Dalle famose affermazioni gidiane sui rapporti di assoluta indipendenza che avrebbero dovuto correre fra arte e morale alle non meno famose considerazioni di Sartre, rilasciate nel corso di un’intervista di qualche anno fa, passa un gran tempo che contiene diversi momenti della speculazione artistica e ci consente di fissare un bilancio di delusioni, di richiami all’ordine e, ancora una volta, di rinunce.
Il problema è di per sé eterno e insolubile e può essere enunciato con una domanda che troviamo al principio di un libretto di Maritain sulla Responsabilità dell’artista. Ecco la domanda: «Ha importanza quello che scriviamo?». Tale domanda può essere sottintesa alla base di ogni opera letteraria, quando tale opera risponde ai caratteri di necessità interiore e di aspirazione al perfetto. Ma ci sono naturalmente vari modi di rispondere e infatti la storia di questo ultimo secolo ci fornisce un campionario quanto mai ricco di esempi e di soluzioni contraddittorie.
Sono stati per primi i simbolisti a sostenere che l’importanza doveva essere assoluta, ma nell’ambito chiuso dell’opera d’arte, al punto da costituire un mondo in sé concluso, senza possibilità di interventi o di riduzioni dall’esterno. Contro questa interpretazione esclusiva del lavoro letterario si posero, o per lo meno si trovarono impegnati gli scrittori del naturalismo, per i quali appunto scrivere doveva significare la forma più piena d’intervento, in collaborazione con tutte le altre opere di redenzione umana e sociale. In tal modo la letteratura tentava di rompere il volontario stato d’assedio, la condizione d’esilio umano e, per vie del tutto opposte a quelle seguite e auspicate dai simbolisti maggiori, si illudeva di poter diventare, se non proprio un vangelo moderno, da sostituire all’antico, una guida o per lo meno una maniera di contributo diretto alla guida degli uomini.
La famosa battuta di Gide, per cui la morale doveva essere «une dépendance de l’Esthétique», s’inserisce in questo preciso momento della contesa che con gli anni avrebbe conosciuto molte trasformazioni e continui adattamenti, ma sarebbe rimasta sul fondo delle questioni vitali. Se poi leggiamo nel suo retto senso la frase di Gide, capiremo che lo scrittore non intendeva affatto sottrarre la morale né liberare completamente l’arte dalla sua funzione globale. In effetti egli cercava di respingere tutta la parte speculativa, tutti quegli interessi che potevano pregiudicare la libertà della ricerca e dell’espressione. In altre parole egli faceva una questione di mezzi e di tempi, ma lasciava intatta quella che doveva essere la zona delle soluzioni finali e intere. Tant’è vero che tutta la sua opera di scrittore sembrerebbe contravvenire a quella prima affermazione di distacco: non c’è libro di Gide che non respiri in vista di una morale precisa, di una morale nuova, per cui lo scopo dell’artista non è soltanto quello di colpire il lettore bensì di farlo pensare, di prospettargli delle situazioni che non collimino dall’esterno e superficialmente con quella che egli riteneva la verità.
Se davvero – come crediamo – tutti i suoi sforzi sono stati fatti per restituire all’uomo una maggiore libertà e una dignità che non fosse soltanto frutto della ripetizione o della morale di comodo, bisogna pensare che egli intendesse dare importanza a quello che diceva e soprattutto ottenere dei risultati, non fosse che quello del dialogo, della critica attiva. Naturalmente queste intenzioni di secondo grado non intervengono mai direttamente nel corso dell’opera. Gide, se voleva insegnare qualcosa, prima di tutto cercava di insegnare indirettamente, mettendo l’accento sui pericoli e sulle insidie delle lezioni immediate, senza schermo, senza intervallo. La sua problematica doveva avere una funzione di stimolo e per questo si limitava a prospettare delle soluzioni inedite o anticonformiste, a mettere dei dubbi, insomma ad avere delle conseguenze a distanza.
Il contrario di quello che avevano voluto fare i naturalisti, a cominciare da Zola, il quale non aveva esitato un attimo sull’opportunità di sposare la verità letteraria alle altre verità, spostando tutti gli accenti sulla dimostrazione. Questi scrittori mettevano le conseguenze nello stesso punto e nello stesso momento delle premesse: una volta stabilito il quadro di una vicenda, una volta declinati i nomi e meglio le fisionomie dei personaggi, la morale scattava ed era sempre una morale prevista fino all’ultimo particolare. Gide, dunque, si ribellava a quegli scrittori che cercavano di sfruttare o nel bene o nel male il loro lavoro.
