vita. Paiono sempre, in maniera più o meno chiara, delle proiezioni, delle ombre di archetipi collocati infinitamente più a monte di loro, quasi delle idee platoniche di essi, esistenti in un ipotetico iperuranio.
Ma non è necessario scomodare per forza Platone, parlando di Sgorlon, come sarebbe necessario se il discorso fosse su Borges. Possono bastare gli archetipi, l’inconscio individuale e collettivo di Jung. Possono bastare le idee innate di cui parlano tanti filosofi, ad esempio Kant, secondo il quale le categorie dell’intelletto sono i meridiani e i paralleli attraverso i quali noi creiamo il reticolo geografico del reale e ci orientiamo dentro di esso. Le metafore si potrebbero moltiplicare. Ma sarebbe una moltiplicazione sterile, forse dannosa. Gli archetipi che proiettano la loro ombra sopra i miei personaggi non si precisano, non assumono volti definiti, che forse toglierebbero loro capacità suggestiva. Ci sono, e questo è tutto.
I miei personaggi avvertono che il loro disorientamento originario diminuisce proprio per l’esistenza di queste ombre del passato, che si proiettano su di loro. Sentono, per lo più, di essere fantasmi shakespeariani che vagano nell’infinito, che vengono dal mistero e vanno verso il mistero. Sentono in ogni momento di essere pellegrini del labirinto e dell’enigma. Sulla loro faccia è eternamente dipinto lo smarrimento di coloro che si sono persi nella savana o nella taiga.
Eppure dentro quella savana, o quella taiga, v’è almeno la vaga traccia di qualche sentiero. Sono le ombre degli archetipi. Vi è l’inconscio, che proietta le proprie immagini e le proprie categorie. Vi sono gli istinti e le potenzialità della ragione. Per quei sentieri fantasma, percettibili soltanto “per nubes et aenigmata”, uomini e donne dei miei romanzi si avviano con una malinconica serietà. Credo di essere uno scrittore ben lontano dalla disperazione di un Beckett o di un Céline. Nonostante le premesse, i miei personaggi non sono soltanto dei disperati pellegrini del nulla. Sono piuttosto degli strani sacerdoti in cui sopravvive una patetica nostalgia di Dio, e di certezze. Sembrano conservarsi fedeli ad una consegna ricevuta da tempi immemorabili, da un re che non dà più segnali della sua esistenza.
Non per questo essi hanno perduto il sentimento del sacro e del divino. Certo non si sforzano di proiettare la pienezza e l’ordine, dove scorgono la vuotezza e il caos. Non ricorrono alle favole cristiane del Dio padre e della Provvidenza. Per conservare il senso del sacro, è loro sufficiente il sentimento del mistero e dell’infinito che li circonda. L’antico Dio, personale e paterno, è stato sostituito in loro da un Dio più concepibile e vago: quello dei panteisti. Alcuni dei miei personaggi in particolare sentono che la realtà, il cosmo, la natura, l’evoluzione, le grandi forze che compongono il mondo e che li sovrastano, non sono che sinonimi di Dio. Da ciò l’impressione di sacralità e di religiosità indefinita che i miei libri emanano. Non è una religiosità cattolica, o luterana, o ebraica, ma panteistica. Non c’è dubbio, comunque, che anche per questa via i miei libri vadano in direzione contraria al complesso di idee che dominano la nostra cultura.
Oggi la cultura è profondamente atea. Non solo ha decretato la morte di Dio, ma è radicalmente dissacratoria. In nome di un’utopistica liberazione totale dell’uomo va distruggendo sistematicamente, uno dopo l’altro, tutti i templi e i padiglioni del sacro, e va precipitando la società dentro una Abu Simbel di caos e disfacimento. lo invece, per quel poco che posso, cerco di recuperare al sacro il maggiore spazio che mi sia possibile. Perciò vado descrivendo una civiltà arcaico-sacrale, che affonda ancora qualcuna delle sue radici nel magico e magari nel superstizioso. In fondo anche la superstizione risente di due entità che io mi sforzo di ripristinare, o quantomeno di dimostrare che hanno ancora qualche spazio nell’anima dell’uomo: il totem e il tabù, il senso del sacro e il senso del proibito, senza i quali la vita umana non è neppure concepibile, e si avvierebbe, come sta accadendo di fatto, verso la china apocalittica dell’autodistruzione.
