Il tesoro nascosto

SUSANNA TAMARO

Ho attraversato letteralmente mezza Italia per poter venire da voi, cosa che faccio raramente, perché m’interessa l’argomento. Ho letto alcuni libri di padre Freeman e ho colto l’occasione per parlare non di letteratura, ma di parola, corpo e spirito.

Io ho studiato molti anni arti marziali e yoga, ho quindi un legame particolare col lato fisico e mentale, credo fermamente al rapporto mente-spirito-corpo e penso che si senta molto anche nei miei libri, i quali sono cosparsi di inviti alla meditazione. Per questo vorrei leggervi dei brevi pezzi di “Per voce sola”, “Va dove ti porta il cuore”  e “Anima mundi”.

Inizio da “Per voce sola”:

Prima di ad­dormentarmi ho guardato i1 firmamento a lungo – anche questo non l’avevo mai fatto – 1’ho guarda­to e mi sono pentita di non sapere i nomi delle stel­le. Per me, come per la maggior parte degli esseri umani sono tutte uguali, accessori. Sì, all’improvvi­so avrei voluto chiamarle come per un appello: Si­rio, Orione, Centauro… Mi era venuta una strana idea, pensavo che mia madre e Bruno erano seduti lassù, a cavalcioni di una stella. Se avessi conosciu­to i nomi avrei potuto chiamarli, parlare a lungo con loro come in vita non avevo mai fatto… Insom­ma, capisci, era tornato il sabato, vedevo tutto di nuovo con occhi doppi, c’erano le cose come appa­rivano e com’erano realmente, tutte lì fuse in un unico sguardo. Si sentivano degli sciacalli intorno, i piccoli fruscii della notte – è a quell’ora che vive il deserto – c’erano quei rumori sconosciuti ma anco­ra non avevo paura. Prima di addormentarmi ho pensato a Giona, a lui, il ribelle. Il Leviatano che l’aveva inghiottito aveva inghiottito anche me. Sta­vo lì dalla nascita, immersa, sospesa tra il tritume del plancton. Mentre lui se ne andava tra gli abissi io gli fluttuavo dentro, un girino agitato e cieco… Stavo lì imprecando, dimenandomi… Ero così presa da quello che non mi ero accorta che il mostro ogni tanto apriva la bocca, andava alla superficie e la spalancava per mangiare i pesci. Mangiava i pesci e anche l’aria. Allora la luce a sciabolate entrava dentro; illuminava la gola, la trachea, l’esofago. Avrebbe illuminato anche me se avessi fatto più attenzione, se 1’avessi vista.

Ho pensato quella cosa e mi sono addormentata.

All’alba la luce è salita radente, veniva su piano piano accarezzando ogni cosa, ho aperto gli occhi e mi sono detta, – la luce non colpisce, accarezza – la luce accarezzava e il vento cresceva. E un vento che dura pochissimo, quando il sole è alto è già scom­parso. Io stavo lì in mezzo distesa a terra tra quella luce e quel vento, non ero più un gorgo tra i muli­nelli, ma vento tra il vento, fiato, respiro. Non ero più niente. Non avevo più nessuna voglia di alzar­mi, di andarmene. Sono rimasta lì mentre le cose da profili diventavano forme. E proprio mentre sta­vo lì immobile ho sentito quella cosa, io ero ferma ma il suolo sotto di me si muoveva, andava avanti e indietro in modo regolare e dolce. I1 primo istante ho pensato che si trattasse di un terremoto, ma è un’idea che non è durata a lungo: se fosse stato quello si sarebbero mossi anche gli alberi, il movi­mento sarebbe aumentato sempre più fino a scuote­re tutto. Allora ho ascoltato ancora, ho disteso l’in­tero corpo per sentire meglio e dopo un po’ ho capi­to. L’ho capito solo in quell’istante e poi mai più. Non so se dirtelo, ho paura che quando esci di qua, ridi, che te ne vai dicendo povera vecchia, ma non è questo no, cerca di capirmi. Era sabato.