Come si vede, sono due concezioni di letteratura a cui finiranno per attenersi tutti gli scrittori del secolo, anche se troppe volte la querelle sarebbe stata diminuita e ridotta a una questione di misure e di sfumature. Invece di stabilire dove conveniva per un artista centrare questa preoccupazione morale, si è preferito dimenticare il momento vero della creazione piena per discutere sui mezzi e sui toni della restituzione. Il che equivaleva a riprendere un problema che era stato posto dalla società all’arte, subendone così tutti i contraccolpi e le conseguenze.
Invece – facciamo un esempio – di vedere in che modo andasse intesa la libertà responsabile dello scrittore, si è preferito passare a rivendicazioni territoriali, per allargare il campo degli esperimenti audaci e dimenticare quello che per noi resta la chiave di volta di tutto l’edificio. La responsabilità dell’artista è stata così fortemente pregiudicata da interventi di spettatori non qualificati, i quali avevano soltanto degli interessi pratici, quelli di difendere le posizioni acquisite della morale comune, in modo da non disturbare l’idea di ordine e quella relativa di tranquillità che ne conseguivano.
I famosi processi contro Madame Bovary e Les Fleurs du Mal sono proprio due esempi clamorosi di questo travisamento del problema. Una volta messi sotto accusa, gli scrittori sono stati indotti a ribattere il loro punto di vista non dall’interno della loro opera di creazione ma mettendo degli accenti sempre più forti su quelli che essi consideravano come terreni carichi di esplosivo anticonformista. Ma è chiaro che in tal modo finivano per dare ragione agli accusatori, alla muta degli avvocati che avevano tutto l’interesse per captare la letteratura e l’arte nell’ambito delle loro preoccupazioni morali e sociali, o il più delle volte politiche. Tale preoccupazione col tempo diventò abnorme, non soltanto nel giuoco degli interessi calcolati dei difensori della civiltà borghese, ma purtroppo anche in quello dei sostenitori della libertà assoluta. Col risultato previsto che alle proposte di audacia e di interpretazione anarchica della realtà avrebbero risposto immediatamente gli interventi sempre più grossolani della società, fino a ripristinare in tutte le letterature diversi tipi di censura: condizione di cui più o meno tutti siamo ancora vittime e che ha – ai nostri occhi – gravemente leso e diminuito il lavoro di ricerca autentico, la promozione del senso di responsabilità nell’artista. La questione doveva poi subire con gli anni infinite correzioni e così quando si arrivò a parlare di letteratura pura, per esempio nel dopoguerra del ’18, si ebbe una recrudescenza dei temi che avevano interessato le generazioni letterarie della fine e del principio del secolo. Naturalmente ci sarebbero state delle sfumature diverse ma il fondo della questione non veniva minimamente toccato.
La prima guerra mondiale ha a suo modo riacutizzato il processo di infiammazione politico–sociale che aveva avuto il suo momento di maggiore tensione con l’affare Dreyfus. Si trattava di stabilire i rapporti che devono correre fra società e letteratura, fra interessi artistici e interessi politici. Era evidente che un fatto così importante come la guerra rappresentasse un momento di sospensione, una specie di altolà agli esperimenti più violenti di rottura e di nausea della tradizione, ma non è un caso che dadaismo e altri movimenti siano addirittura coincisi con la guerra e che in tal modo si mostrasse nella sua crudezza la condizione di disagio dello scrittore nella società del suo tempo.
Oggi siamo in grado di vedere meglio che i due atteggiamenti possibili – quello di puro ossequio e di sostegno alla civiltà per cui si combatteva, e quello di ribellione e di distacco dal mondo che pretendeva obbedienza e rispetto delle abitudini – riflettevano in fondo qualcosa di più di due partiti artistici bensì una inquietudine e un malessere che risultavano fin troppo chiaramente agli spiriti più avvertiti, seppure restassero legati sul fondo a dei grossi pregiudizi. La letteratura dell’ordine aveva un bel preoccuparsi nel trovare motivi e tesi a favore della società così come si era costituita. Il tempo era già andato più avanti e questo ci spiega come gran parte della letteratura che aveva avuto la sua stagione più bella nel ’14, allo scoppio della guerra suonava già come esautorata, come una musica lontana di cui non metteva più conto individuare né i problemi né le ansie. Il bello è che nella generale confusione era proprio questa letteratura ad apparire o a nominarsi come responsabile, come cosciente: la realtà è che essa non era più cosciente del momento né di quello che si doveva fare, ma era soltanto memore di quello che era stato fatto, era cioè una conseguenza del passato morto.
