Il significato attuale dei Diari di Etty Hillesum

Se non vogliamo leggere il diario di Etty Hillesum esclusivamente come opera letteraria, né come un documento di rilevanza storica, allora la domanda è : quale senso possiamodare alle sue parole settant’anni dopo? Proporrei due risposte delle molte possibili.

 1. Credere in Dio

 In primo luogo vorrei parlare della rilevanza teologica della sua opera. Sembra strano, perché Etty Hillesum non era una teologa. Non aveva una formazione teologica. E il suo stile di vita avrebbe suscitato qualche perplessità di quel ambiente, sicuramente in quel epoca.

 Etty Hillesum non intendeva riconoscersi integralmente in alcuna concezione del mondo, in alcuna ideologia. È un aspetto importante della sua visione della vita che ben si accorda con quella maggiormente in auge ai nostri giorni, nei quali riscontriamo una profonda avversione nei confronti delle ideologie. Molti si sono cioè lasciati alle spalle le concezioni ideologiche totalizzanti. È interessante constatare come Etty Hillesum esprima questa convinzione già nel 1941. Per chiarire il punto, vorrei riportare un suo passo relativo all’incontro a cui assistette tra i suoi amici Julius Spier e Werner Levie. Ecco come una sera i due discussero sul rapporto tra Cristo e gli ebrei:

Venerdì [28 Novembre 1941] sera dialogo tra S[pier] e L[evie]: Cristo e gli ebrei. Due filosofie di vita, ambedue nettamente delineate, brillantemente documentate, compiute e armoniose, difese con passione e aggressività. Trovo tuttavia che in ogni concezione della vita difesa con piena consapevolezza penetri sempre l’inganno, e che alla fine la verità venga aggredita in nome dell’ideologia.

 Tuttavia il suo diari contiene diversi brani di cui la profondità teologica non che in molte opere teologiche di rinnomate non si trovano. Per esempio il seguente brano:

Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle bufere di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me. E tanto per fare un’esempio: se io mi trovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora ti porterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza. Non posso garantirti niente a priori, ma le mie intenzioni sono ottime, lo vedi bene.

  E ora mi dedico a questa giornata. Mi troverò fra molta gente, le tristi voci e le minacce mi assedieranno di nuovo, come altrettanti soldati nemici assediano una fortezza inespugnabile.

 In questo e in altri brani Etty Hillesum scrive “mio Dio” e a Lui rivolge la parola. Dobbiamo però chiederci: quale significato riveste, per lei, questo modo di scrivere? Anche una lettura sommaria del diario dimostra come la parola Dio non abbia sempre la stessa accezione. Cerchiamo di comprendere meglio questo punto esaminando alcuni frammenti dei primi quaderni diaristici nei quali è presente la parola Dio.

   L’uso di questa terminologia potrebbe essere un’imitazione della figura stilistica usata da Rilke, che per la Hillesum costituiva un traguardo. Il poeta praghese, una personalità assai complessa, ebbe una carriera letteraria che si sviluppò attraverso varie fasi. Nel cosiddetto secondo periodo egli pubblicò il poema Das Stunden-Buch (Il libro d’ore, 1905) e anche il carteggio con Lou Andreas-Salomé, alla quale il poeta dedicò l’opera. Fu questa la fase creativa che più interessò Etty Hillesum, anche se costei lesse diverse altre opere di Rilke scritte successivamente.

   Ne Il libro d’ore il poeta parlò a Dio come se stesse parlando a sé stesso. Rilke non considerava Dio un’entità trascendente ma qualcosa presente dentro di sé. Ci si potrebbe domandare se il nome ‘Dio’ non fosse soltanto una metafora letteraria volta alla spiegazione delle sue idee. Se così fosse, il termine ‘Dio’ non avrebbe alcun significato al di fuori dei confini dell’opera letteraria del poeta.

   Etty Hillesum ha introdotto la parola Dio come una figura immaginaria con lo scopo di rendere più agevole l’espressione dei suoi pensieri. Lo si vede con chiarezza nella citazione seguente:

Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità chiamo «Dio».

 Dio, in questo caso, non è che una comoda locuzione per quello che l’autrice considerava la parte più profonda di sé. Abbiamo a che fare, a mio parere, con un’imitazione del modello letterario che Rilke applicò ne Il libro d’ore.

