Il sogno di un’altra scuola

Carla Bisleri: Buonasera a tutti voi che avete accolto quest’invito. Il libro Elogio del ripetente è già stato letto da qualcuno, qualcun altro lo conoscerà questa sera, ma sappiamo che sta facendo discutere molto. Si tratta di un romanzo sulla scuola, scritto da un professore e scrittore già noto; un testo che vuole scuotere il torpore di una scuola sempre più abbandonata a se stessa, povera e trascurata. Ma i veri protagonisti sono i suoi ragazzi, e soprattutto, i ripetenti. Infatti, mentre la scuola resta sullo sfondo, risaltano i loro nomi: Pinuccio, Romoletto, Alessio. Li vediamo, li sentiamo, entriamo nella loro esperienza, nel loro modo di essere e nel loro gergo. Sono ragazzi selvatici, molto diffidenti, appartenenti a quella che Affinati chiama “adolescenza zero”. Le loro storie, ricche di provocazioni, ci interrogano da vicino, soprattutto grazie al grande sforzo di fiducia che opera il professore, un impegno che è una disponibilità all’ascolto, partendo dall’idea che questi ragazzi siano prima di tutto da conquistare. E questo avviene attraverso una forte umanità e frammenti di cultura che riescono a instaurare un contatto con i loro modi di vivere, suscitando interesse e aprendo a dimensioni che a loro, in questo momento, mancano. Sono adolescenti prevalentemente apatici, aggressivi, demotivati, ai quali si deve insegnare anche il rispetto per se stessi, per le cose e per gli altri.

La mia prima domanda è: il ripetente costituisce una figura emblematica, oltre a essere una figura in carne e ossa? Rappresenta una realtà più estesa?

L’apatia e la difficoltà a sopportare la fatica e l’impegno sono tratti caratteristici dei giovani in generale. Che cosa ci dicono questi ripetenti, che non sono i classici somari o gli ignoranti, ma sono descritti da lei come “sfidanti”, perché sfidano all’interno del contesto scolastico la capacità di tenuta, ma anche una società che forse li tiene eccessivamente ai margini, e finisce per trascurarli e non comprenderli?

Leggo l’incipit: “Il ripetente non ti ascolta. Tu parli, ma lui gioca con il cellulare, scrive sui banchi, entra nella seconda ora perché, dice, si è svegliato troppo tardi; oppone resistenza in ogni modo, non ha i libri, dimentica il quaderno, rompe le penne, straccia il foglio, non consegna gli elaborati. Interrompe i discorsi, rumoreggia, litiga coi compagni, non studia, non esegue i compiti, non mantiene le promesse; durante le interrogazioni canticchia. Farlo partecipare a qualsiasi evento è un’impresa”.

Eraldo Affinati: È un’avventura quella che ho raccontato nel mio romanzo. Condivido la definizione di “libro di campo”: è un libro che parte dall’esperienza diretta, autobiografica, reale, concreta.

Insegno all’Istituto Professionale Carlo Cattaneo, posto all’interno della Città dei Ragazzi a Roma. La Città è una grande comunità educativa, dove vivono ragazzi stranieri, e io, che sono un insegnante di Stato, ho deciso di andare a insegnare nella succursale del mio istituto, situato, appunto, nella comunità. Lì, oltre agli stranieri, studiano anche ripetenti italiani, cioè quei ragazzi spesso bocciati in altre scuole che si iscrivono poi all’Istituto Professionale Carlo Cattaneo per l’industria e l’artigianato, come ultimo tentativo prima di abbandonare definitivamente gli studi e iniziare a lavorare, andando così a ingrossare le fila di quella dispersione scolastica che ultimamente raggiunge dei punti di vertice, soprattutto nel biennio iniziale.