E dall’altra parte? Qui il termine di «responsabile» doveva assumere un carattere del tutto diverso: quella letteratura nuova era responsabile nel momento in cui registrava nei modelli tradizionali il vuoto e l’abisso che passava fra le proposte rigide e formali e gli stimoli d’inquietudine che dovevano essere svelati. Beninteso, non tutte le espressioni nuove rispondevano a questa categoria d’assoluto. Anche qui il tempo avrebbe dovuto funzionare da verificatore, si sarebbe cioè dovuto aspettare l’indispensabile chiarificazione interiore dei vari problemi. Troppa storia di avanguardie e di rivoluzioni o soltanto di ribellioni dei primi vent’anni del nostro secolo passa sotto la denominazione più conveniente di storia di incertezze e di equivoci, per cui poteva benissimo accadere che rappresentanti delle due diverse fazioni in realtà fossero legati alla stessa concezione letteraria e inseguissero gli stessi obiettivi. Soltanto col cedere delle passioni avrebbero potuto prendere coscienza della loro verità e naturalmente questo avrebbe provocato altre correzioni, altri mutamenti di rotta. Non ci spiegheremmo altrimenti l’involuzione di certi ribelli in gioventù, il ritorno all’ordine di chi aveva predicato iconoclasticamente distruzioni assolute e stagioni attilesche.
C’è uno scrittore italiano che risponde in modo esemplare a queste nostre sollecitazioni: Ardengo Soffici. Morto a ottantacinque anni, la sua vita è rimasta alla fine perfettamente identificabile in due momenti contraddittori in apparenza, in effetti logici e conseguenti fra di loro in maniera geometrica. Soffici è arrivato alla guerra del ’15 con una maschera che lo aveva fatto schedare nel teatro della rivoluzione letteraria, ma ecco che alla fine di questa guerra – che da un certo punto di vista avrebbe dovuto accelerare il processo di dissoluzione della civiltà borghese – lo ritroviamo nella trincea opposta, fra i rappresentanti di quel mondo che fino a qualche anno prima aveva esecrato. Come spieghiamo il fenomeno? Lo spieghiamo col senso di responsabilità che a nostro giudizio Ardengo Soffici – nonostante tutto, in particolare nonostante il libro dei risultati artistici – scoprì nella sua forma naturale nel secondo periodo della sua esistenza. Prima Soffici si era cercato in modo confuso, aveva sposato dei temi che gli sembravano veri ma che in seguito avrebbe giudicato più onestamente come frutti del momento, come frutti condizionati, attivi soltanto come stimoli.
Il primo periodo gli era servito dunque di preparazione a quello che sarebbe stato poi il suo credo costante. In altre parole, il primo Soffici aveva costruito se stesso su parole e suggerimenti altrui e la guerra lo avrebbe convinto a riprendere la sua prima, naturale figura che si adattava così bene alla storia e alla geografia del suo mondo provinciale. Di tutto il resto – che aveva così generosamente fatto parte delle cronache – non sarebbe rimasto nulla, perfino lo scrittore avrebbe trovato una consistenza nuova che molto da lontano e indirettamente lasciava trapelare qualche cosa dell’istintiva libertà del tempo di Arlecchino, della Giostra dei sensi. Come in altri casi, il tradimento o il mutamento di rotta non vennero dopo ma prima, e non per nulla il Soffici della maturità – scrittore e teorico d’arte – si identificava perfettamente in un tipo di letteratura toscana, quale poté esprimersi nell’Ottocento. Quindi meglio che di rivoluzioni o di controrivoluzioni ci parrebbe più giusto parlare di incertezze e di confusioni e se vogliamo rimanere ancora un momento con Soffici, ci accorgiamo che le sue affermazioni in contrasto aperto – quelle prima del ’14 e le altre dopo il ’18 – sono frutto della stessa vena. Di mutato c’è stato la lista dei nomi e la gradazione dei liquori impiegati ma, sia prima sia dopo, il senso di responsabilità risulta superficiale e nominale. Ciò non significa neppure che fosse privo di sincerità, vuol dire però che non si era mai preoccupato di legare la sua ispirazione a un fondo ben riconosciuto e scandagliato, per cui la verità era sempre quella del momento e la ricerca era intesa come giuoco di reazioni immediate, prima polemiche e poi risentite.