La terra ha un fiato. Con noi sopra respira il suo respiro quieto.

Questo accade quando la donna dorme sola nel deserto, tutte le sovrastrutture sono scomparse e si sente che il vento della terra desertica ha un respiro che ci comprende. L’annullamento della sua ansia e di tutti i suoi problemi avviene quando lei dice “Non ero più niente… stavo lì in mezzo distesa a terra tra quella luce e quel vento,… ero vento tra il vento, fiato, respiro.” E poi afferma che il sabato si vede tutto con occhi doppi, quelli del corpo e quelli dell’anima, cose che nei giorni non sacri non si riescono a vedere, per questo poi aggiunge: “Cerca di capirmi. Era sabato. La terra ha un fiato. Con noi sopra respira il suo respiro quieto.”

LAURENCE FREEMAN

Sono profondamente d’accordo con quello che dici riguardo al corpo. Il titolo di questa sera, “Il tesoro nascosto”, è una parabola che Gesù racconta riguardo al Regno. Non posso non ricordarvela. Un uomo trova un tesoro sepolto in un campo e con pura gioia vende tutto ciò che ha e compra il campo. La donna della tua storia ha avuto questa esperienza, c’è una grande gioia quando noi troviamo il regno di Dio nel nostro cuore, ma penso che lo troviamo solamente quando abbiamo un cuore di carne. L’anima è salva solo nel corpo, e senza una piena integrazione di anima e corpo noi non possiamo fare questa scoperta. Noi oggi siamo alienati da questa integrazione corpo – anima, viviamo in una realtà virtuale e abbiamo intensamente oggettivato il corpo, Così quando leggiamo la parabola di Gesù potremmo intendere il campo come il corpo. Per l’antica teologia cristiana il corpo è il cardine attorno al quale gira la salvezza, ed è strano e tragico che nella nostra tradizione cristiana abbiamo perso questo legame con il corpo. Un corpo senza respiro non è vivo, e il respiro è la più eterea, la più astratta delle nostre attività umane, ma dà la vita a ciò che è materiale ed è il simbolo supremo dello spirito. Sia nel latino “spiritus” che nell’ebraico “rwah”, Gesù usa l’immagine del respiro per descrivere lo spirito. Dice che “È come il respiro, come il vento”; non sappiamo da dove viene, non sappiamo dove va, ma noi lo sentiamo. Ma se abbiamo perso la capacità di sentire lo spirito, il respiro della vita, possiamo essere vivi fisicamente ma spiritualmente solo a metà. Mentre ascoltavo la tua storia, ho pensato al deserto, un luogo che Gesù conosceva molto bene e nel quale i profeti andavano per combattere contro i loro demoni interiori, ma anche per cercare e trovare Dio. È questo il deserto del nostro stesso cuore. C’è una grande paura nella cultura contemporanea di questo deserto interiore. È interessante come (nella tua storia) la donna sia finita lì per caso, perché ha perso l’autobus e non è potuta tornare.

Innanzitutto noi proviamo paura per il deserto, ma poi questa paura lascia posto alla gioia di scoprire noi stessi. Il primitivo movimento monastico è iniziato nel deserto ed era fondamentalmente un movimento di rinnovamento della Chiesa. La vita spirituale dell’umanità è stata sempre rinnovata a partire dal deserto, perché solo lì è possibile sperimentare il silenzio e la quiete necessari per sentire lo spirito, il respiro. Una volta, Antonio nel deserto ha convocato i monaci e ha pronunciato un’omelia molto corta, di tre parole: “Cristo respira sempre”.

C’è un bellissimo livello di significato nelle tue parole, che mi fa ricordare la spiritualità degli aborigeni australiani. Ricordo che una volta, in Australia, parlavo a un aborigeno della meditazione cristiana che ha ormai 2.000 anni. Mi ha risposto: “ma noi abbiamo una tradizione di meditazione che ha 40.000 anni” e che l’essenza della spiritualità degli aborigeni è arrivare a sentire il respiro della terra. Il respiro unisce l’interiorità col mondo esterno, così se noi arriviamo a sentire il nostro cuore che respira, arriveremo anche a sentire la terra che respira.