            Se le cose stanno così, pregare è solo un modo di parlare a sé stessi. Ma perché Etty Hillesum avrebbe dovuto prendere in prestito da Spier un rituale che questi aveva mutuato dal cristianesimo? Perché mettersi in ginocchio come fosse una cattolica fervente? Non è un gesto superfluo, se non si fa altro che accingersi a parlare con sé stessa? Ma vediamo cosa ha scritto al riguardo il 10 ottobre 1942:

 Di questa vita e di questa epoca credo di poter sopportare e accettare ogni cosa. E quando la burrasca sarà troppo forte e non saprò come uscirne, mi rimarranno sempre due mani giunte e un ginocchio piegato. È un gesto che a noi ebrei non è stato tramandato di generazione in generazione. Ho dovuto impararlo a fatica. […] Com’è strana la mia storia – la storia della ragazza che non sapeva inginocchiarsi. O con una variante: della ragazza che aveva imparato a pregare. È il mio gesto più intimo, ancor più intimo dei gesti che riservo a un uomo.

 Mettersi in ginocchio per pregare segnò l’inizio del percorso che l’avrebbe portata al concetto di ‘Dio’, concetto che acquisisce sempre maggior significato col procedere della stesura dei suoi diari, sebbene risulti molto difficile tracciare la precisa cronologia di questa evoluzione.

          Trascendenza rispetto a immanenza

 Possiamo avvicinarci a questo sviluppo prendendo in considerazione la differenza tra la trascendenza e l’immanenza di Dio. La Bibbia ritrae Dio come un essere trascendente, un essere che regna nel cielo. Il Dio di Israele è un individuo con un carattere ben definito e non, a differenza di come è stato descritto da alcuni filosofi greci, un principio generale. Il Dio della Bibbia non può essere trovato in un essere umano. Al Suo cospetto l’uomo non è altro che polvere e cenere.

            Ma nonostante questa disuguaglianza Egli vive con il suo popolo, per riportare un pensiero di Martin Buber, uno degli autori letti da Etty Hillesum, un rapporto Io-Tu.

            In contrasto con tutto ciò, Etty Hillesum tende ad alludere a un’immagine di Dio come alla parte più intima dell’essere umano, ovvero a un dio immanente. Scrive il 17 settembre 1942:

Il mio sentimento della vita è così intenso e grande, sereno e riconoscente, che non voglio neppure provare a esprimerlo in una parola sola. In me c’è una felicità assolutamente perfetta e piena, mio Dio. E ciò, come al solito, trova la sua espressione migliore nelle sue parole [di Spier]: «riposare in se stessi», e sarebbe forse anche l’espressione più compiuta del mio generale sentire nei confronti dellavita: io riposo in me stessa. E chiamo questo «me stessa», la parte più ricca e profonda di me in cui riposo, «Dio».

 È un linguaggio chiaro. Questo Dio non è il l’essere trascendente della Bibbia che risiede nei cieli. È invece la serenità che la giovane ebrea sente nel suo intimo. Nel passo che segue la Hillesum sembra voler abbandonare il nome ‘Dio’: questo il brano del 22 giugno 1942

 Mi trovo a iniziare, ma è un inizio che c’è, lo so per certo. Significa aver richiamato su di sé tutte le forze possibili e vivere la propria vita con Dio e in Dio e avere Dio in sé stessi. (A volte trovo la parola Dio davvero primitiva: è solo qualcosa che le somiglia, dopotutto, un avvicinamento alla nostra più grande e ininterrotta avventura interiore; credo di non aver neppure bisogno della parola Dio, che a volte mi sembra un suono primitivo, primordiale. Una struttura di rinforzo.) E se la sera, a volte, sento il bisogno di parlare a Dio e dico molto infantilmente: Dio, con me non può andare avanti così e talvolta le mie preghiere possono essere molto incerte e imploranti –, allora è proprio come se mi rivolgessi a qualcosa dentro di me, o come se cercassi di padroneggiare una parte di me stessa.

 Il punto cardine presente in questo passo è il commento chiarificatore proposto da Etty Hillesum: “credo di non aver neppure bisogno della parola Dio, che a volte mi sembra un suono primitivo, primordiale. Una struttura di rinforzo.” Quest’affermazione va molto oltre rispetto alla definizione di Dio citata prima: “la parte più ricca e profonda di me in cui riposo, io la chiamo «Dio»”. La locuzione “Una struttura di rinforzo” ci riporta all’uso rilkiano della parola Dio.