La storia di Soffici è stata condivisa da moltissimi altri scrittori del nostro secolo, soprattutto se passiamo ad esaminare il secondo momento della questione che è quello della responsabilità presa in prestito. Quando si farà una storia completa e non viziata da calcoli della nostra anima, si vedrà che per una grossa parte noi abbiamo venduto il nostro lavoro di fondo. Intanto qui la parola «responsabilità» non si adatta più esattamente alle nostre intenzioni e bisognerebbe farla equilibrare dall’altra di «impegno». Ma le differenze sostanziali non sono molte né di gran peso. Abbiamo visto che per una lunga stagione lo scrittore non volle più sentir parlare di «responsabilità», il caso di un Tolstoj venne generalmente valutato e giudicato come un caso a sé e spiegato nel quadro di una psicologia alterata dalla stessa forza della sua natura. Un libro come la Sonata a Kreutzer ci fa capire come Tolstoj avesse avvertito la sostanza della questione ma avesse preferito o fosse stato portato sul filo di altre considerazioni a spostare i termini dell’invenzione sulla trincea della restituzione: un po’ come fare una questione di misura e di proporzioni. Resta però il fatto dell’accento messo su una delle trasformazioni artistiche più importanti avvenute nel secolo scorso, quando cioè lo scrittore è passato dalla parte di interprete pieno e responsabile a quello di accompagnatore e di persuasore.
Tutta la polemica del decadentismo ha – se guardiamo bene – la sua luce nel quadro di questi termini opposti. È allora che lo scrittore si trova in una situazione di impaccio prima e di nausea poi nei confronti della società o del mondo esterno. Non lo interessa più ripetere, copiare la realtà, come era stata buona regola nel mondo dell’arte classica e da qualche tempo non lo interessava più il tentativo di inventare attivamente, non credeva più alla possibilità di tenere vivo un discorso col mondo che gli stava intorno.
Sainte–Beuve avvertì assai bene quelli che sarebbero stati i pericoli di una concezione artistica che si basava sulla separazione, sulle differenze e sul distacco. Vide che una letteratura spinta esclusivamente alla ricerca dell’inedito e del particolare, dell’eccezionale avrebbe finito per privare lo scrittore di quel fondo di controllo che è indispensabile alla salvezza della nostra personalità intera. Il distacco dalla società portò a un doppio registro di comportamento che se da una parte autorizzava lo scrittore a proseguire per conto suo un discorso assoluto, dall’altra – nei momenti di reazione – lo portava a rinunciare completamente alla sua natura interpretativa e a diventare uno strumento da affidare ad altri o a idee di altri.
Il surrealismo – nei primi anni della sua storia – rappresenta assai bene questo doppio impaccio: partito per allargare all’infinito i confini delle ricerche artistiche, fino al punto di fondere in un unico alito letteratura e vita, dopo i primi tentativi negativi credette indispensabile correggere il mondo della realtà.
Lo scrittore si venne a trovare così in una ben strana situazione: da una parte vedeva con estrema lucidità quelli che erano i termini della sua grande responsabilità, dall’altra era costretto a denunciare la sua impotenza e quindi a scaricare il libro delle responsabilità sulle spalle di altri, nel caso specifico degli scrittori che avrebbero subito il mito dell’impegno sul conto delle strutture della società. È stata una lunga vacanza che volta per volta gli scrittori si illudevano di chiudere e di bloccare mentre in effetti la prolungavano con l’adoperare delle medicine esterne, lasciando in un angolo quello che era l’unico arbitro delle soluzioni ultime: l’anima dello scrittore.