SUSANNA TAMARO

Il secondo brano è tratto dall’ultima pagina di “Và dove ti porta il cuore”:

E adesso, pecorella, dove sei? Sei laggiù adesso mentre scrivo, tra i coyote e i cactus; quando starai leggendo con ogni probabilità sarai qui e le mie cose saranno già in soffitta. Le mie parole ti avranno por­tato in salvo? Non ho questa presunzione, forse sol­tanto ti avranno irritata, avranno confermato l’idea già pessima che avevi di me prima di partire. Forse potrai capirmi soltanto quando sarai più grande, po­trai capirmi se avrai compiuto quel percorso miste­rioso che dall’intransigenza conduce alla pietà.

Pietà, bada bene, non pena. Se proverai pena, scenderò come quegli spiritelli malefici e ti farò un mucchio di dispetti. Farò la stessa cosa se, invece di umile, sarai modesta, se ti ubriacherai di chiacchie­re vuote invece di stare zitta. Esploderanno lampa­dine, i piatti voleranno giù dalle mensole, le mutan­de finiranno sul lampadario, dall’alba a notte fonda non ti lascerò in pace un solo istante.

Invece non è vero, non farò niente. Se da qualche parte sarò, se avrò modo di vederti, sarò soltanto tri­ste come sono triste tutte le volte che vedo una vita buttata via, una vita in cui il cammino dell’amore non è riuscito a compiersi. Abbi cura di te. Ogni volta in cui, crescendo, avrai voglia di cambiare le cose sba­gliate in cose giuste, ricordati che la prima rivoluzione da fare è quella dentro se stessi, la prima e la più im­portante. Lottare per un’idea senza avere un’idea di sé è una delle cose più pericolose che si possano fare.

Ogni volta che ti sentirai smarrita, confusa, pen­sa agli alberi, ricordati del loro modo di crescere. Ricordati che un albero con molta chioma e poche radici viene sradicato al primo colpo di vento, men­tre in un albero con molte radici e poca chioma la linfa scorre a stento. Radici e chioma devono cresce­re in egual misura, devi stare nelle cose e starci so­pra; solo così potrai offrire ombra e riparo, solo così alla stagione giusta potrai coprirti di fiori e di frutti.

E quando poi davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta. Respira con la­ profondità fiduciosa con cui hai respirato il giorno in cui sei venuta al mondo, senza farti distrarre da nulla, aspetta e aspetta ancora. Stai ferma, in silen­zio, e ascolta il tuo cuore. Quando poi ti parla, alza­ti e va’ dove lui ti porta.

Potete notare che anche qui, come nel brano precedente, torna il respiro. C’è l’immagine dell’albero che è qualcosa di molto importante. Quando ero giovane non li guardavo neanche, ma col passare degli anni ho capito che sono nostri fratelli, perché – come dice la Bibbia – l’albero è la metafora dell’uomo. Come esso deve crescere radicato nella terra e anche aperto al cielo, deve avere la chioma e le radici. Se la prima è troppo sviluppata diventa qualcosa di irreale, allo stesso tempo le radici senza chioma non producono nulla. Per questo nel testo ho messo l’immagine dell’albero, che io amo straordinariamente.