          Dio vive dentro di noi

 Tutto ciò ci porta a formulare la seguente domanda: se Etty Hillesum chiama ‘Dio’ la parte più profonda di sé stessa, vuol dire che Dio è la parte più profonda della sua persona o è qualcosa che, dall’esterno, ha messo radici nella sua interiorità? Tra questi due concetti c’è una notevole differenza. Nel primo caso, la parte più profonda presente in un individuo è divina; nel secondo, Dio ha scelto di dimorare in ogni essere umano. Quel che abbiamo letto nel passo appena citato sembra avvalorare la prima opzione. Altri brani dimostrano invece come Etty Hillesum immagini Dio che va a risiedere nella persona muovendosi addirittura all’interno del corpo, dalla testa al cuore. Ciò viene spiegato dal brano contenuto in una lettera del 25 gennaio 1942:

 Il Cosmo si è spostato dalla testa al cuore o, per quanto mi riguarda, al diaframma: in ogni caso, dalla testa a un’altra zona. E una volta che Dio ha traslocato dentro di me, prendendo possesso di uno spazio in cui ancora risiede, allora sì, di colpo sono cessati i dolori alla testa e allo stomaco!

Non sempre Etty Hillesum aveva accesso a Dio. La giovane ebrea illustra dunque questa situazione ricorrendo, il 26 agosto 1941, all’immagine che segue:

 Dentro di me c’è un pozzo molto profondo. E in quel pozzo c’è Dio. A volte riesco a raggiungerlo, più spesso è coperto da pietre e detriti, allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterarlo di nuovo.

 All’inizio Etty Hillesum non sarebbe stata in grado di effettuare questo lavoro di scavo da sola, avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di Julius Spier. Un ausilio che, in una lettera del 11 settembre 1942, descrive così:

 La grande opera che [Spier] ha svolto sulla mia persona: ha dissotterrato Dio dentro di me e lo ha portato alla vita e adesso sarò io a continuare, scavando alla ricerca di Dio nel cuore di tutti gli uomini che incontrerò, in qualsiasi luogo di questa terra.

 Dissotterrare Dio dentro sé stessa e le altre persone: una tematica che la Hillesum considera fondamentale. Durante il periodo in cui lavorò nel campo di Westerbork ritenne che questo fosse il suo compito principale. Il 17 settembre scrive:

 Non è sufficiente di predicarti soltanto mio Dio, di annunciarti agli altri, di disseppellirti nei cuori degli altri. Tocca a liberare negli altri la strada che porta a te, mio Dio e perciò uno deve essere un grande conoscitore dell’animo umano. Si deve essere uno psicologo esperto. I rapporti con padre e madre, ricordi giovanili, sogni, sensi di colpa, complessi d’inferiorità, insomma tutto quanto. In ognuno che viene da me comincio un cauto cammino di ricerca. Gli attrezzi per  aprire negli altri un varco che porta a te sono ancora rudimentali. Ma qualche strumento c’è già e lo migliorerò, pian piano e con pazienza. E ti ringrazio, che mi hai dato il dono di poter leggere negli altri e di poter trovare la via negli altri. A volte le persone sono per me come case con la porta aperta. Entro e giro per i corridoi e le stanze e ogni casa è arredata in modo un po’ diverso ma tuttavia sono tutte uguali alle altre, di ognuna si dovrebbe fare una dimora consacrata a te, mio Dio. E ti prometto, ti prometto, cercherò di trovarti ospitalità e un focolare nel maggior numero di case possibile.

          Dio come una persona di fronte a sé

 Quando Etty Hillesum promise a Dio che Gli avrebbe trovato una dimora, Gli parlò come se stesse parlando a una persona che le stava di fronte, quindi nella maniera della Bibbia che abbiamo indicato sopra. Sembra che abbia attraversato il confine tra un Dio immanente e uno trascendente. Ma è davvero così? Vediamo il passo del l’11 luglio 1942:

 Molte persone mi rimproverano l’indifferenza e la passività e dicono che mi arrendo così. E dicono: chiunque sia in grado di sfuggire alle loro grinfie deve provare a farlo, è un dovere. […] Il buffo è che, sia che rimanga qui, sia che venga trasferita altrove, non mi sento nelle loro grinfie. Trovo tutto questo banale e grossolano, non riesco assolutamente a seguire il ragionamento, non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento solo nelle braccia di Dio, per dirla con qualche bella parola; e che ora mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del quartiere ebraico o fors’anche in un campo di lavoro sotto la sorveglianza delle SS, credo che mi sentirò sempre nelle braccia di Dio.