La storia è ricca di esempi e di trasformazioni, ma nominali: il simbolismo in quello che postulava di più alto si sarebbe poi identificato coll’ermetismo, il naturalismo sarebbe diventato realismo socialista, il decadentismo avrebbe scatenato su un altro piano e con altri fenomeni il lirismo puro e alla fine quello che da noi in Italia si era chiamato contenutismo avrebbe generato dopo la seconda guerra il neorealismo. Certo l’opposizione maggiore, sostanziale, sta nei due modi principali di investigazione: quello della pura traduzione intellettuale e quello del rispetto sacro, superstizioso della realtà. Per i primi la letteratura doveva avere delle conseguenze insensibili sul piano della realtà, placandosi quasi esclusivamente nella soddisfazione, nella contemplazione della bellezza, nel migliore dei casi in una forma evocativa della purezza. Per gli altri, le conseguenze artistiche erano secondarie, anche perché lo scopo principale era quello di accendere la fantasia, la sensibilità, la sede delle emozioni più naturali. La responsabilità venne quindi separata, distaccata dal suo fondo naturale e relegata nel quadro di attività particolari: la responsabilità non poteva più contare sull’idea di unità e puri e impuri erano alla fine d’accordo nel fare ciascuno il proprio lavoro. Un po’ come rimettere agli altri la fatica di riunire i fili della questione e molto come dichiarare vacanza sui primi compiti dello scrittore.
Se leggiamo le pagine teoriche, vediamo che vertono sull’interpretazione parziale del problema che alla fine trova la sua forma anchilosata in questa affermazione esasperata, non sincera: lo scrittore deve interessarsi soltanto della letteratura, lo scrittore deve passare dalla letteratura a questioni di carattere generale. Vale a dire, non tanto interessarsi dello scrittore per quello che è, per quello che sente, per quello che crede di dover dire bensì dello scrittore come mezzo, come tramite o di un piacere solitario o di un servizio comune, se non pubblico. Così quando si passa ad esaminare un po’ più da vicino quelle che sono state le reazioni degli altri, di quelli che dovevano ricevere, ci si accorge che sono state – più o meno – legate a questa legge semplicistica. Si capisce come il grossolano intervento della politica abbia avuto buon giuoco, anzi per molti aspetti mano libera nello scegliere una delle due interpretazioni, portando alle ultime conseguenze le sue offerte. Non solo, ma anche qui si sono dati dei casi di conversione apparente che facevano ripensare alle vicende dei nostri ribelli fiorentini, penso ad Aragon, penso all’Eluard dopo il ’40. Di colpo questi scrittori avevano scoperto il problema della responsabilità ma con incredibile leggerezza pensarono di poterlo risolvere applicando ragioni del momento, un momento della realtà, tutt’al più rinunciando a parte dei loro strumenti.
Così se prima parlavano del loro vuoto, dopo tentavano di colmare quest’assenza con parole e ragioni mutuate da altri. Qui l’arte moderna mostrò in tutta la sua miseria interiore una grave situazione di assenza di fondo e di sostanza. Che cosa ci può essere nella realtà, tale da far cambiare l’atteggiamento morale di uno scrittore? Non dico evolvere, che è cosa legittima e necessaria, dico mutare senza una ragione sostanziale ma soltanto in seguito al cambiamento della situazione normale, sotto la spinta di un avvenimento di natura diversa? Purtroppo la letteratura impegnata in questo senso limitato ha finito per confondersi in una serie di applicazioni rettoriche, con l’aggravante che per alcuni di questi scrittori si poteva parlare di buona fede, di conversioni ideologiche sincere. Qui l’equivoco è stato un equivoco di prospettive.
Molti scrittori di fronte alla stanchezza di certe forme o nel disinganno di certe loro stagioni sono disposti a barattare tutto quello che hanno fatto fino allora per cercare altri spettatori o altri mondi, e in una errata valutazione del problema credono di dover ricominciare non solo da capo, ex novo, ma di ripartire da un gradino più basso di quello che avevano raggiunto prima. In tal modo non commettono soltanto un atto di superbia nei confronti degli altri, ma portano un grave pregiudizio a quello che pur resta il progresso artistico. Il tanto celebrato passaggio dal linguaggio oscuro al chiaro della poesia della resistenza risponde molto bene a questo prepotente pregiudizio d’ordine morale.
Per questo si sono avuti degli artisti eccellenti che improvvisamente hanno ricominciato a balbettare, a parlare contraffacendo la propria voce nell’illusione di dare una prova di umiltà a una famiglia anonima di lettori. Il bello è che di questa illusione perfino uno scrittore così rigoroso come Sartre è stato vittima al momento di mettere sullo stesso piano progresso artistico e progresso umano. Per Sartre tutto poi è stato giuocato nell’ambito stretto dell’impegno, ma se in un primo tempo, quando cioè egli credeva di poter ancora fare lo scrittore, impegno voleva dire: partecipazione totale, fusione piena fra invenzione e ricostruzione personale, dopo la guerra d’Algeria l’impegno ha assunto proporzioni più vaste e la letteratura è passata in secondo piano, cedendo non solo la sua priorità artistica ma addirittura il suo posto. Se Sartre avesse ragione per le sue affermazioni dell’intervista o per quelle fatte a proposito degli scrittori negri che fanno della letteratura invece della politica, l’arte sarebbe morta da un pezzo, probabilmente non sarebbe vissuta oltre le prime aspirazioni.
