L’itinerario di questo mio intervento ha un preciso limite: non ho il tempo di svolgere il tema del rapporto tra morale e politica. Mi fermerò pertanto a quello del Sacro e del Politico, delineando le due sue forme tipiche di attrazione negativa:
Il Sacro e il Politico, l’Etico e il Politico sono temi su cui corre, come direbbe Vico, la storia di ogni tempo e dunque anche del nostro, la cui «esemplarità» sta proprio nell’aver portato alle estreme conseguenze, anche nel terreno della prassi, alcuni modi di concepire il rapporto tra il Sacro e il Politico, così come tra la sfera morale e quella politica.
Come in ogni altro ambito della ricerca, anche qui le soluzioni più aberranti e disumane sono quelle monistiche, quelle cioè in cui uno dei termini stessi del problema è prima banalizzato e poi cancellato a vantaggio dell’altro, che non solo lo domina, ma lo risolve interamente in sé.
Quando il politico cancella il sacro – disconoscendone la presenza storica, l’intrinseco dinamismo e l’incoercibile appello al trascendente – allora si ho il politicismo assoluto, cioè la divinizzazione della politica, i cui protagonisti e i cui miti sono così trasformati in mostruose divinità, gli Dei appunto del terrestrismo totalitario, gli Dei dell’immanenza cieca ad ogni valore che trascende la storia e prona dinanzi a quelle forze – l’ideologia, il partito, la classe, la razza – che nella storia fanno irruzione col sigillo di un successo che acriticamente si crede immancabile e definitivo.
Quando invece – ed è l’altro corno dell’errore – in nome del Sacro si comprimono le molteplici esigenze e i valori specifici della politica, e si pretende altresì di esercitare il potere in veste sacrale, si hanno allora quei fenomeni che l’Occidente ha designato con i nomi di teocrazia e clericalismo. La condanna della teocrazia e del clericalismo dev’essere per il cristiano senz’appello. L’una e l’altro comportano infatti la strumentalizzazione politica del Sacro, e quindi il misconoscimento della universalità e della trascendenza del valore propriamente religioso.
Sì che, paradossalmente, il non-credente può ben praticare e teorizzare l’uso strumentale della religione, ma non il credente, non il cristiano, a cui concezioni e pratiche del genere devono profondamente ripugnare, e apparire logicamente assurde, tali da compromettere il cammino del messaggio evangelico tra gli uomini. Si comprende allora l’incomparabile forza liberatrice del comando di Cristo: «Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio» (Mt. 22, 21-22).
Parole con cui Gesù scredita ogni esercizio clericale del potere, ogni confusione e inversione di campo del politico da parte del religioso, affermando, nello stesso tempo e nella stessa frase, il carattere non esclusivo, né assoluto dello Stato, chiamato a riconoscere accanto alla sua sovranità, un’altra basiléia, quella di Dio.
Quelle parole costituisco la radice prima della liberazione della politica sia dall’imbarbarimento totalitario che dalla degenerazione teocratico-clericale.
E se è vero come è vero che il genio dell’Europa – e dell’Occidente – sta nell’aver costruito una civiltà multiforme, in cui è organicamente impossibile per un solo principio – intellettuale, religioso o politico – soffocare, assoggettare, cancellare interamente gli altri, ebbene ciò è stato reso possibile in primo luogo dal messaggio religioso che ha fecondato i popoli europei, da quel Vangelo che portava dentro si sé l’obbligo addirittura di rispettare la pluralità delle sfere della vita, ponendo a fondamento del rapporto tra il Sacro e il Politico una distinzione che scredita per sempre tanto lo Stato totalitario, quanto lo Stato teocratico e confessionale.
Chi ha compreso fino in fondo il carattere decisivo del rapporto tra il Sacro e il Politico e l’abisso infernale in cui gettano l’umanità le false soluzioni di quel problema, è stato Dostoevskij.
Il Dante russo nella Leggenda del grande inquisitore ha rilevato alla coscienza cristiana l’essenza profonda della figura del Cristo e la religione cristiana come religione della libertà, perché il dominio dell’amore è l’unico che sia compatibile con la libertà.