 In questo passo Etty Hillesum esprime la sensazione stando alla quale si sente più nelle braccia di Dio che nelle grinfie dei nazisti. L’immagine è in contrasto con la metafora del Dio che si trova dentro di lei. Nel brano appena citato descrive Dio come qualcuno che la prende tra le sue braccia e la protegge. Si tratta di una metafora? O magari di alcune frasi volte a esprimere un senso di sicurezza e calore derivante dalla presenza di un Dio che esiste al di fuori di lei?

            In un altro brano la giovane ebrea non parla delle braccia di Dio ma della Sua mano, che la guida sul proprio cammino. Il 25 novembre 1941 scrive:

 Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di tranquillità. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo, purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non avere paura.

 Risulta evidente, nel passo appena riportato, che Dio è un essere nelle cui braccia  Etty Hillesum riposa e di cui seguirà il volere. Oltre all’immagine di Dio che dimora nella sua interiorità, aveva un altro modo di scrivere di Dio: traendo cioè spunto da quanto è stato scritto sul Dio di Israele nella Bibbia. E tutto ciò ci induce a porre la seguente domanda: fino a che punto la Hillesum si è ispirata, per il proprio concetto di Dio, al Dio della Bibbia?

          Il Creatore del cielo e della terra

 Su un punto la Hillesum si trovò sulla stessa lunghezza d’onda degli autori biblici: Dio è il creatore del cielo e della terra. Trova il primo capitolo della Bibbiaaffascinante ma, come scrive il 28 giugno 1942, anche “terribilmente ingenuo”:

Con 5 tavolette di carbone e una mentina, prese a stomaco vuoto, ho letto il primo capitolo della Genesi. La trovo davvero impressionante: “La terra era informe e deserta, le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.” E forse, da parte mia, può sembrare impertinente, mi sembra però che il resto del capitolo sia alquanto naïf. Mi hanno commossa soprattutto quei “grandi mostri marini”.

Ho già tentato di irrompere in più passi della Bibbia, una volta in Giovanni, un’altra nei Salmi, ecc. Stamattina mi sono ripromessa di ricominciare dalla prima lettera dell’Antico testamento e ogni mattina, a stomaco vuoto, un passetto oltre. Prima o poi dovrò chiedere al mio amico lettore-della-Bibbia perché trovo quel capitolo così naïf da lasciarmene, in un modo o nell’altro, commuovere.

L’immagine di Dio come Creatore del cielo e della terra viene sottolineata  nel seguente passo tratto da una lettera del 18 agosto 1943:

Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a pieni mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio. A volte, quando me ne sto in un angolino del campo, i piedi piantati sulla tua terra, gli occhi rivolti al tuo cielo, le lacrime mi scorrono sul volto, lacrime che sgorgano da profonda emozione e riconoscenza. Anche di sera, quando sono coricata nel mio letto e riposo in te, mio Dio, lacrime di riconoscenza mi scorrono sulla faccia e questa è la mia preghiera.

In Etty Hillesum ci imbattiamo nell’opinione, da ritenersi tipicamente ebraica, che valuta positivamente la creazione. Nonostante tutto ciò che gli uomini si fanno l’un l’altro, la Hillesum continua a lodare la creazione di Dio. Fa inoltre sua l’idea, risalente agli scrittori biblici, stando alla quale l’uomo è stato creato a immagine di Dio. Per lei, come abbiamo già visto sopra, è un punto fondamentale. Sono stati creati a immagine di Dio – c’è Dio anche in loro – pure gli uomini che si combattono durante la guerra. La Hillesum vuole tenere i piedi per terra, in realtà, ma nel frattempo continua a lodare la creazione, come vediamo molto chiaramente nel seguente passo del 29 maggio 1942:

Dio, certe volte non si riesce a capire e ad accettare ciò che i tuoi simili si fanno l’un l’altro su questa terra, in questa epoca tempestosa. Ma non per questo mi rinchiudo nella mia stanza, Dio: continuo a guardare le cose in faccia e non voglio sfuggire dinanzi a nulla, cerco di comprendere i delitti più gravi, cerco ogni volta di rintracciare il nudo, piccolo essere umano che spesso non dà più traccia di sé. Io non me ne sto qui in una stanza tranquilla ornata di fiori, a sguazzare tra Poeti e Pensatori glorificando Iddio, non sarebbe affatto difficile, né credo di essere così «fuori dalla realtà» come dicono inteneriti i miei buoni amici. Ogni persona ha la sua realtà, lo so, ma io non sono una visionaria, persa nei sogni, un’«anima bella» ancora un po’ immatura […]. Guardo il tuo mondo in faccia, Dio, e non sfuggo alla realtà per rifiugiarmi nei sogni – voglio dire che accanto alla realtà più atroce c’è posto per qualche bel sogno – e continuo a lodare la tua creazione, malgrado tutto!