Procedendo nella tendenza attuale alla dissacrazione, l’area del sacro e del divino verrà sempre più invasa da ideologie utopistiche e retoriche, prive di conoscenza della natura profonda dell’uomo: ad esempio quella della liberalizzazione assoluta e quella del collettivismo, ambedue, secondo me, rovinose e aberranti. Con questa impostazione ideologica si spiegano tutti gli aspetti magico-sacrali, arcaici e superstiziosi della mia narrativa. Da ciò, ad esempio, la mia simpatia per le civiltà contadine, che sono impastate di tutti questi aspetti.
Per ragioni basate su un comprensibile risparmio di energia mentale, tutti gli scrittori vengono ridotti a un clichè, più o meno angusto, più o meno accettabile. Il mio è quello di ingenuo cantore, carico di nostalgie e di rimpianti, della civiltà contadina friulana. Così vengo introdotto, magari con il rispetto dovuto a chi ha cominciato prima degli altri, in un filone che in questi anni si va ingrossando sempre più: quello degli epigoni che rappresentano un mondo contadino in via di estinzione. Io accetto questa etichetta che mi è stata incollata addosso con la serenità con cui accetto tutte le cose. Anche se mi va piuttosto stretta, mi rendo conto che è il minimo prezzo da pagare per chi ha voltato le spalle quasi completamente alla cultura del proprio tempo. Tuttavia approfitto di tutte le occasioni che mi vengono offerte per dimostrare come essa, in realtà, presupponga un sistema di idee e di sentimenti ben più vasto di quello che potrebbe sembrare a prima vista.
Celebrazione della civiltà contadina non significa in me soltanto un filo di nostalgia per una società patriarcale, conservatrice, genuina, ma per tutta una costellazione di idee e un intero sistema di pensiero. Ne conseguono molti corollari. Ad esempio, la mia simpatia per l’epica, per le saghe, per i cantastorie, per tutto ciò che attiene al leggendario, al favoloso, all’esotico.
La tonalità epica, che sostiene tutti i miei libri, dal Trono di legno in poi, è senza dubbio connessa con il sentimento magico-sacrale del mondo.
I sociologhi della letteratura (e confesso la mia scarsa simpatia per ogni tipo di sociologia, scienza non esatta, con tendenze totalizzanti e coercitive) conoscono saputissimi argomenti per dimostrare che l’epica ai nostri tempi, non è più possibile. Ma, guarda caso, i libri italiani più belli di questi ultimi anni, La storia della Morante, Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, e aggiungerei anche Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, sono appunto libri epici, che nascono da concezioni sacrali del grande mistero della realtà. Certo, se si è convinti che viviamo in un’epoca totalmente dissacrata, capace soltanto di irrisione, di ironia, di parodia e di grottesco, allora l’epica è veramente impossibile. Se non si sente la realtà come divina, infinita e misteriosa; se si è convinti che tutte le idee e tutti i sentimenti siano stati polverizzati per sempre dai cingoli di bulldozer della civiltà industriale, che ha la vocazione distruttiva, allora non si può far altro se non l’ironico catalogo delle macerie in mezzo alle quali viviamo. Allora non si può fornire ai propri lettori disappetenti se non delle apocalissi in pillole, come fanno tanti coltissimi e intelligentissimi homunculi della nostra letteratura. In pillole, appunto, perché le loro apocalissi non hanno alcuna grandezza.
Ma chi è resistente ai veleni del nostro tempo, può benissimo continuare a far dell’epica. Le leggi della sociologia non somigliano minimamente a quelle di natura, e per individui come me sono fatte apposta per essere violate. L’epica in me nasce dalla stessa fondamentale serietà e solennità sacrale della mia concezione della vita; dal mio modo di sentire l’arcaico, gli archetipi, i grandi spazi del tempo e della geografia.
La mia è un’epica che tende alla saga, alla leggenda, al mito e alla favola. Perché? Alcune risposte sono seppellite sotto i massi delle cose già dette, e basta rovesciarli o cambiarli di posto per trovarle. Il mito, ad esempio, non è che una storia archetipica, fornita di significati perenni, che si ripresentano infinite volte nell’eterna ciclicità dell’esistenza. Per convincerci del valore esemplare del mito basterebbe pensare soltanto all’utilizzazione che di esso è stata fatta da Freud e da Jung. Ogni mito corrisponde ad una situazione del nostro inconscio e della nostra psiche, individuale o collettiva. La leggenda non è che la storia passata attraverso le acque della lontananza e della mitizzazione. Io tendo a raccontare il vero, la realtà. Infatti niente mi è più estraneo delle noioserie e delle astruserie della fantascienza, o comunque della favola artificiosa e astratta.