Perché ho deciso di scrivere un libro a partire dai ripetenti? La risposta è molto semplice: io credo che attraverso di loro ci sia possibile comprendere molti aspetti del nostro Paese. Non soltanto della scuola, ma anche della famiglia italiana, e della stessa società. Credo che stiamo vivendo una crisi non solo economica, nonostante i bilanci da risanare, lo spread, e così via. In Italia stiamo attraversando una crisi interiore, spirituale, profondissima, che io colgo negli occhi smarriti dei miei studenti. Fra di loro, il peggiore, quello su cui mai nessuno scommetterebbe, compie a scuola un passo in avanti rispetto alla posizione da cui parte. Infatti, nel momento in cui ti interessi alla sua famiglia, scopri il quartiere in cui è cresciuto, vieni a sapere chi ha incontrato, quali esperienze culturali ha avuto, ti accorgi che è il prodotto di una catastrofe che non è certo cominciata in aula, ma che deriva da molto prima. Attraverso il ripetente, vedi il riflesso di questo Paese, che ha, da un po’ di tempo, perso la bussola. Questi ragazzi, che noi magari condanniamo bocciandoli, come sono vissuti? Quali sono stati i miti che li hanno guidati? Sono giovani cresciuti fra gli idoli della bellezza, della ricchezza, della sanità. E all’improvviso, entrando in un’aula scolastica, l’insegnante dovrebbe ricondurli per miracolo ai valori opposti, della concentrazione, del rigore, della serietà. Un insegnante si ritrova solo, a mani vuote, davanti a studenti che costituiscono i “frantumi italiani”, che noi siamo chiamati a ricomporre con un rigore etico inesistente fuori dalla classe. La solitudine di Romoletto, di Ivan, di Valerio raddoppia quella dell’insegnante, che si trova a fare i conti anche con se stesso, con i suoi problemi. Problemi che non può mostrare, perché deve mantenersi sempre lucido e concentrato, emotivamente forte, altrimenti gli studenti percepiscono la sua fragilità e ne approfittano.

Attraverso il ripetente, noi capiamo qualcosa del nostro attuale Paese. Paradossalmente, dovremmo tributargli un elogio. E infatti già quella prima pagina ti fa capire che lui è quello che potrebbe darti le maggiori soddisfazioni. Se tu, insegnante, riesci a conquistare la fiducia del più riottoso, del più ribelle, quello che non si appassiona a niente, apparentemente, ma che è anche colui che parte da sotto zero, se riesci a farti accettare nel suo mondo e nella sua notte interiore, ti potrebbe rivelare qualcosa di inaspettato. Questa la ragione per cui è appassionante riuscire a coinvolgerlo.

Carla Bisleri: È un testo che istintivamente ho sentito molto vicino, che ho letto con gli occhi di madre, e credo anche con il cuore di molte persone, che testimoniano l’altra metà dell’Italia di cui lei parla nella parte terminale del libro. Persone che si assumono un profondo impegno educativo, nella scuola e in altri contesti, quegli eroi silenziosi, lontani dai riflettori, che rappresentano sfide, modalità di essere presenti, con il sogno, forse, di una scuola diversa, la quale, nonostante tutti gli sforzi, incontra spesso ostacoli, e si presenta come un ambiente polveroso, ripetitivo, pieno di inerzie.

La sua critica è velata, perché tutto, come dicevamo prima, rimane sullo sfondo, ma le chiedo: si tratta di un sistema inadeguato? È una scuola lasciata troppo sola nella sua funzione? Non è sempre stato così, perché la scuola ha avuto un ruolo sociale molto rilevante, basti pensare agli anni dell’alfabetizzazione, al periodo di ricostruzione post bellica. È un luogo di emancipazione, di riscatto; un’istituzione della quale, oggi, viene spesso fraintesa, o non compresa, la vera funzione vitale che quotidianamente svolge. Un’istituzione che riesce a farsi valere poco, che diviene ostaggio di sistemi riformatori, governativi e non. Lei non esplicita questo lato della questione. Allora le chiedo: tralascia questa parte perché la possibilità educativa che lei propone presuppone comunque tali criticità?

La sua idea è, in sostanza, questa: provare, nonostante difficoltà evidenti, ad andare oltre la cortina di questa situazione – da lei chiamata “finzione pedagogica” -, come se non volesse partecipare a una simile recita, ma optasse per un altro campo, cioè scegliesse di porre la sua persona, nella sua pienezza, nel ruolo del professore-amico, ma che stabilisce una relazione molto salda nonostante le continue provocazioni, e agisce cercando un’alleanza con quello che trova, andando anche a cercare i ragazzi al di fuori della scuola. Lei dà una visione creativa dell’educazione, e spiazzante, perché si mette completamente in gioco in una scuola sempre più impersonale, ampia di numeri e burocratica.

