Guardando a “l’odierno stato del mondo” e ai suoi mali, Kierkgaard, il Socrate del Nord, non esitava a indicare la terapia d’urgenza da adottare: “Se fossi medico e uno mi domandasse consiglio, risponderei: crea il silenzio! porta l’uomo al silenzio!”. A un secolo e mezzo di distanza da quando furono scritte, quelle parole si rivelano a chi ha cuore la sua sorte e quella dei suoi simili sempre più illuminanti, attuali, necessarie. Certamente il silenzio è la cura da cui non si può prescindere perché il nostro tempo è dominato dal rumore e dalla chiacchiera, e fino all’altro ieri c’era pure l’arroganza dell’ideologia. Forse mai come in quest’ultima parte del XX secolo, l’uomo vive quotidianamente in una situazione di anarchia acustica, assediato com’è da troppi rumori visivi e sonori; dunque, mai come ora ha bisogno di silenzio per rientrare in se stesso e riprendere possesso di sé, per sottoporre al suo proprio giudizio ciò che fa irruzione in lui e mette continuamente in gioco l’unità interiore dell’io e la sua capacità di scegliere.
In una situazione del genere lo stesso silenzio rischia di essere non compreso, ridotto solo a un’appendice del rumore, a una parentesi tra un rumore e l’altro. L’uomo dominato dalla chiacchiera e dal rumore smarrisce il gusto della riflessione personale, della contemplazione silente, della individuazione del dovere da compiere costi quello che costi, della preghiera; e, dunque, come aveva ben visto Pascal, prova sgomento, paura, disorientamento nei confronti del silenzio di cui pure ha nostalgia. Non avendo sperimentato che il vuoto della noia o la sua tortura, confonde quel vuoto con il silenzio, che invece è lo spazio proprio e la via insostituibile della vita interiore. “Il silenzio appartiene alla struttura fondamentale dell’uomo, è il suo cuore”, annotava Agostino. Evidentemente il silenzio autentico non è l’assenza di rumore o la voglia di non dir nulla, il mutismo, bensì l’espressione di ciò che vi è di più profondo nel nostro cuore. E il cuore è appunto il luogo per eccellenza di quel silenzio. Ignorare la dimensione essenziale e inalienabile del silenzio interiore, è ignorare l’uomo. Trascurarla, è trascurare l’umanità dell’uomo. Aggredirla e invaderla indiscriminatamente, è mettere a rischio gravissimo, la possibilità stessa di una vita da esseri umani.
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Ricordo due letture fondamentali per me sul silenzio: “Il mondo del silenzio” di Max Picard, nelle Edizioni Comunità, del 1951, e “Come si vince a Waterloo” del compianto Michele Federico Sciacca, pubblicato dalla Marzorati nel 1963. Ora quella riflessione è diventata tematica e, da pochi anni a questa parte, si è imposta all’attenzione di quanti avvertono che il vero compito della filosofia è pur sempre quello di resistere a viso aperto ai facili trionfi della sofistica, di cui in particolare bisogna sempre di nuovo sottoporre a critica le parole presuntuose, i falsi assoluti terreni, i controvalori di cui si fa portatrice. Il capofila di questa originale rivisitazione del dibattito filosofico e culturale, su come pensare il silenzio e la parola e la loro feconda dialettica, è senza dubbio Massimo Baldini. Autore di contributi personali che hanno segnato una felice svolta nel campo della filosofia del linguaggio (“La tirannia e il potere delle parole”, Armando, 1981; “Parlar chiaro parlare oscuro”, Laterza, 1990 III ed.; “Il linguaggio dei mistici”, Queriniana, 1990 II ed.; “Educare all’ascolto”, La Scuola 1989 II ed.; e, in collaborazione con Dario Antiseri, “Lezioni di filosofia del linguaggio”, Cardini, 1989), Baldini ha sollecitato altresì la ricerca e i contributi di numerosi, validi studiosi. Pertanto il tema che Baldini ha saputo porre all’ordine del giorno del dibattito filosofico, il silenzio e la parola, viene esplorato oggi in Italia nei modi più diversi e per molti aspetti inediti. Il risultato più alto di questo lavoro a più voci, libero e insieme convergente, è costituito da due volumi editi dalla Morcelliana nel 1989. Il primo, “Le riforme del silenzio e della parola”, offre un affresco interdisciplinare, in cui si fondono l’approfondimento teorico del tema e l’individuazione degli apporti della poesia, delle tre grandi religioni monoteistiche, della spiritualità orientale e della liturgia latina e ortodossa. Il secondo, “Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabès”, segue un percorso storico suggestivo lungo il quale si incontrano pensatori come Pascal, Kant, Kierkegaard, Wittgenstein e Romano Guardini per citare solo gli autori sui quali sono stati scritti i saggi più riusciti.
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Eraclito nel frammento 19 con la solita profondità collega tra loro due aspetti del sempre possibile rischio di disumanizzazione: “Incapaci sono e di ascoltare e di parlare”. In verità il silenzio è innanzi tutto ciò che ci rende disponibili, tacendo, ad accogliere gli altri: il silenzio, nella sua prima connotazione, è dunque capacità di ascolto. I bambini fra i tre e i quattro anni stanno insieme, giocando ognuno il suo gioco, senza un effettivo interscambio; così si comportano però molti che bambini non sono più. Diventano sempre più numerose le persone che non hanno né tempo né attitudine interiore all’ascolto. “Nessuno ha tempo di ascoltarvi – ha scritto Taylor Caldwell – neppure quelli che vi amano e che sarebbero pronti a morire per voi”. A morire, appunto, ma non a vivere. Come il pensare dell’egocentrico è inevitabilmente un pensare-contro, così il suo ascolto è già in partenza un ascoltare-contro, e dunque un fraintendere e abbassare quanto l’altro va dicendo in qualsiasi modo lo dica. Ma senza una radicale apertura reciproca, quale legame umano può mai sussistere? Solo chi nel silenzio interiore discende in se stesso, trova nel suo cuore le ragioni e le attese degli altri. Il nostro Silone lo ha detto in “Pane e vino”: “Il silenzio interno significa che ogni cosa è al suo posto, ogni cosa è in ascolto.”
C’è un’altra dimensione del silenzio: è il silenzio come capacità di attesa, eloquente e sollecitatrice perché discreta. Il silenzio anche qui non è mutismo ostile, e neppure sciocco non voler vedere i pericoli tra i quali dovrà aprirsi un varco il figlio, l’amico l’adolescente, chi è in ricerca e non ha ancora trovato. Il silenzio di chi ascolta aiuta a condividere un destino di crescita ed è pertanto maieutico nel senso più alto del termine. Kierkegaard lo aveva compreso molto bene, tanto che giunse a scrivere: “Ogni insegnamento esistenziale finisce in una specie di silenzio.”
Il silenzio, infine, si rivela come la sorgente di ogni autentica parola. Non potrebbe, infatti, esserci l’una senza l’altro. Il parlare autentico, non l’artificiosa e foss’anche raffinata arte oratoria, ma l’eloquenza spontanea, non è forse quella in cui le pause o i silenzi salgono dalla nostra riflessione e si dirigono al silenzio di chi ascolta? In realtà la parola più bella è quella che nasce dal silenzio, quella che non spezza il silenzio, ma lo rende più percepibile. E il silenzio è apertura al mistero. Si capisce allora quanto sia nel vero il Cardinal Martini, quando di recente ci ha ricordato come il maggior nemico di Dio non sia l’ateismo moderno, ma piuttosto il rumore.
Giornale di Brescia, 16.03.1990. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Massimo Baldini sul tema: “La parola e il silenzio”.