La vita è bella e ha un senso – e vediamo di nuovo come Etty Hillesum esprima il tipico ottimismo ebraico, che ha dato a questo popolo la forza di sopravvivere a duemila anni di persecuzioni e angosce. Anche se la Hillesum era consapevole delle intenzioni dell’occupante tedesco, volte alla distruzione degli ebrei d’Europa, ha continuato a credere in Dio e nella vita. Vediamo questo brano scritto il 7 luglio 1942:

Di minuto in minuto desideri, necessità e legami si staccano da me, sono pronta a tutto, a ogni luogo di questa terra nel quale Dio mi manderà, sono pronta a testimoniare, in ogni situazione e nella morte, che questa vita è bella e colma di senso e che non è colpa di Dio, ma nostra, se le cose sono così come sono, ora.

Ma perché – ci domandiamo – non è stata colpa di Dio se nel 1942 la Sua creazione era così a repentaglio da indurre tutti quanti, nel mondo, a correre, a combattere, a rubare e ad ammazzare? Questa domanda ci porta al cuore del  messaggio che Etty Hillesum ha lasciato ai posteri.

Responsabilità

Abbiamo visto come negli scritti della Hillesum Dio sia il creatore del cielo e della terra; il che viene affermato del resto anche nella Bibbia. Secondo il credo degli Apostoli, Dio possiede però un ulteriore connotato, e cioè la sua onnipotenza.

Io credo in Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra.

Ma non è così che Etty Hillesum percepiva Dio. Egli, a differenza di quanto ci insegna la tradizione, non è onnipotente. Non può aiutarci. Siamo noi, vale a dire coloro che da Lui sono stati creati, a doverlo aiutare, come risulta dal testo hillesumiano forse più celebre, la preghiera della domenica mattina che risale al 12 luglio 1942:

Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con il peso delle miei preoccupazioni per il futuro, ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu dentro di me non ceda, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa fare molto per modificare le circostanze, appartengono a questa vita anch’esse. Io non ti chiamo a risponderne, sarai tu più tardi a chiamarci a risponderne. E, quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutarti, e che dobbiamo difendere fino all’ultimo la tua casa dove tu dimori in noi.

Etty Hillesum è del parere che Dio non riesca a influenzare le vicende umane.  Questa idea costituisce l’esatto contrario dell’immagine biblica di un Dio Redentore che agisce nella storia. La Hillesum fa un ulteriore passo in avanti e afferma che “siamo noi a dover aiutare Te”. A differenza dell’affermazione precedente, tale ultima nozione non è estranea all’ebraismo. Concetti cabalistici quali Tsimtsum e Tikun Olam hanno ricevuto, col passare del tempo, un’interpretazione più pratica e meno spirituale; nella filosofia ebraica moderna l’uomo è di conseguenza concepito come colui che aiuta Dio nel rimettere in ordine il mondo. Questa convinzione appare agli antipodi della dottrina di un Dio onnipotente, ma non oltrepassa i confini del pensiero ebraico.

Il passo citato del diario ha dato origine a qualche equivoco. Etty Hillesum non sostiene che Dio sia indifeso e che noi esseri umani dobbiamo dunque aiutarlo. Il concetto di un ‘Dio indifeso’, in lei, è assente – la Hillesum intende dire che Dio si trova al di fuori delle vicende umane e non è pertanto in grado di intervenire. Badare a sé stessi spetta agli uomini.

Invece di aspettarsi aiuto da Lui, sono questi ultimi che devono aiutarlo. Dio non può fare nulla per mutare il corso delle vicende belliche. Non è colpa sua, se gli orrori si perpetuano – sono imputabili agli esseri umani. La creazione di Dio è buona come bella è la vita – nonostante la guerra e le persecuzioni. In una lettera della fine di giugno del 1943, indirizzata al suo amico Han Wegerif, la Hillesum scrive:

E malgrado tutto si approda sempre alla stessa conclusione: la vita è pur sempre buona, non dipende da Dio se le cose, a volte, vanno tanto male, ma dipende da noi. Questa è la mia conclusione, anche ora, anche se sarò spedita in Polonia con tutta la famiglia.

