In questo anno 2000, fatte salve le solite incertezze sui calcoli cronologici, dovrebbe cadere il XXI centenario della nascita di Giulio Cesare, uno degli uomini più poliedrici e importanti della storia di Roma e per ciò stesso di difficile e controversa valutazione. Ma appare chiaro che egli si possa considerare paradigmatico almeno di un certo modo (sempre possibile) di porsi di fronte alla società e alle istituzioni. Il sottotitolo della recente biografia, stesa da Luciano Canfora per i tipi di Laterza, lo definisce «il dittatore democratico», ma forse meglio si potrebbe applicare a lui l’appellativo coniato da Catone per il suo simile Pompeo, di «dittatore privato», ossia di autocrate extracostituzionale. L’aggettivo «democratico» non qualifica con immediatezza una posizione politica antica: nel mondo romano di solito designa una posizione contraria ai conservatori. Cesare si schierò sempre da questa parte popolare, senza le oscillazioni e i passaggi di campo di altri personaggi di rilievo, come Cicerone e Pompeo. Ma popolare non era né per estrazione sociale né per cultura né per forma di vita, piuttosto lo fu per consapevole scelta politica. Meno che mai potrebbe esser detto democratico secondo la concezione moderna, che riconosce, almeno in teoria, la dialettica dei rapporti sociali e la varietà della partecipazione civica nel quadro delle istituzioni. Quale rispetto il futuro dittatore avesse delle leggi dimostra già il cosiddetto primo triumvirato, cioè l’accordo privato stipulato con Crasso e Pompeo per la spartizione e la gestione del potere. Ciò che univa i tre uomini era appunto un’ambizione senza limiti, non già un’idea di servizio. Icastico è lo storico Floro: «Cesare voleva raggiungere il potere, Crasso aumentarlo, Pompeo conservarlo» . È vero che all’inizio della guerra civile Cesare dichiara di voler “liberare se stesso e il popolo romano (si noti l’ordine di successione) dall’oppressione della cricca oligarchica”. Ma la libertà di Cesare è qualche cosa di diverso dalla libertà per i cittadini comuni. Lo tradisce anche il lessico: per sé parla di dignitas, per gli altri di libertas. È lui stesso che nel suo racconto della guerra civile mette in bocca all’eroico Crastino, un sottufficiale richiamato in servizio, la precisazione della differenza. Al momento di guidare i suoi soldati all’assalto decisivo, quest’uomo avrebbe detto: «Con questa battaglia il nostro comandante ricupererà la sua dignità e noi la nostra libertà»; all’inizio era stato Cesare stesso a esortare l’esercito, nella consueta allocuzione dei generali, a difendere la sua dignitas dagli avversari interni. Tali testimonianze sono importanti, perché la narrazione delle guerre civili disegna l’idea che l’autore ha voluto dare di sé, più che la realtà effettiva. La dignitas è dunque non solo la condizione sociale acquisita, ma una specie di «diritto al potere», che spetta a qualcuno diverso dagli altri. Si tratta di un diritto assoluto e superiore ad ogni altro, non vincolato a nessuna norma né legale né morale. Cicerone , scrivendo all’amico Attico, commenta amaramente questa pretesa di Cesare, che proclamava di fare tutto quello che faceva (siamo agli inizi della guerra civile) «per la sua dignità». Ma esiste, si domandava il vecchio repubblicano, dignitas senza honestas? E concludeva l’elenco delle violazioni di Cesare con un «ecc…», che doveva comprendere altri mille misfatti. Cesare peraltro non aveva nessuna remora a dichiarare che questa sua dignitas, che per lui valeva di più della stessa vita, costituiva la ragione prima della sua marcia su Roma. Non a torto Dione Cassio gli fa dire in senato dopo la vittoria di aver voluto diventare forte e potente per poter vivere in sicurezza da uomo di valore e godere la gloria. Anche le ingiustizie e i soprusi subiti da parte dell’ oligarchia repubblicana conservatrice (sobillata da Pompeo, che a sua volta vedeva minacciata la propria dignitas dall’ emergere dell’antagonista) passano in secondo piano, anche se ricordati e proclamati in più occasioni. Non si evidenzia nella sua azione una vera intenzione patriottica, a vantaggio cioè dello Stato, nella propria ribellione. Un valore riconosciuto come la pietas erga patriam, cioè il senso di un dovere da compiere verso la nazione al di là dei limiti formali, avrebbe potuto costituire una giustificazione più accettabile (non mancavano i precedenti in materia). Invece la critica antica è pressoché concorde nell’ interpretare la guerra civile come conflitto per il potere tra due simili. Ancora Dione Cassio ironizza sulla differenza che correva fra i contendenti principali: “Pompeo non voleva essere secondo a nessuno, Cesare invece voleva essere il primo” . Una libertà di fare così assoluta non solo genera scontri fra i potenti, ma urta inevitabilmente in modo violento con la libertà comune. Il successore di Cesare, più accorto di lui, eviterà di insistere nella sua propaganda sulla propria dignitas, preferendo, se mai, la libertà generica. Ma proprio allora si vedrà a che cosa doveva ridursi tale libertas: più ordine pubblico e sicurezza, maggiore tranquillità di vita e tutela dei rapporti economici, nel quadro di un diritto privato sempre più perfezionato, ma nessuna o ridotta partecipazione vera alla gestione della cosa pubblica. Il divorzio tra classe politica ristretta e cittadino comune, reciprocamente estranei, è allora già consumato. Perciò il conflitto tra dignitas di pochi (o peggio di uno solo) e libertas di molti viene considerato l’origine della crisi delle istituzioni della repubblica romana.
Giornale di Brescia,19.8.2000.