La mia realtà si avvicina alla fiaba e alla leggenda soltanto perché pare venir da lontano. Sembra che abbia attraversato boschi, valli e pianure prima di arrivare sulla pagina e sotto gli occhi dei lettori. Per via le mie storie si sono caricate di echi e di risonanze esotiche e suggestive. Sono passate attraverso le menti dilatatorie di uomini arcaici, di popolani incolti e prescientifici. Sono state trasportate da venti lontani, che soffiano liberamente, e si sono impregnati di pollini di regioni remote.
La mia narrativa è piena di echi e di sussurri. In essa vi sono risonanze slave, asiatiche, sudamericane, africane. Vi è il senso del lontano, di chi non lo ha mai visto, o di chi, pur avendolo visto, lo ha riplasmato e rovesciato in leggenda. Certi miei personaggi sono stati dappertutto e la loro memoria è vasta quanto un continente. Hanno indossato la leggenda come fosse un mantello. Talvolta sono arrivati ai limiti della favola, spesso inseguendo illusioni e miraggi.
Non è certo un caso. Direi anzi che, con questo argomento, si entra in uno dei padiglioni più riposti ma più importanti della mia ideologia. La favola e il miraggio sono così frequenti nella mia narrativa perché da gran tempo mi sono accorto che gli uomini li inseguono assai più di quanto non facciano con la verità. E’ illusorio pensare che la nostra cultura sia entrata nella zona certificata dalla storia e dalla scienza. Nel mio libro, La carrozza di rame, sostengo che gli uomini non entrano mai veramente nella storia: non fanno che passare da un mito, spesso affascinante ed umanissimo, come sono quelli della civiltà arcaica e contadina, ad un altro mito, spesso sanguinoso e utopistico, come quello in cui sono entrati oggi i rappresentanti del partito armato.
Se mi guardo attorno ho la sensazione che mai come oggi il mondo sia stato pieno di inseguitori di miti e di utopie; di mondi perfetti collocati nel futuro, per raggiungere i quali, si dice, bisogna passare attraverso paludi di sangue e spazi di generazioni e generazioni.
Sono prezzi esorbitanti, che io personalmente mi rifiuto di pagare, e per i quali mi affretto a sostituire il mio biglietto da visita, come Ivan Karamazov. Ma anche quando si parla di utopie a più buon prezzo, si tratta pur sempre di utopie, collocate in futuri imprecisati. Nel futuro però di certo v’è soltanto la morte, come afferma il saggio Svelare la morte di Fausto Gianfranceschi. Perciò tutti gli adoratori del futuro, che odiano e aborriscono il presente perché imperfetto, sono in realtà dei mascherati adoratori della morte, inseguitori di illusioni e di bolle di sapone, come i personaggi dell’Ariosto.
La vita in effetti è un po’ l’inseguimento eterno di un miraggio.
E gli uomini che difettano di capacità filosofiche e contemplative, e che inseguono eternamente i fantasmi della moda, non fanno che passare da un’illusione all’altra. Non giungono mai alla verità, perché essa non esiste. Soltanto, buttando via una foglia dopo l’altra del loro carciofo, prima o poi arrivano a imbattersi nella morte. Ma non voglio finire con questa lugubre parola: morte.
Invece vorrei concludere spendendo due parole su un aspetto della mia opera che a me pare importante: la simpatia per l’uomo. Una simpatia profonda che è, certo, anche sentimentale, ma che è sostenuta da motivazioni ideologiche. Gli uomini mi sono simpatici, come afferma anche il protagonista della Carrozza di rame, semplicemente per il fatto che vivono e che sono destinati a morire. Per il fatto che provano tutte le mie ansie, inquietudini, angosce, disperazioni, illusioni. Mi sono simpatici perché condividono il mio destino. Perché mi trovo assieme a loro, naufrago, sopra una zattera di salvataggio che si chiama terra, e che pare sempre più in pericolo e prossima a rovesciarsi.
Amo i miei simili perché non sanno niente né di sé né dell’universo. Li amo perché, probabilmente, sono gli unici esseri viventi, su miliardi e miliardi di corpi celesti, che abbiano coscienza della loro situazione e del loro destino. Talvolta si macchiano di nefandezze e turpitudini, è vero. Ma non posso dimenticare che lo fanno, per lo più, per inseguire i loro miraggi e le loro utopie. Essere uomini significa anche questo.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 29.2.1980 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.