Dal momento che la violenza è commessa dagli uomini, delle cui azioni Dio non è responsabile pur riservandosi il diritto di chiamarli a risponderne. Egli non è responsabile di tutta questa violenza e ingiustizia. Non lo riguarda, è affare degli uomini. Costoro non possono nascondersi dietro Dio ma, come sta scritto nella Bibbia, dovranno giustificarsi al Suo cospetto. Diceva la Hillesum nel passo appena citato: “Io non chiamo in causa la Tua responsabilità. Più tardi sarai Tu a dichiarare responsabili noi.” E lo ripete addirittura due volte, con profonda partecipazione emotiva, nel passo del 29 giugno 1942:

Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi a esserlo verso di lui.  So quel che ci può ancora succedere. Adesso io sono separata dai miei genilori e non li posso raggiungere, anche se si trovano a due ore di viaggio da qui: ma so esattamente in che casa abitano, so che non patiscono la fame e che sono circondati da molte persone ben disposte verso di loro. E anche loro sanno dove sto io. Ma potrà venire un tempo in cui non saprò più niente, e i miei genitori saranno deportati e moriranno miseramente, chissà dove: so che può succedere. Le ultime notizie dicono che tutti gli ebrei saranno deportati dall’Olanda in Polonia, passando per la Drenthe. E, secondo la radio inglese, dall’aprile scorso sono morti 700.000 ebrei, in Germania e nei territori occupati. Se rimarremo vivi, queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci dentro per sempre.

Eppure non riesco a trovare insensata la vita, Dio, non ci posso fare nulla. E Dio non è nemmeno responsabile verso di noi per le insensatezze che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi! Sono già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non mi preoccupo più per le notizie future, in un modo o nell’altro so già tutto. Eppure trovo questa vita bella e ricca di senso. Ogni minuto.

Mentre la Shoah veniva perpetrata, Etty Hillesum ha dato una risposta inequivocabile alle molte domande che sono state poste nel dopoguerra sul perché Dio non sia intervenuto quando i nazisti hanno perseguitato e sterminato il Suo popolo. “E Dio non è nemmeno responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi!” Mentre altri ritenevano Dio responsabile per i crimini di guerra commessi dagli uomini, la Hillesum era in grado di distinguere tra i diversi ambiti di responsabilità. Gli esseri umani sono responsabili per quel che fanno. Dio non c’entra. La domanda non è: dov’era Dio durante la Shoah, ma piuttosto: dov’era il genere umano durante la persecuzione del popolo ebraico?

Per quanto riguarda la concezione di Dio di Etty Hillesum, abbiamo pertanto due elementi fondamentali.

C’è, in primo luogo, un doppio concetto di Dio. La combinazione tra la nozione di Dio in quanto parte più profonda di sé e la visione biblica di un Dio che ci guarda, è un modo di pensare Dio che trova ampi consensi. In questa immagine di Dio ben si integrano due concetti teologici: quello relativo a un Dio immanente e a uno trascendente.

In secondo luogo, c’è l’idea di un Dio che non interviene nella storia umana; riguardo alle nostre azioni, Egli può tuttavia sempre richiamarci alle nostre responsabilità. Si tratta di un concetto davvero intrigante che toglie ogni ragion d’essere a una serie di domande inutili quali: perché Dio permette il genocidio? Perché permette lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Quesiti di questo genere si fondano su un presupposto: Dio deve impedire agli uomini di fare del male. E ponendoci domande simili noi tendiamo a declinare ogni responsabilità per le nostre azioni e quelle altrui. Tale tipo di domande, inoltre, non chiarisce affatto la nostra concezione di Dio. Quello che ha scritto Etty Hillesum ci porta invece fuori dalle ombre dell’agire umano e sulla strada che ci riconduce a Dio.

2. Credere negli uomini

 Etty Hillesum non si limita ad affermare il suo credo in Dio ma, nonostante tutte le atrocità da loro commesse durante quegli anni di guerra, anche negli uomini. Non si stancò mai di ripetere che le persone non avrebbero dovuto odiarsi a vicenda ma, al contrario, si sarebbe dovuto lavorare per eliminare l’odio nel mondo o, almeno, per tentare di mitigarlo. Questa convinzione irenica suscitò delle reazioni negative già durante la sua vita ma anche oggi, dopo la pubblicazione dei suoi diari, rimane per alcuni lettori un aspetto difficilmente comprensibile. Il secondo aspetto del significato attuale della sua opera, che desidero proporvi riguarda il modo in cui Etty Hillesum si oppose alla coltivazione di un immagine del nemico, di cui intuiva le importanti conseguenze.