Poi ho scritto: “quando davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta”. Il discernimento è molto importante, perché noi viviamo correndo e quindi senza scegliere. Quando una scelta è impegnativa, bisogna lasciar tempo alla comprensione di manifestarsi, di capire se è una scelta giusta o meno. “Respira con la profondità fiduciosa con cui hai respirato il giorno in cui sei venuta al mondo”, intendo dire che il respiro che deve scendere nel cuore è quello del neonato che apre gli occhi ancora velati e respira a pieni polmoni, quello della gioia di appartenere alla vita. Quando stai seduta e aspetti questo respiro, se hai pazienza il tuo cuore ti parlerà. Il cuore non è quello della “posta sentimentale”, ma è il luogo in cui lo Spirito Santo abita nell’uomo, ma per sentirlo dobbiamo togliere tutto il rumore che c’è intorno, sennò non avrebbe modo di farci sentire le sue parole. Eppure queste sono straordinariamente chiare quando ci parla. Agendo in questo modo è molto difficile sbagliare. Ho sempre molta difficoltà a farmi capire dalle persone perché, quando devo prendere una decisione, dico sempre: “Aspetta”, e l’idea che si debba ascoltare non fa parte della nostra cultura. Io, però, faccio sempre le cose con estrema lentezza perché in essa emerge la verità delle cose. Noi agiamo in fretta, così spesso sbagliamo.

E poi dice: “Ascolta il tuo cuore”, ma non starlo solo ad ascoltare; “quando poi ti parla, alzati.” Dunque non devi restare a compiacerti di questa purezza, ma con le sue parole devi agire nel mondo secondo la sua volontà. Questa è una bellissima pagina sullo Spirito Santo che non molti hanno compreso, è proprio un’invocazione allo Spirito Santo che abita nel cuore di ciascuno di noi, appunto “il tesoro nascosto”.

Penso che l’avventura nella vita di ognuno sia proprio trovare questo spirito nel proprio cuore, e solo trovare questo tesoro dà un senso di pienezza e di gioia per tutta la vita.

La realtà più bella della nostra fede è quella dell’incarnazione, per cui siamo legati alla materia, Dio è incarnato. Allora l’incarnazione è poter gioire del corpo e di ciò che il fato ci offre. Ad esempio, in questa tarda primavera, passeggiando in campagna c’è il profumo del biancospino, il vento tiepido, la natura che si risveglia: è una bellezza straordinaria e una grande gioia per un corpo libero.

Il lavoro sul respiro ci porta molto a liberarci di ciò che non è utile per questa gioia, per questo “tesoro nascosto”.

LAURENCE FREEMAN

Mi sempre piaciuta l’immagine dell’albero, tanto che qualche tempo fa ho trovato uno dei miei primi racconti che riguardava proprio una quercia più che centenaria. Essa era piantata al centro di un villaggio e impediva la costruzione della nuova strada. Venne quindi deciso di abbatterlo, ma la gente del villaggio era divisa: era meglio avere una strada piccola e tenere l’albero o tuffarsi nel progresso? Penso che oggi abbiamo sacrificato molti alberi per il progresso e ci stiamo accorgendo solo adesso della nostra stupidità. Ho una teoria, ma non sono sicuro che sia vera scientificamente, e cioè che le radici abbiano la stessa dimensione dei rami. Questa immagine esprime perfettamente perché l’albero sia un archetipo e un simbolo biblico così importante e potente. La Bibbia si equilibra su due alberi: quello del giardino dell’Eden e quello del Calvario.

Ogni albero, inoltre, rappresenta l’equilibrio tra l’interiorità e l’esteriorità, tra la parte attiva e quella contemplativa. In un certo senso i rami e le radici corrispondono a Maria e Marta, la vita attiva e la vita contemplativa, appunto. Prima, però, vengono le radici, e la guarigione ha luogo in esse. Se vengono distrutte i rami muoiono, ed è per questo motivo che Gesù dice a Marta che Maria ha scelto la parte migliore. Non afferma che l’azione è cattiva ma che l’essere precede il fare.

Penso che nella nostra cultura siamo ormai disorientati perché abbiamo perso questo equilibrio, e ai popoli legati ad antiche tradizioni noi occidentali sembriamo sciocchi. Abbiamo la ricchezza e la potenza ma abbiamo perso contatto con le nostre radici, così abbiamo perso anche la sapienza.

