La vostra accoglienza stasera è dedicata più alla mia persona che al mio ultimo libro, dato che esso uscirà soltanto in questi giorni nelle librerie; tutto ciò mi commuove e, nello stesso tempo, mi emoziona, forse anche inquietandomi. Perché mi inquieta? Venni qui circa dieci anni fa ospite della CCDC, e da allora, nonostante i ripetuti inviti che mi venivano da Brescia, non volli ritornare, e questo rifiuto mi costò molto più di tanti altri no che dovetti pronunziare in quegli anni. Mi costò di più perché, anche se io sono una sorta di nomade, in questo nomadismo c’è un punto fisso a cui sono legati i miei primi ricordi: sono appunto le zone del bresciano, e soprattutto la zona di Orzinuovi, dove la nostra famiglia era sfollata in tempo di guerra. Le prime parole che ho sentito non furono soltanto nel dialetto di Modena, città dove sono nato, ma anche nel dialetto bresciano, dette da coloro che ci ospitarono.
I rifiuti pronunziati in questi anni derivano da una sorta di disagio: non sono un sacerdote che gode di una sorta di stato di grazia per annunciare certe realtà; non sono neppure una persona che può testimoniare di una vita cristiana coerente, perché più cerco di approfondire e di conoscere il Vangelo, più lo sento lontano, anche se mi riconosco in esso sia a livello di cuore che di testa. Sono un povero uomo travolto forse da un successo certamente superiore ai meriti suoi e dei suoi libri. È un successo che grava sulle mie spalle talvolta in modo pesante perché, vi assicuro, essere conosciuto, non solo in questo Paese ma in altri continenti, per avere scritto dei libri su Gesù di Nazareth, sulla fede o sul Cristianesimo non è certo la stessa cosa che esserlo per avere scritto su Napoleone o De Gaulle. Mi trovo d’accordo con Don Primo Mazzolari, secondo il quale il dramma del credente è quello di annunciare parole non soltanto più alte di lui, ma parole che sembrano condannare chi le annuncia, perché nel momento in cui diciamo di credere ad esse affermiamo la nostra condanna. È dunque con umiltà che stasera vengo tra voi, e non intendo solo parlarvi di idee o di ideologie, ma di farvi partecipi di una piccola esperienza, la mia.
Se qualcuno, quando frequentavo l’ultimo anno di università, mi avesse detto che un giorno mi sarei trovato in splendidi saloni a parlare di Gesù o del Cristianesimo o della fede, certamente mi avrebbe fatto sorridere, perché tutto, nella mia storia sia familiare sia scolastica, mi indirizzava allora verso traguardi e aspirazioni sicuramente non religiosi. Il clima culturale che respiravo in famiglia fu impregnato di un corposo anticlericalismo all’emiliana, e la mia formazione culturale fu quella da manuale del buon laicista, dato che frequentai sempre la scuola pubblica, e fui sempre lontano dal mondo cattolico. Per me, giovane studente un po’ arrogante della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino, la religione apparteneva al mondo che muore, ed era indegna di essere affrontata seriamente da chi, come me, pensava di voler partecipare soprattutto al mondo che nasce. Volevo fare il giornalista, ma non sicuramente trattare di temi religiosi: quelli erano anzi i tempi in cui la religione poteva essere presentata e ritenuta come una sorta di alienazione.