È importante notare come Etty Hillesum abbia rifiutato le conseguenze delle azioni destinate ad alimentare l’animosità. L’idea che vede nel singolo individuo il nemico del suo simile sta alla base di ogni conflitto armato. La guerra in Bosnia ne è un esempio straziante. Fino al 1992, i diversi gruppi etnici che formavano l’insieme della popolazione (croati cattolici, serbi ortodossi, bosniaci musulmani ed ebrei), avevano vissuto in pace. Dopo la disintegrazione della Jugoslavia le popolazioni si sono trovate coinvolte in una spirale di violenza, odio e terrore, il tutto basato sulla convinzione della reciproca ostilità. E ora, finita la guerra, quelle stesse popolazioni sono chiamate a collaborare per ricostruire la propria vita e il proprio paese.

Considerata da questa prospettiva, la concezione di Etty Hillesum non ha perso nulla del suo significato per noi oggi. Nell’annotazione diaristica del 27 febbraio 1942 la giovane ebrea descrive, con il suo stile inconfondibile, la visita alla scuola di Amsterdam che era stata espropriata dalla Gestapo:

Mercoledì mattina presto, quando ci siamo trovati in tanti in quel locale della Gestapo, i fatti delle nostre vite erano tutti uguali: eravamo tutti nello stesso ambiente, gli uomini dietro la scrivania quanto quelli che venivano interrogati. Ciò che avrebbe deciso la vita di ciascuno sarebbe stata la disposizione mentale nei confronti di quei fatti.

Si notava subito un giovane che camminava su e giù con un`espressione palesemente scontenta, assillato e tormentato. Davvero interessante da osservare. Cercava dei pretesti per urlare a quei poveri ebrei: Mani fuori dalle tasche per favore. ecc. Per me era da compiangere più di coloro a cui stava urlando; e questi, a loro volta, facevano pena nella misura in cui erano impauriti.

Quando mi sono presentata davanti alla scrivania, mi ha urlato improvvisamente: Che ci trova di ridicolo? Avrei risposto volentieri: Niente, tranne lei, ma per diplomazia m’è parso meglio lasciar perdere. Lei non fa che ridere, continuava a urlare lui. E io, in tutta innocenza: Non me ne accorgo proprio, è la mia faccia normale. E lui: Per favore non dica scemenze, vada fffuori, con una faccia che voleva dire: tra poco mi sentirai. Credo che questo fosse il momento psicologico in cui avrei dovuto spaventarmi a morte, ma quel trucco l’ho capito troppo in fretta.

Nel passo citato la Hillesum unisce alla lucida analisi di quel che succede nell’aula della scuola un ammirevole distacco e una sottile ironia. Rifiutò di partecipare alla scena, allestita dalla Gestapo allo scopo di intimidire e spaventare gli ebrei presenti, sottraendosi dall’interpretare il ruolo che le era stato assegnato, quello del nemico. Rifiutò per non lasciare che l’odio, nutrito per il giovane membro della Gestapo solo in quanto schierato nella parte avversa, la soggiogasse. Per lui, sentiva piuttosto pietà.

Sarebbe tuttavia scorretto pensare che Etty Hillesum non si rendesse conto che quel tipo di persona avrebbe potuto essere un assassino. Scrive, al contrario, nello stesso passo:

[…] ben sapendo che questi ragazzi sono da compiangere finché non possono fare del male, ma che diventano pericolissimi se sono lasciati liberi di aggredire altri esseri umani, e vanno eliminati. Ma a essere criminale è solo il sistema che utilizza questi uomini.

Rinunciare all’animosità non significa certamente rinunciare a combattere il male con tutti i mezzi. Ma è il sistema, e non l’individuo, che va combattuto. Pensando a quanto l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 abbia risvegliato l’animosità dell’occidente, è interessante notare come la pagina del diario del 23 settembre 1942 sia tornata a essere estremamente attuale. Per me questo passo è particolarmente significativo perché è indirizzato a mio padre, con il quale condivido il nome:

Klaas, volevo solo dire questo: abbiamo ancora così tanto da fare con noi stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto di odiare i nostri cosiddetti nemici. Siamo ancora abbastanza nemici fra noi. E non ci siamo nemmeno quando dico che esistono carnefici e persone malvagie anche tra noi. In fondo, non credo affatto nelle cosiddette «persone malvagie».

Vorrei poter raggiungere le paure di quell’uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori, Klaas, è l’unica cosa che possiamo fare di questi tempi.

Allora Klaas ha fatto un gesto stanco e scoraggiato e ha detto: Ma quel che vuoi tu richiede tanto tempo, e ce l’abbiamo forse? Ho risposto: Ma a quel che vuoi tu si lavora da duemila anni della nostra era cristiana, senza contare le molte migliaia di anni in cui esisteva già un’umanità – e che cosa pensi del risultato, se è lecito chiedertelo?