La tua storia si fonda sull’esperienza del silenzio e il potere di esso di restituirci alla sapienza; infatti la tua nonna dice: “Se non sai cosa fare, siediti e aspetta in silenzio”. Questa è la meditazione, ciò che Maria faceva come simbolo della vita contemplativa, l’altra metà della nostra anima, e quel che succede quando tu stai zitto, seduto, in silenzio e incominci a mettere radici. Abbiamo bisogno di meditare più di una volta all’anno, altrimenti le radici non saranno molto profonde.

Sono stato colpito anche dal tuo focalizzarti sul moderno dilemma della scelta. Noi abbiamo troppe scelte da fare, pensiamo che la libertà sia aumentare il numero di esse e che la religione e l’amore siano questioni di opzioni. Dimentichiamo, però, che in questo mondo della scelta in cui viviamo, creato dall’economia del mercato e dello sfruttamento, ogni nostra scelta è controllata. Lo si può vedere nell’industria libraria, nella quale le grandi librerie eliminano le piccole librerie. Così quando ci rechiamo nelle grandi librerie restiamo colpiti dalla quantità di libri, senza renderci conto che in realtà le scelte sono minori. A noi viene detto cosa scegliere, così perdiamo la libertà, mentre apparentemente aumenta il numero delle scelte. La sapienza della tua nonna esplica che forse siamo maggiormente  felici quando non dobbiamo fare delle scelte, perché stiamo sperimentando la verità e siamo radicati in essa.

Il silenzio, che è un elemento così forte nella tua storia, è ciò che ci radica nella verità. L’albero è un bellissimo simbolo del silenzio, perché è semplicemente ciò che è. Non fa finta di essere qualcosa d’altro né cerca di comunicare se stesso, semplicemente è. Penso che sia questa l’esperienza alla quale ci conduce la meditazione, e penso che sia la guarigione alle radici di cui ha bisogno la nostra società d’oggi.

SUSANNA TAMARO

Gli alberi sono una mia grande passione poiché vivo in campagna e curo un frutteto e un uliveto, e vengo spesso rapita da essi. Trovare degli alberi abbattuti è per me un dolore terribile. Hanno bisogno di sentirsi amati, se fa freddo bisogna coprirli, se fa caldo rinfrescarli, loro sentono questo amore. Credo che lo Spirito Santo sia in tutta la natura e che si manifesti in tutte le forme. Non vedere questo splendore della natura è una grande forma di povertà. Mi capita spesso di fare passeggiate in campagna con amici che vengono dalla città. Loro parlano molto dei loro problemi (io non amo le persone che parlano molto) e io nel frattempo vedo un grillo che cammina, un rospo… Abbiamo camminato per tre ore e loro alla fine non hanno visto niente di quello che poteva essere un dono di ricchezza. Hanno finito così la camminata poveri com’erano partiti, perché non c’è questa abitudine a sapere che bisogna stupirsi di quello che c’è intorno, saper vedere gli insetti che sono una cosa straordinaria, tutte le fioriture dei fiori, il legame profondo che lega una vita a un’altra.

Passando per la pianura padana ho notato con grande tristezza che tutti i campi di frumento sono distese verdi, non c’è neppure un fiore, sono mattonelle di plastica, non sono vita. Nella natura contemplo la varietà e la bellezza. Nei campi di frumento crescono i fiordalisi, i papaveri, e qui non si vedono. Questo significa che sono stati gettati dei diserbanti specifici contro i fiori, veri e propri veleni. Ma se noi uccidiamo quella parte, tutto si squilibra, e allora abbiamo bisogno di ancora una quantità sempre maggiore di veleni per riequilibrare tutto. Io ho un orto, e lascio molte erbacce, fiori, ortiche, perché penso che le insalate siano tremendamente tristi da sole in mezzo a un orto, depresse, come condannate a morte, solo per essere mangiate. Se invece ha vicino delle ortiche, dei papaveri, possono credere che la vita sia una bella avventura, anche se dopo saranno comunque mangiate. Secondo me la varietà produce felicità a tutti i livelli. Adesso leggo l’ultima pagina di “Anima mundi”, il cui protagonista è un giovane uomo che riflette sulla morte della suora che assisteva.

Quando sono arrivato in cima al monte, il vento ha cominciato a soffiare, la temperatura è ulterior­mente scesa. Stavo lì in piedi e non c’era altro rumore che il suo sibilo, lo stesso identico suono che riempiva di incubi le mie notti di bambino.

Stavo lì in piedi e sapevo che lei era morta. Sa­pevo questo e sapevo anche che era viva, avevo una percezione quasi fisica della sua presenza al mio fianco.

Lassù ho capito che la morte non mi faceva più paura, perché morte e vita sono due forme diverse di esistere. Stando lì in piedi ho compreso anche che dentro di me non c’era più spazio per il vuoto. Che il vuoto esiste soltanto finché non si assimila la morte.

Stavo lì in piedi ed ero felice di quel vento. Felice del vento, della terra, della pioggia che cade e fa cre­scere le piante.

Stavo lì e non ero più io ma il respiro delle bale­ne addormentate nella profondità del mare. Ero un leone che camminava nella savana e la gazzella che si abbeverava al fiume. Ero il seme e la pianta e il puledro che traballa sulle zampe. Ero il puledro, la pianta e l’elefante morente, il suo corpo enorme e saggio che si accascia stanco.

Ero quest’universo di respiro e di crescita. Ero tutto questo ed ero anche un uomo, ed era questo mio essere uomo che mi faceva piangere perché l’uo­mo vive nella grandezza e nella magnificenza dell’u­niverso senza mai rendersene conto. Distrugge, con­suma, asserve tutta 1’immensa bellezza intelligente che gli è stata data in dono.

Stavo lì in piedi e singhiozzavo. A un tratto il vento è sceso e ha cominciato a cadere la neve. Non era nevischio ma fiocchi grossi, mi cadevano addos­so e si scioglievano, cadevano sul passaggio circo­stante e lo coprivano.

Allora mi sono mosso per tornare indietro, il sen­tiero era già bianco e i miei passi suonavano in mo­do diverso.

Poco prima del convento ho incontrato un cervo con grandi corna. Strofinava il collo e il muso con­tro la corteccia di un albero, la neve si posava rego­lare sul suo corpo.

Credevo che sarebbe fuggito, vedendomi. Invece è rimasto fermo. Aveva occhi straordinariamente neri, straordinariamente lucidi, con lunghe ciglia ghiacciate. Non aveva paura, non c’era giudizio né sfida nel suo sguardo. Mi osservava e basta.

«Gli uomini amano uccidere gli animali perché hanno indivia della loro naturale grazia», mi aveva detto una volta suor Irene.

Quando il cervo si è mosso, ho pensato che ave­va ragione. C’era una Grazia nel mondo vivente e l’uomo faceva di tutto per esserne escluso.

Quando sono entrato nella sua cella, le candele stavano per estinguersi. Ho bagnato due dita e le ho spente. Poi le ho sostituite. Sono rimasto accanto a suor Irene tutto il pome­riggio e tutta la notte. Più volte, osservandola nella luce incerta delle fiammelle, ho avuto l’impressione che sorridesse.

«Adesso hai capito», mi aveva detto uno degli ultimi giorni.

«E una domanda?»

«No, è un’affermazione.»

«Capito cosa?»

«La cosa più semplice, cos’è 1’amore.»

 «E cos’è?»

«È attenzione.»

La mattina dopo, secondo le sue volontà, ho avvolto il corpo in un telo bianco. C’erano grandi nubi opache e immobili.

Ho dovuto spalare parecchia neve prima di arrivare alla terra e parecchia terra prima di riuscire a seppellirla.

Intorno a lei c’erano tutte le consorelle morte e il corpo inquieto di Andrea.

Mi aveva dato un foglietto da leggere. Era la preghiera semplice di san Francesco.

Quando ho letto: “Perdonando si è perdonati. Morendo si resuscita a vera vita”, dal cielo é ripresa a cadere la neve.

Anche qui è presente il vento, che è una costante dei miei racconti, ma è anche presente un nuovo elemento, e cioè la neve. Essa è simbolo di purezza, di purificazione, della Grazia dell’universo. L’uomo non riesce a essere così umile da entrare in questa grazia, e per questa frattura tra la bellezza dell’universo e la volontà  di non appartenervi, piange, singhiozza. E poi si ricorda delle ultime parole di amore che gli ha detto la suora. Non esiste, per me, parola più abusata di “amore”, ma veramente, concretamente, ogni giorno, cosa significa l’amore? In che modo una persona capisce che l’altra la ama? Con l’attenzione. È una qualità importantissima dell’amore, è quella che dà il conoscimento dell’altro, è apertura all’altro. Senza attenzione non c’è costruzione dell’amore. Essa è, inoltre, una delle qualità che nascono dalla meditazione, e che quest’ultima richiede.

Dopo la frase “l’amore è attenzione”, cade la neve; è questo simbolo di liberazione dal passato e da tutto ciò che ci trattiene dall’essere liberi. Solo liberandosi dal passato si può vivere nel presente, così come morendo nella morte e morendo nella vita a se stessi, al proprio egoismo, alla propria chiusura mentale, si resuscita a vera vita. Quando lui comprende questo, riprende a cadere la neve: dunque, rinasce la vita. L’anno scorso ho realizzato un film, e nella scena finale era prevista la neve, per me molto importante anche visivamente. È stato girato in ottobre e la temperatura era di 23-25 gradi in montagna, la produzione era molto povera e così non si poteva produrre la neve artificiale, che comunque non amo. Pensavo che era un peccato, che sarebbe stato bello fare una scena con la neve. Il giorno prima delle riprese della scena finale la temperatura è precipitata da +25 a –7, una cosa straordinaria, mai successa, e incredibilmente alle sette di sera è cominciata a cadere una neve molto grossa e pesante. Allora ho lottato per due ore con l’aiuto regista per convincerlo a spostare tutto sul lago, dove volevo che il giorno dopo si girasse la scena. Alla fine ho convinto tutti e c’è questa scena meravigliosa, girata all’alba sul lago, che ha una potenza inaudita. Ero molto emozionata perché erano cinquant’anni che non nevicava in ottobre in quel posto.

LAURENCE FREEMAN

La tua storia mi ricorda quando ho partecipato ad un seminario in Arizona e la temperatura era di +35, e uno dei divertimenti serali era costituito da un gruppo di indiani che faceva la danza della pioggia. Il tutto era piuttosto deprimente, perché gli indiani lo facevano per i turisti; noi consumavano la nostra cena e non riponevamo molta attenzione a questo rituale. All’improvviso un’impetuosa ondata di vento è venuta dalle montagne, spazzando via tutto quello che avevamo sul tavolo e portando con sé una pioggia torrentizia. Siamo corsi al riparo, e mentre correvo guardavo gli indiani, che parevano molto più sorpresi di noi.

Penso che il tuo brano congiunga tutti gli elementi di cui abbiamo parlato: il respiro e  il silenzio nella potenza dell’attenzione. La scoperta che l’uomo fa nei suoi rapporti umani è che l’attenzione è amore. Poiché l’amore in tutti i rapporti è pari al grado di attenzione che sappiamo dare alla persona amata. Cosa è l’attenzione se non il dono di noi stessi? Se io ti ascolto, ti dono la mia attenzione ed essa è la mia consapevolezza, la mia vita. Così se io presto attenzione offro la mia vita per te, e questo è un regalo molto più valido di un consiglio o di qualcosa di materiale. Se noi ascoltiamo i problemi di qualcuno e poi gli diamo dei consigli, ma sentiamo di non aver ascoltato profondamente, allora ben poco è cambiato. Se noi invece sentiamo che la persona ha genuinamente donato la sua attenzione, siamo stati toccati dall’amore, ne siamo rinforzati e diventiamo migliori.