Come, dunque, si può riuscire a raggiungere un tale equilibrio?

Eraldo Affinati: È un equilibrio difficile, perché da una parte il sistema burocratico ti imprigiona, dall’altra ti confronti con la verità dello sguardo umano, di cui devi essere responsabile.

La responsabilità dello sguardo altrui è ciò che accomuna l’insegnante e lo scrittore: significa mettersi in gioco, rischiare, esporsi, sporcarsi le mani, rompere quella che chiamo la “finzione pedagogica”, che si verifica quando uno finge soltanto di insegnare. Purtroppo, è un fatto che si registra frequentemente. Far finta di insegnare e far finta di ascoltare l’insegnante, due lati di un meccanismo teatrale che occorre assolutamente distruggere, cercando di conciliare due azioni apparentemente contraddittorie: essere amico e nel frattempo maestro di questi studenti. Un amico per condividere i loro sconforti e i loro entusiasmi, un maestro per incarnare il limite che non deve essere superato, nella consapevolezza che – come ha scritto Bonhoeffer – la vera libertà non è data dal superamento dei limiti, ma è l’accettazione stessa del limite. Ed è ciò che un adolescente deve provare e riprovare, prima di riuscirci. Per agire in questo modo bisogna prima capire chi si ha di fronte, e quindi, per esempio, non tutte le sufficienze che diamo come voti sono uguali: se Marco, cresciuto in una casa colma di libri, col sostegno di una mamma comprensiva, prende 6, il suo voto probabilmente equivarrebbe a un 5, perché il suo impegno è stato minimo; diversamente, il 6 del suo amico che ha trascorso un’infanzia tra i muretti delle borgate italiane, senza punti di riferimento affettivi, spesso protagonista di esperienze difficili, sarebbe un 8 o un 9 per lui. Anche se in pagella i due 6 non differiscono, l’insegnante sa che in realtà sono molto diversi.

Al consiglio di classe entrano in gioco quelle che io chiamo le “streghe del prescelto”, cioè quei momenti in cui si decide la sorte di uno studente e il giudizio su una persona avviene per alzata di mano. È chiaro che se si rimane ancorati al sistema burocratico, non si rompe mai la “finzione pedagogica”.

Dobbiamo invece cercare di entrare in contatto con i ragazzi. Nel mio libro racconto di alcune esperienze che ho avuto, belle e brutte, che si alternano fra amarezze ed entusiasmi, quando riesci a suscitare il loro interesse e quando invece esci da scuola deluso perché non sei riuscito a coinvolgere. Un giorno decisi di far leggere ai ragazzi Se questo è un uomo di Primo Levi – nulla di straordinario apparentemente, ma non per i miei studenti, che non hanno mai letto un libro in vita loro. Allora li convocai tutti per l’appello nella libreria della stazione Termini di Roma, e ricordo che quel momento fu molto particolare, perché i ragazzi capivano di star vivendo un’esperienza inusuale con me, diversa da un compito scolastico, poiché condivisa, partecipata insieme, io e loro. Vederli tutti schierati di fronte alla cassa, con i dieci euro e l’edizione Einaudi tascabile del libro è stato uno spettacolo per me: la gran parte di loro era venuta all’appuntamento, e comprendevano che la lettura assegnata era una specie di accordo comune, non un’imposizione dall’alto. E così si è acceso un fuoco che è poi durato tutto l’anno.

Un altro aneddoto riguarda un ragazzo, già ripetente, in procinto di abbandonare la scuola per buttarsi nel mondo del lavoro, che tuttavia sapeva cavarsela con la scrittura, e quindi volli intervenire per impedirglielo. Così un giorno, proposi a questo Pinocchio, Romoletto, di venire a insegnare italiano insieme a me e ad altri professori ai ragazzi stranieri – un atto di volontariato nella scuola, che ho creato con mia moglie, di italiano per stranieri, la Penny Wirton, che incarna il sogno di una scuola diversa: senza voti, senza registri, senza classi e valutazioni. Lì ognuno può essere se stesso e insegnare la qualità umana, oltre che la competenza specifica. Il ragazzo accettò, e da quel momento rimase per un anno intero, tutti i martedì dalle 15 alle 17, nella chiesa di s.Saba a Roma, sull’Aventino, dove dei padri gesuiti ci hanno concesso l’uso di alcuni locali. Ormai la Penny Wirton comprende un centinaio di insegnanti, e si sta espandendo molto negli ultimi tempi l’idea pedagogica che sta alla base, cioè quella di un rapporto alla pari, “a tu per tu”. I ragazzi stranieri – tutti minorenni non accompagnati, provenienti da centri di pronto intervento –, arrivano, si mettono seduti di fronte al professore, e io mi faccio aiutare da qualcuno dei ripetenti. Paradossalmente, lo stesso ragazzo bocciato che non vuole frequentare la scuola, si presta a un anno di servizio senza riscontro, completamente a fondo perduto. Questo mi fa solo capire come la scuola debba compiere passi notevoli ancora per intercettare questi studenti, le cui motivazioni spesso restano sommerse, e non emergono affatto. Cosa avevo fatto di diverso rispetto agli altri insegnanti, con i quali il ragazzo aveva avuto prima rapporti abbastanza burrascosi? Probabilmente l’avevo solo guardato negli occhi, niente di più, e affrontato al di fuori del mansionario, privo delle vesti del lavoratore professionale. In quel momento si trattava di dimostrare un interesse sincero nei suoi confronti, al di là del mio ruolo di insegnante di Stato. Vederlo vicino a un suo compagno proveniente dal Senegal o dal Togo, sfuggito dalla guerra e dalla miseria, a insegnargli i verbi “essere” e “avere” –  su questo abbiamo anche scritto un manuale di italiano per stranieri, intitolato Italiani anche noi (Il Margine, 2011), utilizzato come libro di testo nella Penny Wirton – per me è stato uno spettacolo antropologico, perché mi ha fatto capire che questo Paese non è così brutto come ce lo dipinge la televisione, o come spesso siamo abituati a leggere sui giornali. Ecco la ragione per cui dico che il mestiere dell’insegnante è difficile: deve staccarsi dal sistema burocratico, ma non può dimenticarlo del tutto. Vorrei che una parte dell’entusiasmo della Penny Wirton filtrasse nelle classi italiane, per aprire le finestre e far entrare un po’ di aria fresca.

Carla Bisleri: A proposito di quelle famiglie dei ripetenti nelle quali i genitori tendono a svalutare il lavoro scolastico o a essere distratti e distanti dalla crescita dei figli, l’argine che la scuola può porre, di fronte a tanta solitudine e trascuratezza, è cercare di farsi carico di questi sentimenti e degli stati d’animo dei ragazzi. Lei definisce l’insegnante come colui che riesce a instaurare un dialogo con il mondo interiore di chi ha di fronte e affrontare anche uno stato di sofferenza. Però, mentre tesse tali legami e tenta di approfondire il rapporto, lei dice che “il ripetente resta responsabile di quello che fa, non può essere giustificato”. E questo ripetente, se riesce a uscire da una situazione che lo isola e lo condanna, mette comunque a dura prova il tentativo creativo, il miglior proponimento, che lei cerca di attuare, come la lettura, che deve passare da essere un compito scolastico a un’esperienza conoscitiva. Di fronte all’ostacolo, cioè la fatica di apprendere, si aggrappa alla convenzione, cioè “paradossalmente, nessuno sembra vedere quanto lui il sistema da cui è sempre uscito sconfitto, quasi provasse gusto a convocare il tribunale della propria condanna. Uscire all’aperto, fuori dai regolamenti, che, pur inchiodandolo, in fondo lo proteggono, e restare solo con se stesso gli risulta intollerabile. Se riesci a convincerlo a guardarsi finalmente allo specchio, hai fatto bingo”. Uno sforzo di trattenere, di riuscire a catturare e dialogare. E questo apre uno dei temi di fondo del suo testo, cioè che la scuola si rivela, per molti di questi ragazzi, l’ultima spiaggia. Lei parla del “vuoto dialettico” in cui vivono. Fare scuola e tessere un legame coinvolgente è molto lontano dall’intrattenimento, poiché la vera forza di questa sfida educativa è quella di essere credibili.

Da cosa nasce, e che tipo di risorse offre, l’autenticità con la quale s’impegna? Come si trasforma all’interno della relazione, e cosa crea quell’alleanza fra insegnante e studente, che dà la possibilità di essere salvati?