E con la solita passione, anche se cominciavo a trovami noiosa perché finisco sempre per ripetere le stesse cose, ho detto: È proprio l’unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo alternative di sorta, ognuno di noi deve raccogliersi ed estirpare da se stesso e distruggere ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo a questo mondo lo rende ancora più inospitale.

E Klaas, vecchio e indomabile militante di classe, ha replicato sorpreso e sconcertato insieme: Sì, ma… ma questo sarebbe di nuovo cristianesimo!

E io, divertita da tanto smarrimento, ho risposto con molta flemma: Certo, cristianesimo – e perché no poi?

Ma come possiamo eliminare l’odio dai nostri cuori, avendo tanti motivi per odiare? L’unica soluzione individuata da Etty Hillesum stava nel cercare la risposta nell’amore, come indica il passo che proponiamo qui, che sembra tratto da un libro dei nostri giorni avente per argomento la gestione di un modo di vivere ma che, invece, fu scritto nella notte del 20 giugno 1942, alle dodici e mezzo:

Per umiliare qualcuno si dev’essere in due: colui che umilia e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione capace di angosciare l’anima. Si deve insegnarlo agli Ebrei. Stamattina pedalavo lungo lo Stadionkade e mi godevo l’ampio cielo ai margini della città, respiravo la fresca aria non razionata. Dappertutto c’erano cartelli che ci vietano di percorrere le strade verso la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente, non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento ma a privarci delle nostre forze migliori, col nostro atteggiamento sbagliato, siamo noi stessi: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e la millanteria che maschera la paura. Certo, ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: a derubarci da soli siamo soprattutto noi stessi. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma ciò non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto allora verrà da sé: e «lavorare a se stessi» non è proprio una forma di individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dell’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. Eppure è l’unica soluzione possibile.

“Credo in Dio e negli uomini.” Questo è il risultato finale della ricerca spirituale intrapresa da Etty Hillesum durante gli anni della guerra. Un credo che dimostra come la sua spiritualità non costituisse solo un cammino verso la propria interiorità più profonda ma come la fede in Dio segua anche il percorso inverso, dall’interiorità al mondo esterno. Il rivolgersi verso il sé diventa in tal modo un impegno nei confronti del prossimo. L’incontro con Dio, per lei, era indissolubilmente legato alla ricerca di Dio nei suoi simili, negli individui, malgrado le nostre scelte privilegino sovente l’odio sull’amore, la guerra sulla pace. Qualche volta la cruda realtà delle persecuzioni, con la quale dovette fare i conti, fu tuttavia troppo difficile da sopportare anche per lei. Nella lettera del 24 agosto 1943 scrisse:

Se penso alle facce della scorta armata in uniforme verde, mio Dio, quelle facce! Le ho osservate una per una, dalla mia posizione nascosta dietro una finestra, non mi sono mai spaventata tanto come per quelle facce. Mi sono trovata nei guai con la frase che è il leitmotiv della mia vita: E Dio creò l’uomo a Sua immagine. Con me questa frase ha vissuto una mattinata difficile.

Nonostante ciò che visse quotidianamente, la Hillesum non venne meno al suo credo: in Dio e negli uomini. Un credo che, avendo costei affidato i suoi diari a mio padre, Klaas Smelik, è ormai da decenni a disposizione dei lettori di tutto il mondo. E ciò soddisfa il suo desiderio di diventare utile ai posteri.

Mi piacerebbe vivere a lungo per riuscire a spiegarlo, e se questo non mi sarà concesso, bene, qualcun altro lo spiegherà al posto mio, e colui continuerà a vivere la mia vita dove è rimasta interrotta e perciò debbo viverla meglio, in ogni suo aspetto e con la massima convinzione sino all’ultimo respiro, in maniera che quanti mi succederanno non dovranno più ricominciare tutto daccapo né superare le mie stesse difficoltà. Non è qualcosa fatto per i posteri anche questo?

I due temi che vi ho proposto bastano per sottolineare come questa donna ebrea seppe dare forma alla sua dignità e identitità, in un’epoca in cui si fece di tutto per eliminarli. Ed è per questo motivo che le generazioni dopo di lei si ispirano alla sua opera e al suo pensiero. Che la sua memoria sia la nostra benedizione.

Testo, rivisto dall’Autore,  della conferenza tenuta a Brescia l’11.12.2014 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura