Voce del Popolo, 17 marzo 2016.
“Ho sempre pensato che uno studioso di Roma antica (e del suo diritto) non potesse fare a meno di misurarsi con un racconto che ha segnato, più di qualunque evento incluso in quella storia, i millenni successivi: la morte di Gesù”. Con queste parole Aldo Schiavone dà la ragione del suo ultimo lavoro Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria, edito da Einaudi nel gennaio di quest’anno e che è già diventato un caso editoriale. Le ragioni di questo successo sono diverse: innanzitutto la freschezza della narrazione, che coinvolge il lettore in un crescendo di suspense nonostante sia una storia da tutti conosciuta; l’evidente libertà e onestà con cui cerca un’interpretazione plausibile senza una tesi preconcetta; l’alta qualità letteraria che non va a scapito del rigore delle argomentazioni, ma evita volutamente i tecnicismi del linguaggio specialistico e accademico.
L’autore non è un teologo, ma uno dei maggiori esperti di storia romana, eppure nella sua indagine getta una luce nuova su Ponzio Pilato nel suo rapporto con Gesù. Straordinarie sono le pagine del capitolo terzo “Dio e Cesare”. A detta di Schiavone, Gesù trasforma radicalmente dall’interno il monoteismo ebraico basato sull’identità tra potere religioso e potere civile. Inserendo accanto al Padre la figura del Figlio, che a sua volta ha la duplice natura di uomo e di Dio, egli attua “una riforma di portata incalcolabile, che innesta la tensione del movimento, della negazione, della contraddizione” spezzando il dogma teocratico. Affermando che il suo regno non è di questo mondo Gesù traccia un confine, una divisione che segna il cristianesimo e con esso la storia dell’Occidente.
La basilèia di Dio non si mescola a quella terrena, come vorrebbero farci credere i fondamentalisti e i clericali di qualsiasi epoca storica. Al contrario, la sovranità di Dio esclude ogni forma di sovranità politica della Chiesa e dei sacerdoti, sì che è blasfemo ricorrere al Vangelo per legittimare qualsiasi forma di dominio politico in veste sacrale. Una tentazione del genere si presenta, in forme diverse, nella storia della Chiesa; ma nella misura in cui è diventata in qualche modo realtà storica, essa ha prodotto sempre guasti di indicibile gravità, che si sono rilevati devastanti.
Gesù, in una scena fortemente emblematica, di fronte alla potenza dispiegata da Cesare, ne proclama l’intima relatività, sconcertando profondamente il procuratore romano che, forse interrompendo il prigioniero nel vortice del confronto dialettico, chiede: “Che cos’è la verità?”. È il punto più alto del confronto e, come osserva Schiavone, “non c’è nulla di inautentico o di artificiosamente costruito in questo quadro”.
Da quel momento Pilato, intimamente convinto dell’innocenza di Gesù, utilizza due strategie per salvarlo: lo scambio con Barabba e la flagellazione, possibile pena alternativa alla crocifissione, ma entrambe falliscono. A questo punto rimane l’alternativa secca che era nella sua potestà: decidere autonomamente di liberare Gesù o metterlo a morte. Pilato sceglie di crocifiggerlo, effettuando probabilmente anche un calcolo di convenienza politica di fronte alla minaccia dei giudei di rivolgersi a Cesare.
Josef Blinzler, nella sua fondamentale opera Processo a Gesù (edito in italiano nel 1966 dalla Paideia di Brescia), ritiene che Gesù sia vittima di un “assassinio giudiziario” nel quale la responsabilità di Ponzio Pilato è di poco inferiore a quella dei sinedriti che lo hanno fatto arrestare e condotto davanti al procuratore romano.
Aldo Schiavone avanza invece un’ipotesi ardita: quella di un tacito accordo tra Gesù e Pilato, qualcosa di indicibile a cui gli evangelisti possono solo alludere. In altre parole Pilato prenderebbe atto che Gesù non intende sottrarsi al suo destino, perché solo quella morte poteva consegnare definitivamente alla storia il suo insegnamento: l’amore di Dio per gli uomini e l’apertura universalistica del messaggio divino al mondo (con il venir meno della visione teocentrica del potere). Si tratta di un elemento difficilmente raccontabile, e questo spiegherebbe le improvvise incertezze nel racconto di Giovanni, per il resto preciso e lineare, e l’imbarazzante giudizio su Pilato, che rende enigmatica la sua figura anche nelle interpretazioni successive. Basti pensare ai testi apocrifi del “Ciclo di Pilato”. Nella Paradosis di Pilato il procuratore romano ha agito “senza sapere” e per questo prima dell’esecuzione viene confortato da una voce del cielo che dice: “Tutte le generazioni e le stirpi dei Gentili ti chiameranno beato, perché sotto di te hanno avuto adempimento tutte queste cose preannunciate dai profeti”. Al contrario nella Morte di Pilato il procuratore si uccide con il proprio coltello per evitare una morte più dolorosa comminata dall’imperatore, e non si riesce a seppellire il cadavere senza subire l’invasione di spiriti malvagi.