Mi piace il collegamento riguardo alla paura, perché mentre l’uomo ha affrontato la morte non ne ha più avuta paura. La morte è la nostra paura più profonda e se riusciamo a liberarcene, allora siamo liberi da tutte le paure. Esse sono delle gravi distrazioni per noi; è la paura che interrompe l’attenzione e per questo è la vera nemica dell’amore. Ciò che noi temiamo di più, è pero la paura della nostra identità.

Spesso noi iniziamo ad amare, a dare la nostra attenzione e noi stessi, ma poi cominciamo a sentire il costo e la profondità di ciò che stiamo dando e ci tiriamo indietro. In questo modo la nostra attenzione e il nostro amore sono interrotti, così se noi potessimo affrontare la morte senza paura, saremmo liberi dalla paura in molti altri modi. L’uomo che ha perso la paura della morte incontra il cervo, lo guarda negli occhi e capisce che è senza paura. Essa è una malattia contagiosa,  ma quando incontriamo persone senza paura, la nostra si riduce. Questo è di grande importanza per ciò che per noi significa religione; quest’ultima è spesso usata per creare un sistema di paure, usa la paura insita in noi e la manipola. È il timore di essere rifiutati dalla comunità, timore della punizione (Dio ti punirà per i tuoi peccati); esse possono infettare la nostra anima. Il vero significato della religione è pero trascendere la paura. Molte volte infatti leggiamo nei Vangeli che Gesù dice: “Non abbiate paura.” Se non possiamo trascendere le nostre paure, non possiamo amare, non possiamo essere interamente vivi. Come tu dici, l’essenza di tutte le preghiere è l’attenzione, perché in essa non stiamo “contrattando” con Dio o tentando di proteggerci da lui, ma stiamo semplicemente aprendo tutte le nostre capacità di attenzione. Questo è quello che si impara dalla meditazione, perché nella sua sapienza la tradizione cristiana dice che il fine della vita è la contemplazione. Essa è l’attivazione di tutte le nostre capacità per diventare coscienti e consapevoli. Chiunque abbia mai provato a meditare, sa che si tratta di un lavoro. Noi dobbiamo ancora imparare ad amarlo e capirlo, esercitarlo con disciplina, ma appena cominciamo a svolgerlo ci rendiamo conto e capiamo che Dio fa attenzione a noi e  riceviamo apertamente il dono di questa attenzione dalla creazione, da qualunque cosa esista in natura.

SUSANNA TAMARO

Volevo dire ancora due cosa prima di salutarvi, riguardo agli animali e ai loro occhi. Io ho la fortuna di abitare in collina e di avere intorno alla casa libere mucche al pascolo. In questo periodo sono da poco nati i vitellini e passo ore a guardare il rapporto di straordinaria tensione tra la mamma mucca e il suo figlioletto. Il vitellino corre e gioca sfrenatamente, mentre la mamma bruca e lo protegge dai pericoli, ogni tanto lo chiama e lo coccola. Penso che nel nostro universo fintamente onnipotente – perché se non piove non sappiamo far cadere la pioggia – ci dimentichiamo che i rapporti da cui discende tutto il creato sono quelli di paternità e maternità: la gratitudine del figlio e l’amore della madre nell’attenzione al figlio. Ci dimentichiamo che la vita è un dono e che continua a rigenerarsi nell’amore.

Lo sguardo umido d’amore e d’attenzione che la mucca riversa sul vitellino è lo sguardo che ognuno di noi dovrebbe avere nei confronti di chi ama.

NOTA: testo non rivisto dagli Autori, del dialogo tenuta a Brescia il 9.5.2005 su invito della Cooperativa cattolico-democratica di Cultura.