È impossibile saldare in un unico anello quello che è il lavoro di pochi e quella che è l’attesa di molti: sono due momenti del progresso umano e non c’è altra coincidenza che quella indiretta e misteriosa delle vocazioni. In qualsiasi altro modo bisognerebbe arrestare l’attività artistica, nella presunzione di dare a tutti indistintamente la possibilità di sfruttare e godere di un fondo minimo di ragioni.
Ma Sartre ha denunciato anche un altro grosso motivo di perplessità sull’importanza dell’arte e della letteratura in particolare. Alludo alla famosa battuta sul contrasto fra il lavoro dello scrittore e il mondo degli affamati. Battuta che per la verità non sempre è stata intesa rettamente, visto che prima di tutto il filosofo intendeva delimitare il campo delle ambizioni, per un verso si sarebbe detto che avrebbe addirittura negata ogni fiducia alla letteratura di grosse ambizioni e che si illude di poter intervenire nelle questioni della realtà.
Infatti Sartre in una precisazione pubblicata su Le Monde, a proposito dell’intervista, ribadiva la sua sfiducia sull’ efficacia della letteratura di combattimento politico che non solo sarebbe troppo comoda ma avrebbe una possibilità d’eco estremamente ridotta. Resta infine lo sconforto e lo sgomento di chi, occupandosi di letteratura, sente che la sua voce ha un raggio limitatissimo di offesa. Ma la testimonianza ha un valore di sincerità personale, non ci sembra che ne abbia un altro di valore generale perché in nessun modo è lecito pensare che i risultati debbano essere immediati e sullo stesso piano. Direi che non sono neppure della stessa natura. In altro modo o si dà un eccessivo peso all’importanza dell’arte o se ne nega l’efficacia.
La questione resta sempre quella posta tanti anni fa da Gide: l’artista entra in scena dopo il pranzo, la sua funzione non è quella di nutrire ma di inebriare. Oggi dunque come ieri per Sartre si ripropone il problema del «momento opportuno», si cerca di stabilire quale sia il tempo dell’intervento dell’artista. Anzi Sartre sviluppa ancora le pretese, l’intervento dev’essere contemporaneo alla nascita dell’uomo, di tutti gli uomini. Per noi dovrebbe essere posta in primo piano la questione della funzione.
A che cosa serve la letteratura?
L’artista deve nutrire o inebriare? Non ci sono dubbi sulla risposta da dare, l’artista più che nutrire deve essere nutrito: responsabilità e impegno devono presupporre un processo interiore che resti in relazione con i frutti stessi del lavoro. La funzione del nutrire come quella dell’inebriare mi sembra che releghino l’artista a uno stadio complementare, lasciando aperte tutte le porte all’insidia decadente, così come all’abuso ideologico. Così l’arte non ha né il compito né il dovere di migliorare la natura dell’uomo ma deve rispondere inequivocabilmente alla ricerca della verità, deve sollecitare, deve suggerire indirettamente senza possibilità di malintesi. Fino ad oggi non si sono avute soluzioni confortanti perché si è evitato di mettere l’accento là dove andava messo. Non si tratta infatti di responsabilità sociale o politica ma soltanto di responsabilità morale. Dal punto di vista dell’efficacia artistica non c’è dubbio che il rigore ideologico o politico ha lo stesso peso del puro piacere egoistico, della dilettazione psicologica o dell’insegnamento, del regime pedagogico travestito: sono tutti schemi, nessuno è alimentato di sostanza, nessuno può dare sangue. Tutto sta dunque in quello che l’artista porta di suo nella sua opera, confrontato col lavoro degli altri e non si possono invece aspettare aiuti concreti da strumenti che sono prestati o suggeriti o accettati per stanchezza e per vuoto interiore. Se c’è uno stridente contrasto è proprio fra la perfezione degli strumenti e la miseria del dettato.
Si direbbe che da qualche tempo la letteratura cerchi di nascondere ogni stimolo di responsabilità sotto la rete delle compiacenze formali, con l’evidente intenzione di annullare la presenza dell’uomo dall’una e dall’altra parte. È un’opera di vanificazione che si continua attraverso il finto dialogo di chi fa dello scrittore un oggetto fra altri oggetti e di chi invece lo proclama arbitro in nome di una verità momentanea da difendere o da diffondere. La risposta purtroppo è sempre la stessa, da qualunque parte si tenti di entrare nel contesto reale di queste sterili ambizioni superficiali: si dà l’uomo per inconsistente, come materia irrecuperabile, come qualcosa di cui non vale la pena di tentare ancora un’immagine. Quella funzione inebriatrice ha assunto, a differenza della lontana postulazione gidiana, un carattere di perenne gratuità, sotto il velo di un’applicazione spassionata, quasi si volesse trovare un’assoluzione nell’impegno meccanico delle operazioni artistiche.
Purtroppo l’uomo resta separato, dimenticato, se non addirittura deriso. Lo resta nei risultati mentre continua ad essere l’unica domanda che conta appena lo spettatore vada sotto la pelle, il velo degli umori. Di quale uomo si parla? Di un’ombra o di un progetto, di una supposizione o di una memoria senza possibilità di riscontro?
Ecco dove il critico registra il lungo errore dovuto alla mancanza di responsabilità concreta alla base stessa della formazione artistica.
La letteratura che non ha un fondo su cui calare le sue ancore o meglio che non pensa a trovare questo fondo, è votata al divertimento e alla dispersione. Fra le carte di Renato Serra ritrovate in tempi recenti da parte del bravissimo Ezio Raimondi (si veda il suo libro Il lettore di provincia, pubblicato da Le Monnier) troviamo un passo che fa al caso nostro. Diceva il Serra: «Del resto, noi siamo fatti così, dalla natura. Io penso alle nostre conversazioni tranquille, per una strada di campagna, quando ci proponiamo con la più nuda semplicità dei problemi come questi: Pindaro, Murri, Croce? E vogliam dire: ma tu lo leggi Pindaro, per esempio? e che frutto ne cavi? e che cosa è per te? e che cosa ne speri? che cosa è nell’ingegno e che cosa cerca nel mondo (mi tornano a mente i portici di Bologna) Augusto Murri? e a leggere le sue lezioni che gusto ci trovi? e Giolitti? e quella donna? e quell’amico nostro…». E continua: «Se questa è la nostra forma della mente, noi vogliamo realizzarla con sincerità. Con una pulizia che renda conto insieme e del soggetto che ci mosse e dei limiti, della forma del nostro ingegno. Io mi dico competente non a giudicare – che è un vocabolo vile, inventato dai trafficanti, quello cui sospinge necessità di tradurre i valori spirituali in moneta del mercato: graduatoria dei concorsi, stipendio, precedenza, anzianità – ma a cercare e guardare per tutto. In questo rappresenterò la misura degli altri e di me. E mi basterà che sia chiara: onesta nei suoi moti e ingenua nel suo intendimento».
Per concludere: «Il mio nome è uomo, il mio amore è delle gentili cose umane».
Da ricordare che poco più sopra aveva detto che l’unica cosa che cercasse in un libro, in uno scrittore era «il valore umano». Che linguaggio diverso e oggi quasi comprensibile a stento, abituati come siamo a cancellare dalla nostra lavagna questo primo e sacro obiettivo.
Abbiamo finalmente il coraggio di dire come stanno le cose: questa nostra letteratura che sembra così vasta, quasi senza confini, senza riserve né pregiudizi, è in realtà una letteratura di paura e che ha defalcato dalle sue operazioni le cifre che hanno un valore umano, quelli che un tempo si dicevano valori assoluti. Non è molto che un saggista tedesco, Walter Jens, si è divertito a segnare sulla carta alcuni dei motivi di silenzio, delle occasioni di silenzio a cui volontariamente si sottopone la ricerca letteraria. Una lista abbastanza ricca e che potrebbe essere continuata con facilità. Ma non è tanto il numero delle occasioni giudicate negative, ciò che colpisce è la natura di queste evasioni: e non riguardano soltanto i momenti dello spirito ma toccano anche quelli che sono i dati della realtà.
