La guardia d’onore in alta uniforme apriva le porte maestose del Cremlino davanti a Vladimir Putin, che giovedì 9 celebrava nella neve di maggio l’anniversario della Vittoria, «la nostra festa più sacra», e insieme il suo quinto mandato alla guida della Russia. Ma soltanto tre mesi prima una porta di ferro si era chiusa per sempre davanti a Aleksej Navalny, morto a 47 anni nella colonia penale a regime speciale di Kharp, oltre il Circolo polare artico, dopo 300 giorni di cella d’isolamento e una condanna infinita. Le due figure sproporzionate nel potere e nel destino sono tuttavia collegate tra loro, perché la tensione putiniana verso il dominio assoluto non ha trovato ostacoli nelle istituzioni russe, ma ha dovuto fare i conti con la testimonianza irriducibile di Navalny, che con la sua scelta di denuncia estrema ha trasformato il dissenso in opposizione. Che cosa resta oggi di quella ribellione che ha tentato di far nascere una pubblica opinione nel Paese in cui l’individuo si è trasformato da suddito a bolscevico, senza mai diventare cittadino, portatore consapevole di diritti? Un libro pubblicato da Scholé (“Io non ho paura, non abbiatene neanche voi”) raccoglie le parole di Navalny dal 2010 fino all’ultimo post alla moglie per San Valentino, due giorni prima della morte: sono appunti, messaggi affidati agli avvocati in visita nella prigione, lettere, dichiarazioni che il detenuto ha pronunciato davanti ai giudici stravolgendo il diritto dell’imputato all’”ultima parola”, trasformata in otto processi in un atto d’accusa contro il regime. Un documento appassionato di denuncia, dunque, e insieme di speranza, che dura oltre la morte, e rivela come la lotta per la democrazia in Russia riesca a sopravvivere anche oltre quella porta di ferro.
Navalny era arrivato fin qui dopo l’attentato con il novichok, quando era stato avvelenato rischiando di morire sull’aereo che da Tomsk lo riportava a Mosca, e riuscì a salvarsi solo per la decisione del pilota di atterrare immediatamente per prestargli soccorso: «È una giornata magnifica, sono seduto al mio posto, mi aspetto un viaggio tranquillo e mi preparo a guardare una delle mie serie preferite, quando sento che qualcosa non va, come un sovraccarico che mi spezza. Sudore gelido. Dico a Kira: parlami, ho bisogno di sentire una voce, non capisco cosa mi sta succedendo. Vado alla toilette, mi lavo con l’acqua gelida, niente. Non ho dolore, ma so con sicurezza che sto morendo, proprio lì, in quel momento. Mi stendo sul pavimento, lo steward si china su di me, gli dico: mi hanno avvelenato, muoio. Poi più niente, perdo conoscenza ». Le cure in Germania, il coma, Yulia gli parla, canta, ricorda a voce alta, spiega, lui riapre gli occhi ma non riesce a parlare e non sa chi è lei, capisce solo che quando è nella stanza lo fa sentir bene: lo salva. Poi, nel gennaio 2021, la decisione di tornare in Russia, sapendo che sarebbe stato definitivamente arrestato. Perché? «Il dilemma tornare o non tornare non si è mai posto, non c’è stata nessuna discussione, per la semplice ragione che io no n avevo mai deciso di andarmene, ero finito in Germania in una capsula di terapia intensiva solo perché avevano tentato di uccidermi. Sono tornato perché dovevo farlo e volevo farlo. La Russia è il mio Paese, ho sempre detto alle persone che venivano ad ascoltarmi nelle manifestazioni che non li avrei mai abbandonati: alla fine della fiera dovrà pur apparire in Russia qualcuno che non mente, e fa corrispondere le parole alla realtà. Così ho comprato i biglietti dell’aereo».
C’é in questa scelta la fedeltà a un impegno con se stesso e con la Russia: «Io non mi faccio illusioni, capisco tutto. L’unica cosa che non capisco è perché troppi continuano ad abbassare lo sguardo. La vita è troppo breve per guardare solamente il tavolo e scrollare le spalle. Gli unici momenti della nostra vita che hanno un senso sono quelli in cui facciamo qualcosa di giusto, quando alziamo lo sguardo e ci guardiamo negli occhi. Tutto è costruito sulla menzogna, ma non vogliamo vedere. Cosa abbiamo ottenuto distogliendo lo sguardo? Questo: abbiamo permesso che ci trasformassero in bestiame. Io esorto tutti a vivere senza menzogna. Si può, senza azioni disperate ma moralmente giuste, senza persone che osano l’ impossibile non ci possono essere persone prudenti che imboccano il sentiero corretto ». Ma c’è anche una fede vera e propria, adulta, un ravvedimento dopo l’ ateismo feroce della gioventù: «Sono credente, mi piace essere cristiano e ortodosso, sentirmi parte di qualcosa di grande e condiviso. Tutto diventa più semplice, ho meno esitazioni nella vita perché esiste un libro in cui è scritto cosa bisogna fare in ogni situazione. È scritto anche“beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati”. Ecco, io ricevo molte lettere di speranza e una su due finisce con la frase “la Russia sarà libera”. Bene, ma non basta perché ognuno vede che siamo un Paese infelice. Dunque la Russia dovrà essere libera, e finalmente felice ». Da qui l’invito a non farsi divorare dall’odio, neppure per i carcerieri, i giudici, il potere. E le dichiarazioni di Navalny nel passato, con gli immigrati clandestini definiti “scarafaggi” nel 2007, il nazionalismo esasperato, l’assoluzione per l’occupazione della Crimea? «Ho fatto e detto molte cose di cui mi pento e mi sono scusato. Non faccio fatica a riconoscere i miei errori. Sulla Crimea ho detto la verità, è un problema che durerà anni, come Cipro del Nord, le Falkland, le isole Curili, ne discuteranno i nostri nipoti. Ma l’occupazione della Crimea è stata chiaramente illegale, e qualsiasi ricerca di soluzione deve cominciare da un vero referendum, onesto e trasparente, non come quello che c’è stato. E la Russia deve riconoscere i confini dell’Ucraina. Quasi tutti i confini nel mondo sono casuali, ma combattere per cambiarli nel XXI secolo non si può, si sprofonderebbe nel caos». Dalla denuncia della corruzione alla battaglia per la democrazia: «Noi siamo particolari, come ogni nazione, ma siamo Europa, siamo Occidente. La nostra struttura politica fondamentale dovrebbe essere la democrazia parlamentare, dove le libere elezioni, i tribunali indipendenti e la libertà di stampa dovrebbero essere sacri».
Ma il sacrificio di una vita è il modo più giusto per combattere questa battaglia? «Ho imparato a non considerare la mia situazione come un peso, ma solo come un lavoro. Ogni lavoro ha una parte spiacevole: e io sto facendo la parte sgradevole del lavoro che mi sono scelto». Nella realtà quotidiana, vuol dire sedici condanne all’isolamento, sveglia alle 6, inno nazionale, esercizio fisico all’aperto, marcia sul posto, sbobba nelle ciotole di metallo dove poi si verserà il tè, un uovo sodo due volte alla settimana, il lunedì e i venerdì, la scelta tra il mestiere prigioniero di “cucitrice” e quello di panettiere, le finestre della baracca sigillate con fogli di carta bianca sui vetri, le grida nel buio col suo nome: «Aleksej, aiutami». I tormenti psicologici: gli stivali di feltro che non arrivano, a 32 gradi sotto zero e con il cortile dell’ora d’aria completamente ghiacciato; il compagno di cella nuovo e l’ avvertimento: ha la tubercolosi attiva; quindi l’arrivo di un “demonio”, che nel gergo carcerario è un barbone che non si lava mai; e infine la decisione di ospitare nel braccio deserto, ma proprio nella cella di fronte, uno psicopatico che urla, ringhia e ulula per 14 ore al giorno, e continua di notte. Poi le razioni speciali di cibo comprate alla mensa, pagate ma sospese se si finisce in isolamento, dove vengono mostrate, e sottratte, secondo regolamento. «È chiaro che preferirei non dovermi svegliare in questo canile, e fare invece colazione con la mia famiglia, ma la vita funziona in modo tale che il progresso sociale e un futuro migliore si ottengono solo se qualcuno è disposto a pagare per il proprio diritto ad avere delle convinzioni, e a unire la coscienza con il raziocinio».
E oggi, tutto questo è svanito? «Forse a voi sembra che io sia pazzo, nuotando controcorrente. Invece a me sembra che siate voi i pazzi. Avete una vita sola, e per cosa la spendete? Potete opporvi, ognuno può fare qualcosa, parlare coi vicini, attaccare un volantino, tenere un blog, scrivere sui social, disegnare graffiti. Voi potete: non abbiate paura».
La Repubblica, 13 maggio 2024