Eraldo Affinati: Spesso parlo dell’insegnante come lo “specialista dell’avventura interiore”, “il mazziere della giovinezza”, “l’artigiano del tempo”. In tre definizioni convergono alcuni fondamentali elementi: il passato, la memoria, il tempo. Insegnare significa prendere il testimone del passato e consegnarlo alle giovani generazioni. Poi ti rendi conto che la torcia che stai portando è insanguinata, che la tradizione con cui stai formando la nuova coscienza nazionale è perennemente a rischio, perché si rinnova a ogni passaggio.

Ma chi è l’adulto credibile? Come raggiungere la credibilità di fronte a un adolescente?

Intanto, con la consapevolezza che quello che tu fai o dici può incidersi in modo indelebile nei ragazzi.

Ma perché tu diventi credibile? Io credo che l’adulto credibile sia colui che ha compiuto una scelta nella sua vita. Fare una scelta significa prendere una strada soltanto fra quelle che hai a disposizione. Hai deciso di diventare la persona che sei, fra le tante immagini di te che ti balenavano davanti agli occhi. E per fare ciò, hai sacrificato non solo i rami secchi, le piste evidentemente sbagliate, ma anche rami fioriti, altre belle possibilità alle quali hai però rinunciato per imboccare la tua direzione. L’adulto che agisce in questo modo acquista una forte credibilità agli occhi dell’adolescente. Se invece uno si mostra sempre giovane, sempre disposto a cambiar rotta, magari all’inizio riesce a sedurre e ad affascinare i ragazzi, ma, a lungo andare, lo abbandoneranno.

L’adulto è colui che si assume il rischio di dire di no, andando a creare così uno spazio dialettico che forse i suoi studenti non hanno mai avuto. Spesso l’insegnante è chiamato a incarnare la regola o il limite da non superare. Si tratta quindi di un processo complesso che mette in gioco il suo stesso passato.

Questo è il mio primo libro di militanza partecipativa – con forti connotati anche politici – , ma forse due libri precedenti sono maggiormente in grado di spiegare la mia vocazione pedagogica: quelli sulla storia di mia madre e sulla storia di mio padre. La prima è raccontata in Campo del sangue, in cui narro di un viaggio da Venezia ad Auschwitz. Mia madre era figlia di un partigiano ucciso da nazisti, Alfredo Cavina, che faceva parte della 36° brigata Garibaldi. Il nonno fu fucilato a Pievequinta, vicino a Forlì, insieme ad altri nove cittadini per una rappresaglia, durante la tragica estate del 1944, precisamente il 26 luglio, qualche giorno dopo il fallito attentato ad Adolf Hitler. Mia madre, a 17 anni, fu arrestata dai fascisti e consegnata ai nazisti, i quali la caricarono su un treno che l’avrebbe condotta nei campi tedeschi. Non essendo ebrea, non fu rinchiusa nei vagoni piombati, ma la inserirono in uno aperto, cosicché poté fuggire in modo rocambolesco alla stazione di Udine, dove trovò un uomo, un partigiano, che le faceva segno e l’aiutò a scappare. Nel 1995 ho intrapreso il viaggio che avrebbe dovuto essere quello di mia madre se non fosse riuscita a evadere, da Venezia ad Auschwitz.

La storia di mio padre è ancora diversa: figlio illegittimo – il cognome Affinati appartiene a mia nonna –  , non conobbe mai il padre e rimase orfano anche di madre quando aveva appena 12 anni. Visse a Roma completamente abbandonato, per le strade, dormendo sotto i ponti.

A mia volta, sono cresciuto come figlio di orfani, in povertà, in una casa senza libri. Iniziai poi, per mio conto, a leggere i primi romanzi: Hemingway, Cechov, Tolstoj, Dostoevskij. Sono stati loro i miei compagni segreti, i miei punti di riferimento, gli interlocutori che mi hanno aiutato a diventare grande. Solo adesso capisco come aver intrapreso la strada dello scrittore e dell’ insegnante sia profondamente legato all’origine oscura dei miei genitori: grazie a essa, sono capace di entrare in contatto con il taciturno Michele, perché anche io, come lui, sono cresciuto in un’infanzia priva di parole. Le stesse parole che i miei non furono in grado di trovare per raccontare a me e a mio fratello ciò che avevano vissuto, le ricerco io oggi, per risarcire loro della fortuna che non avevano avuto, attraverso i miei studenti, stranieri o ripetenti italiani. Per riuscire a saldare certe fratture occorre il lavoro di intere generazioni. Questa la ragione per cui, quando entri in classe, porti con te tutto il tuo bagaglio di storia e di vita, ed è altresì il motivo per cui, nello stesso momento, cerchi di andare oltre il solipsismo della tua adolescenza per stabilire un legame con il mutismo interiore, l’indifferenza e l’apparente apatia dei tuoi studenti.

Quando mi sono laureato in Lettere a Roma, non pensavo affatto a diventare insegnante. In una pagina di Elogio del ripetente racconto proprio il momento in cui capii che invece lo sarei diventato: entrando in una classe a Roma di ragazzi veramente difficili – figli di gente facoltosa, che pagava rette esorbitanti per riuscire a farli progredire nel percorso scolastico – , il preside mi avvertì che stavo per inserirmi in una situazione davvero particolare. Ero appena laureato, e ricordo di come, varcando la soglia dell’aula, mi ritrovai di fronte a ragazzi tutti lontani dai banchi, sparsi in giro, e il mio primo pensiero fu: “Come farò?”. Per me, vedere quella scena di ragazzi riottosi, che se ne stavano per conto loro, è stata come una scintilla, la consapevolezza piena che quello era il mio posto, lo spazio magnetico a cui sarei rimasto legato per tutta la vita. Individuai il leader fra loro, quello cui tutti facevano riferimento, e guardandolo negli occhi gli chiesi: “Allora, che cosa vogliamo fare? Chi sei?”. Cominciai a parlare con lui non da professore, ma da persona a persona, e pian piano scoprii un ragazzo dolcissimo, che indossava soltanto la maschera del teppista.

Solo oggi mi rendo conto che la frase che disse una volta Albert Camus, quando gli concessero il Nobel, nei Discorsi di Svezia, mi appartiene profondamente; gli chiesero perché scriveva, e lui rispose: “Io scrivo a nome di chi non può farlo”.

Carla Bisleri: Grazie a questo passaggio autobiografico, si comprende la sua capacità a prestarsi, a rendersi disponibile, a cercare di aiutare e capire anche chi non ha parole. Quanto è possibile che quest’attenzione alla persona, alla sua storia, penetri nella cultura della scuola odierna?

Penso anche ai tanti che, nell’ombra, lottano per lo stesso ideale, e cercano di cambiare il sistema educativo rendendolo più umano. A me la scuola come laboratorio di relazioni piace. Mi ci sono dedicata per anni e credo che riservi ancora per tutti noi grandi capacità innovative anche nelle situazioni più critiche. In un lavoro di qualche anno fa avevo scritto che la delegittimazione sociale della scuola è uno sport piuttosto diffuso. Si tende a privarla del sostegno che le serve, a puntare il dito contro una scuola che non è mai all’altezza, ma se la vediamo da un altro punto di vista, ci è chiaro che la scuola è un bene insostituibile, l’ultima spiaggia per tante persone, e luogo di salvezza. Ci sono anche tanti insegnanti che sfidano il formalismo, che svuota una qualsiasi ricerca di condivisione empatica. Il fatto è che si tratta di un’istituzione prevalentemente strutturata sui numeri, su parametri e standard, più che sulla considerazione dell’insegnante e dell’allievo come due persone con una loro storia che si incontrano.

Nella scuola si manifestano dicotomie interne, perché è il luogo sia dove si può essere salvati, sia dove una bocciatura può rappresentare un’esclusione totale e umiliante. In queste situazioni opposte, colloco due figure estreme: da una parte il ripetente, dall’altra l’eccellente, il bravo della classe.

Si tratta di due poli comportamentali, per cui il ripetente, sulla soglia dell’esclusione, deve sfidare e scontrarsi per trovare il suo limite, mentre l’eccellente è colui che ce la fa comunque da solo? Molti eccellenti – e lo vedo nella mia esperienza lavorativa –  vivono delle situazioni di solitudine, e tuttavia sono quasi sempre tacciati di conformismo, mentre i ripetenti sono i trasgressori, i ribelli. Sono davvero due poli così opposti? Dove si possono incontrare questi due estremi in una scuola attenta alle differenze?

In un interessante esperimento da noi svolto, chiamato 10 e lode, abbiamo rilevato come la scuola, da luogo di diritti e inclusivo, sia ormai fortemente cambiata rispetto ai propositi iniziali. Nella disuguaglianza d’origine, la scuola avrebbe dovuto assicurare pari possibilità di formazione. Come gestisce la scuola queste differenze?

Eraldo Affinati: Per quanto riguarda le competenze, è chiaro che se, ad esempio, un ingegnere sbaglia i calcoli i ponti crollano, se un medico sbaglia la diagnosi il malato muore; quindi è ovvio che a quei livelli le competenze non vanno soltanto perseguite, ma bisogna certificarle. Ma qui stiamo parlando di altro, di quattordicenni e quindicenni, per i quali il punto fondamentale non riguarda una competenza specifica, ma è quello di a diventare adulti. Il lavoro di un insegnante di adolescenti è prettamente un compito di formazione.

Le classi migliori sono quelle eterogenee, composte sia da eccellenze, sia da mediocrità, da ragazzi diversi fra loro, come è usuale trovare nelle varie scuole italiane. Entri in una classe e ti accorgi che per la metà è L2, cioè composta da ragazzi stranieri, neoarrivati o figli di genitori immigrati, che comunque hanno problemi di tipo espressivo e ortografico; poi ci sono alunni certificati, come i dislessici; e infine delle eccellenze. Sono le classi migliori, perché ti fanno capire che non soltanto i deboli hanno bisogno dei forti, ma anche i forti hanno bisogno dei deboli. Il forte impara dal debole quella qualità umana necessaria a una comunità, e per la quale non esiste un voto correlativo da mettere in pagella. Ma “i beniamini di Eraldo Affinati”, per citare l’Elogio del ripetente, sono Alessio, che va a recuperare i compagni rimasti fuori dall’aula per impedire che non vengano classificati; Roberto, che nell’episodio del furto di un paio di occhiali da sole confessa la sua colpevolezza davanti a tutti e risolve così il problema. Questi ragazzi hanno capito una cosa fondamentale, cioè che il bene comune è un valore enorme per la vita, anche se non c’è un voto. La consapevolezza del bene comune è un’eccellenza per me, anche se non la posso certificare.

Come insegnante sono chiamato a sottoporre gli alunni alle prove Invalsi, per le quali devo accettare qualcosa per me di intollerabile, perché ridurre un testo de I promessi sposi a domande a risposta multipla, adeguandosi così a un modello europeo, è svilente per la profondità e l’importanza dell’argomento. La scuola italiana è molto in ritardo dal punto di vista delle attrezzature: scrivere a mano su un foglio di protocollo è una prassi solo scolastica, mentre i cosiddetti “nativi digitali” sono abituati a scrivere su schermi, e quindi sono dotati di una forma mentis completamente differente (ad esempio, sviluppano processi logici associativi più che deduttivi). Le lavagne coi gessi e le lezioni frontali costituiscono un modello di insegnamento vecchio, ottocentesco, inconciliabile con l’oggi. Allo stesso modo, non si può pensare di valutare gli studenti con criteri così asettici e oggettivi, avendo una strumentazione tecnologica inadeguata.

Tralasciamo poi la difficoltà di entrare in una classe italiana, che sarebbe davvero un’esperienza da provare per tutti. Entri in classe alla quarta ora, dopo che il collega ne è appena uscito stravolto, e senza nemmeno che tu possa rendertene conto, tre studenti sono già nel corridoio per andare in bagno, e tu vorresti fermarli ma non puoi, perché ne arrivano altri due per farti firmare la giustifica di uscita anticipata; c’è il compito e devi leggere pagine di letteratura italiana per le ultime due ore della mattinata a studenti che hanno già seguito altre quattro ore di lezione. È chiaro che si è di fronte a un’emergenza, e gli strumenti di cui si dispone sono assolutamente insufficienti. E tu insegnante devi riuscire a catalizzare l’attenzione e arrivare a un punto, e ti accorgi che quello che fai o non fai è di cruciale importanza, non solo per gli studenti, ma anche per te stesso, per il senso della tua vita. Ecco la ragione per cui dico che il nostro lavoro è veramente l’ultima trincea etica che abbiamo. Per questo motivo, chiudo il libro con una bibliografia che non è composta da un elenco di libri, ma da nomi di persone incontrate girando l’Italia: insegnanti, bibliotecari, operatori che si mettono in gioco e non abbandonano la posizione. Loro davvero combattono una rivoluzione al giorno. L’uguaglianza delle posizioni di partenza è ben lungi dall’essere garantita, perché oggi chi nasce in una famiglia favorita sta molto più avanti di un altro. Appoggio ancora don Milani, che diceva che non esistono metodi o tecniche ma solo un modo di essere nello stare a scuola. Secondo questa logica, potrebbe esserci un insegnante severo, vecchia scuola, esigente, ma comunque autentico, e lui sarebbe stimato dai suoi studenti, perché i ragazzi gli riconoscerebbero questa verità che lui può mostrare. L’autenticità del confronto è ciò che conta di più, perché la spiegazione non è un contenuto rigidamente trasmesso e poi preteso tale e quale. Insegnare significa mettersi di fronte a una meta insieme, insegnante e alunno, e avanzare fianco a fianco in un’esperienza conoscitiva.

Carla Bisleri: Nel raccontare la storia dei ripetenti, nel suo libro lascia molto spazio per incoraggiare gli educatori che hanno intrapreso questa strada impervia, spingendosi oltre le apparenze. Da questo fare comunità emerge un’idea di autorità, tema molto dibattuto in ambito educativo. Nonostante la sfida a un certo tipo di autorità, anche nelle relazioni di alleanza di cui lei parla si percepisce una forte autorevolezza, che viene messa continuamente in gioco. E questo non può avvenire nell’inerzia, nell’indifferenza, né in una recita ripetitiva. Riuscire in questa forma quotidiana di presenza e di ingaggio – che è anche molto faticosa – è qualcosa che lei ritiene possibile, come ci ha spiegato facendo riferimento alla sua esperienza. L’educazione deve essere un’alleanza che faccia crescere entrambe le parti. Cos’altro può dirci al riguardo?

Eraldo Affinati: Educare significa ferirsi. Perché se ti metti veramente in gioco, allora puoi anche stare male nel momento in cui ti spendi emotivamente e non sempre vedi il riscontro, anzi, spesso non lo vedi affatto. Spesso agisci a fondo perduto, e lo sanno bene gli insegnanti e i genitori; allora è difficile accettare il dissenso che ti circonda quando incarni la regola e ti fai portavoce di un sistema normativo, che è poi una convenzione sociale, ma si tratta di capire anche quello. Come ci spiegava Machiavelli, il sistema della convenzione ci aiuta a non perdere la bussola, altrimenti, se vigesse lo stato di natura, varrebbe soltanto la legge del più forte. Immaginiamo che un quattordicenne debba ripercorrere il percorso verso la civiltà, e ogni volta le singole generazioni ricominciano l’opera da capo. Noi diamo per scontato tante cose; ad esempio, quando morì Erich Priebke, uno degli ultimi gerarchi nazisti viventi, responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, dovetti spiegare ai miei studenti chi era. Nel raccontare loro della sua vita, del fatto che fosse vissuto poco distante dalle loro case, compresero molto meglio la radice tumefatta del XX secolo, che inutilmente mi sarei affannato a spiegare avvalendomi del manuale scolastico. Non dobbiamo mai dimenticare questo ricominciare da capo ogni volta.

L’anno scorso, quando venni a Brescia per le pietre d’inciampo, proprio parlando della Rosa Bianca, un gruppo di studenti universitari che si opposero alla barbarie nazista, mi venne da pensare alla spina nel fianco, alla consapevolezza della responsabilità dello sguardo altrui, di questa dimensione etica che tutti sentiamo, ed è ciò che cerco di trasmettere ai miei studenti. La coscienza etica va costruita, non è naturale, perché l’uomo è un essere pericoloso e ha bisogno di una guida.

NOTA. Testo, non rivisto dagli Autori, della conversazione tenuta a Brescia il 22.11.2013 su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Testo pubblicato nel n.113 della rivista Città & Dintorni (settembre 2014).