È dunque la letteratura che getta il guanto e non già il mondo che ci respinge. Il mondo è sempre lì che aspetta ed è disposto ad essere interpretato, per lo meno scrutato. Evidentemente ciò che trattiene e spaventa è la profondità dei temi, per cui si preferisce limitare il campo, procedere per esclusioni e lavorare per insistenza sul particolare. La stessa identità di interessi, la supina obbedienza a quelle che sono le regole della moda sono altrettante conferme dell’inerzia di fondo del nostro spirito di ricerca ed è proprio questa paralisi degli arti maggiori che consente una paradossale applicazione di certi sistemi minori di vita.
Si badi, per esempio, all’uso gratuito e folle che facciamo dello sguardo bloccato, dello sguardo che non ammette altre soluzioni all’infuori di quelle della registrazione. Si direbbe veramente che tutto venisse impiegato opportunamente per respingere lo spirito d’interpretazione e di collegamento. Resta da domandarsi se una scelta di questo genere, negativa per la sua stessa essenza, voglia testimoniare una specie di gran rifiuto da parte dell’arte e una presa di coscienza del nulla insuperabile. Una volta stabilito questo rifiuto di principio della costruzione, sembra lecito adattare la nostra vita a simulacri di costruzione provvisoria, da cui risalti ancora una volta l’instabilità costituzionale dell’uomo e la sua mancanza di un nome.
Forse il problema stesso della responsabilità così come l’abbiamo posto è abusivo e si riferisce a un tempo che poggiava su delle categorie e dove la scienza dell’uomo conservava intatto il suo prestigio. Se ammettiamo che è un puro sogno delle nostre ambizioni trovare un ancoraggio all’uomo, se accettiamo il principio dell’innominabilità, è chiaro che anche il problema della responsabilità dell’artista perde ogni senso, diventa tema accademico e nulla più. Ma è proprio sul punto principale della questione che ci sembra di non poter transigere: ci sembra di non poter transigere: non siamo infatti disposti a negare all’uomo ogni possibilità di riconoscimento né – tanto meno – il diritto a scoprire dentro di sé qualcosa che non sia soltanto soggetto al caso, alla polvere del tempo e segua fedelmente i passi della morte assoluta.
Certo, per dare il senso della responsabilità è indispensabile credere a qualcosa, pensare che l’uomo sia chiamato a rispondere e non soltanto a prendere, a subire, a restituire nel disordine. Oggi, dunque, il problema ci appare molto più arduo di quanto non potesse sembrare a un Serra o a un Rivière e faccio i nomi di questi due critici che in maniera diversa sono passati dalla religione delle lettere a una fede umana. Essi avevano forse intravisto l’inizio di un diluvio, di cui noi siamo diventati per una parte responsabili, per l’altra vittime.
Nonostante tutto, il paradosso gidiano da cui siamo partiti, indicava una possibilità di relazione nell’interno dell’anima umana: oggi si è dissolta perfino la categoria dell’estetica e questo è il significato della pop–art che con vari accorgimenti si è insinuata nel quadro delle nostre preoccupazioni. È la spogliazione di tutti i nostri diritti, il continuo lasciare il passo al giuoco delle ombre sorde, delle ombre senza voce. L’uomo si è volontariamente fatto puro scheletro per lasciar passare intatto lo schermo delle cose, accettate o addirittura invocate come ultima regola.
Di quale responsabilità si può parlare quando lo scrittore mira a diventare una macchina di pura registrazione o si sente paralizzato di fronte a un’immagine della realtà sconvolgente? In due modi appena diversi si dà scacco matto alla coscienza o la coscienza diventa come un freno, funziona come inibizione. Così le domande che si faceva Serra rischiano di apparire troppo ingenue e puerili: che cosa sono? che frutto ne cavo? Non servono se tutto è votato a dissolversi e a presentarsi sotto altre ipotesi ma con la stessa condanna.
Così è avvenuto che si giudicasse opportuno sostituire alla responsabilità l’assoluta irresponsabilità, il rifiuto d’ogni coscienza, una pallida immagine di giuoco: anche perché sarebbe davvero inutile chiedere a uno scrittore di dare delle risposte quando non ha più niente di suo da dire. Ci sembra a volte di essere arrivati al punto finale di questa lunga capitolazione ma l’impressione non è peraltro sostenuta da qualche segno di volontà e di ripresa di coscienza.
Fino a quando non avremo reimparato a chiederci: che cosa sento? che frutto ne cavo? continueremo ad essere tutti, attori e spettatori, scrittori e lettori, delle inutili vittime di uno spirito di vacanza che si è prolungato oltre le rive della più stanca e vile ripetizione meccanica.
NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 2.5.1986.