Corriere della Sera, 27 dicembre 2020
La psiche umana protegge sé stessa: per gestire ciò che la impaurisce o non comprende, nega o dimentica. Negazione e rimozione di eventi traumatici sono meccanismi di difesa da ciò che provoca un eccesso di dolore e ciò che appare inspiegabile, incomprensibile. In questo modo si preserva dalla sofferenza, si scherma per non essere invasa, impedendole di conseguenza al male di sedimentare, di divenire consapevole e responsabile, di apprendere, per poi finalmente guarire. Ciò vale per l’individuo come per la collettività.
Un’Italia caduta nel buio della seconda ondata da Coronavirus sabato 19 dicembre ha perduto una delle ultime sentinelle della Shoah, testimone di quello che fu l’Olocausto, il grande male del Novecento, portatore di nefandezze indicibili.
Nedo Fiano nacque sulle rive dell’Arno nel 1925, figlio di una laboriosa famiglia della piccola borghesia: il papà era dirigente delle poste e la mamma gestiva una piccola pensione. La loro vita venne sconvolta l’11 dicembre 1938 con l’introduzione delle leggi razziali volute dallo Stato fascista, che apportarono una serie di divieti «da lasciare senza fiato»: gli ebrei non potevano possedere la radio, il telefono, l’automobile, non potevano esercitare libere professioni. Il padre e la madre persero il lavoro e sperimentarono l’indifferenza e la poca solidarietà di tanti: «qualche volta incrociavamo qualcuno che in passato era stato un cordiale amico e che ci aveva tolto il saluto. Questa era una ferita lacerante. Non c’è una legge che obblighi a non salutare gli ebrei».
Vi è un piano inclinato, un continuum che dalle leggi razziali porta all’annientamento degli ebrei. Il giovane Fiano, e tutta la famiglia, dopo aver trovato con difficoltà l’ospitalità in casa di amici – in quelle notti di coprifuoco proprio come oggi – fu arrestato il 6 febbraio 1944 a Firenze, in pieno centro, in seguito a una delazione compensata dalla polizia con «un premio di 5.000 lire in contanti, più un chilo di sale, a quel tempo bene rarissimo».
Iniziò così il calvario che portò alla morte di tutti i suoi cari: prima al campo di transito di Fossoli, poi la partenza il 16 maggio 1944 per Auschwitz, dove giunsero dopo 7 giorni di un viaggio descritto senza parsimonia di dettagli all’inizio della conversazione che tenne nel 2009, ospite dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, dopo aver steso sul tavolo della Sala Bevilacqua la casacca indossata nei campi di concentramento: un viaggio che terminò con lo struggente ed ultimo abbraccio all’adorata madre, «ricordo lacerante» che lo accompagnò tutta la vita.
Fiano riuscì a sopravvivere, scampando alle docce che trasformavano giovani e vecchi, donne e uomini, sani e malati, in cenere per i pesci della Vistola e per la concimazione dei terreni; alla fame e allo sfinimento del corpo e della mente; all’imbarbarimento e alla perdita della dignità: «eravamo senza capacità reattiva al male, abbandonati a noi stessi, desolati maestri del nulla».
Due fattori contribuirono alla sua sopravvivenza: il tedesco, insegnato dal nonno non vedente e trilingue, per cui fu nominato membro della squadra di interpreti incaricati di accogliere quell’umanità stipata nei treni provenienti da tutta Europa; e quella razione di cibo in più assicurata a chi intratteneva i kapò con canzoni italiane nelle baracche la sera. Senza mai perdere la tenace speranza e la fiducia in se stesso, la convinzione che «il punto più buio della notte è il punto più vicino al sorgere del sole».
Alla fine dell’ottobre 1944 Fiano fu trasferito a Stutthof, poi a Stuttgart, quindi a Ohrdruf, e infine a Buchenwald, dove fu portato dai nazisti in fuga per l’arrivo dell’Armata Rossa e dove venne liberato dalle truppe americane l’11 aprile 1945. Così descrisse quel momento indimenticabile, il passaggio dalle tenebre della disperazione alla luce della libertà: «si è aperta la porta ed è entrato un raggio di luce fortissimo, che sembrava una spada, una scimitarra, e invece era un soldato americano. Mi sono buttato giù dal letto e, gattonando, l’ho abbracciato. Non so se ho dormito un giorno o un giorno e mezzo, non posso dirlo. So che mi sono svegliato e toccavo i margini del lettuccio di un ospedale da campo. Sentivo le lenzuola, ed avevo un cuscino bianco. Poi è arrivata un’infermiera che ha detto How are you today?, sorridendo. Svenni una seconda volta».
Sentinella della memoria, autore di numerosi libri, conferenziere instancabile nelle scuole (a Brescia parlò anche al Liceo Calini), Nedo Fiano ricostruì la propria vita nel capoluogo lombardo, trasformando quella che era stato l’inferno sulla terra in un destino, una missione di vita, ovvero quella di raccontare la morte, la violenza, la disperazione per proteggere la memoria dall’erosione del tempo e fare sì che non accada mai più: «il silenzio, la dimenticanza agiscono come una siccità, prosciugano, inaridiscono ogni cosa e distruggono il passato, ma il ricordo è un valore da preservare che va tramandato: perché la storia è un valore che non può essere messo sotto le scarpe […] dobbiamo parlarne ad alta voce, senza paura, per coloro che a milioni furono gasati e gettati nelle fiamme. Se l’eco delle loro voci, ha detto Paul Eluard, dovesse affievolirsi, noi periremmo. Voltare le spalle a questo tragico capitolo della nostra storia significa volerlo dimenticare, e colui che dimentica diventa un complice di quegli assassini».
Risuonano valide tutt’oggi queste parole senza età, monito a non dimenticare il passato, nella consapevolezza che la solidarietà e la libertà siano le uniche difese contro le sopraffazioni: «Dove c’è la dittatura non c’è la libertà del dissenso e la storia delle tragedie umane torna a ripetersi. Ma la democrazia non è garantita nei secoli, bisogna volerla, vigilarla, aiutarla a progredire, bisogna difenderla e rafforzarla, perché è l’unico vero vaccino contro il ripetersi di tragedie terribili e sanguinarie che possono accadere solo in mancanza di democrazia».