Ma Dostoevskij, come tutti i sommi, con la sua arte se parlava nel secolo scorso, però ci parlava dal nostro futuro, dalla visione profetica di quella che sarebbe stata la tragedia del Novecento, che Karl Dietrich Bracher ha chiamato Il secolo delle ideologie, il secolo cioè dell’asservimento di centinaia di milioni di uomini e di donne al Moloch, al Leviatano dello Stato ideocratico.
Come ha notato Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev nel suo stupendo libro La concezione di Dostoevskij, la tentazione teocratica con le sue pericolose deviazioni dallo spirito e dalla lettera del Vangelo, è agli occhi di Dostoevskij cosa del passato e il regno del Grande Inquisitore si riferisce essenzialmente al futuro imminente, al socialismo ateo e materialistico, cioè a quello Stato ultra-confessionale che sorge quasi sempre dopo una rivoluzione, uno Stato in cui godono i pieni diritti solo quelli che appartengono alla religione atea dello Stato ideocratico e totalitario.
Lo Stato costruito secondo l’archetipo dell’ideologia e per il trionfo dell’ideologia sul piano della storia nasce solo nel nostro secolo, in connessione con la crisi della guerra e del dopoguerra (1917-1933), perché solo in esso si verifica la trasformazione di idee politiche in ideologie, cioè in sistemi chiusi e intolleranti per cui è obbligatorio fare del confronto politico un atto di guerra civile e dell’avversario un nemico da eliminare (vedi Ernst Nolte La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo).
L’ideologia e lo Stato totalitario cancellano, per definizione, il concetto stesso del limite della politica w della distinzione tra la politica e le altre attività umane, facendo di se stessi il nuovo assoluto. «Nulla contro lo Stato totalitario, nulla fuori dallo Stato totalitario, nulla al di sopra dello Stato totalitario» (Mussolini – discorso del 28 ottobre 1925).
L’ideologia totalitaria sorge come “religione di ricambio”, auto-divinizzazione del potere rivoluzionario, ed insieme come esito inevitabile di una visione del mondo immanentistica, in cui l’umanità realizza integralmente il suo destino nella sola dimensione terrestre.
Nella prima metà dell’Ottocento Alexis de Tocqueville previde che la più radicale forma di sacralizzazione del potere politico sarebbe stata realizzata dall’utopia una volta che fosse pervenuta al potere e confessava di non avere un nome per designare un evento così pauroso, che poi il fascismo italiano designò con il termine di totalitarismo.
Il totalitarismo comunista o fascista che sia, non è, quindi, una “eresia del mondo cristiano” – come stucchevolmente si continua a ripetere – ma il più gigantesco tentativo di soppiantare il Cristianesimo stesso.
L’ideologia totalitaria – che voleva soppiantare ogni alienazione – si è così rilevata come la più sofisticata e insieme la più insostenibile delle alienazioni, vera e propria illusione e mitologia del nostro tempo, perché essa non fa altro che elevare di continuo, dommaticamente, i fini contingenti e i metodi discutibili della politica di questo o quello Stato totalitario a fini assoluti della storia e a tappe necessarie del progresso dell’umanità. Era questa l’obiezione semplice e profonda che Schopenhauer muoveva alla concezione hegeliana della storia e che, a mio avviso, va riproposta parola per parola, a Marx, a Lenin e ai loro epigoni.
A nostro avviso lo studio dell’«anti-umanesimo strutturale» proprio dell’ideocrazia totalitaria va condotto lungo una triplice direzione: a) riguardo alla sua intelaiatura teorica; b) attraverso la conoscenza di ciò che essa ha prodotto nella vita dei popoli; c) mettendo rigorosamente in luce, cosa che ancora non si osa né fare e neppure dire in Italia, l’identità sostanziale dei metodi posti in essere da ideologie che in astratto si presentano come antitetiche.
Le conclusioni a cui sono pervenuto nella ricerca sui caratteri e sugli esiti dell’ideologia totalitaria a me sembra che debbano evidenziare di quel fenomeno il complesso messianismo, la connessione tra gnosi e ideologia, l’irrazionalità di fondo del preteso “sistema scientifico”, la millantata offerta di “soluzione finale” dei problemi, la malafede oggettiva, l’amaro risveglio del “giorno dopo”.
Nota: Testo scritto in vista di una lezione / conferenza. Non si conosce la data di redazione. Ritenendo che sia stata scritta tra il 1990 e il 1992 (citazione di Nolte), è stata inserita come data 1.1.1991.