Ad un certo punto della mia vita vi fu però l’incontro-scontro con il Vangelo, che non conoscevo, e con quello straordinario personaggio chiamato Gesù di Nazareth. Da quel momento non feci che pormi delle domande; sono passati ormai 23 anni da quella torrida estate in cui nella mia stanza di studente a Torino mi imbattei in questo “piccolo ebreo”, come Nietzsche lo chiamava. Vi assicuro che da 23 anni ogni mattina ricomincio da capo riproponendomi gli interrogativi che in quell’estate mi posi per la prima volta. Ciò che mi ha subito interessato, e che ancora oggi mi interessa del Cristianesimo, sono le fondamenta dell’edificio cristiano, e non l’edificio in quanto tale. Nella Chiesa mi sono sempre aggirato come un ospite inquieto che si domandava se per caso quella fastosa, grande e antica costruzione, che è appunto la Chiesa, non fosse per caso abusiva: per spiegare meglio questa frase potrei dire con una battuta che mi sono sempre interessato della credibilità e della legittimità della licenza di costruzione del Cristianesimo. Né mai ho approfondito le scaramucce clericali, ritenendole problemi da vaticanista.
La mia ricerca è iniziata ponendomi queste domande fondamentali: chi è Gesù di Nazareth? Esiste davvero un Dio? È possibile prendere i Vangeli come testi storici, o dobbiamo rassegnarci a ritenerli un coacervo di miti e di favole orientali? L’uomo può puntare la sua vita e la sua morte solo sulla religione? Il Vangelo, secondo Mauriac, è come un cielo d’estate, un cielo che, più lo si contempla, più stelle vi appaiono. Anche io, più andavo avanti in questi anni, più mi rendevo conto che il mistero del Cristianesimo e del Vangelo si faceva sempre più fitto e appassionante: credo dunque sia valsa la pena di dedicare tutto il mio tempo migliore a questa ricerca. Ricerca che ebbe la sua prima tappa con il libro “Ipotesi su Gesù”, che ha destato eco un po’ in tutto il mondo, giungendo fino alla trentesima ristampa. Ora, a distanza di tempo, ne riconosco i limiti, ma non ho mai desiderato correggerli perché ho voluto piuttosto proiettarmi in avanti con i libri successivi: “Scommessa sulla morte”, che voleva essere una rivisitazione delle origini cristiane, “Rapporto sulla fede” libro-intervista al Cardinale Ratzinger, segretario dell’ex Sant’Uffizio, e “Inchiesta sul Cristianesimo”, libro che uscirà a giorni.
Che cos’è “Inchiesta sul Cristianesimo”? È un’altra tappa della mia ricerca delle basi cristiane; È una tappa in cui non ho interrogato libri, in cui mi sono liberato dalle biblioteche, e dalla polvere degli scavi archeologici dove avevo cercato le tracce di Gesù di Nazareth, per dar voce alle persone vive e ai volti concreti. In questi anni il lavoro di giornalista mi ha portato in giro per tutto il mondo, e non c’è stata persona credente o non, atea o agnostica, con qualcosa di importante da dire, che io non sia andato a ricercare e non abbia tentato di stimolare sul mistero di Gesù di Nazareth. Nonostante il titolo del libro sia “Inchiesta sul Cristianesimo”, ho voluto che già nell’immagine di copertina Gesù fosse presente, ho voluto porre come sottotitolo la domanda che i discepoli di Giovanni rivolgono a Gesù, “Sei tu il Messia che deve venire?”, per lanciare un messaggio preciso al lettore: più che il Cristianesimo di cui si parla nel titolo ciò che mi ha interessato è il Cristo. Spesso dimentichiamo che la straordinaria singolarità del Cristianesimo rispetto ad altre religioni è che esso non è propriamente un libro, un sistema di norme morali ed etiche, o una visione del mondo, ma è una persona, la persona di Gesù di Nazareth. Con i miei interlocutori non ho dunque discusso di problemi clericali o ecclesiastici, che ritengo secondari, ma ho rivolto loro la domanda fondamentale: “Chi è per te Gesù di Nazareth?”
Il mio viaggio, compiuto con l’aiuto di questi interlocutori, ha dunque mirato alla scoperta della persona di Gesù, sottoponendo la sua figura ad ogni tipo di analisi e di reagente culturale, ricercando l’incontro con persone di origini culturali variegate. Nel libro i biblisti, i teologi e gli esperti di Scritture non sono molti, perché la maggioranza dei miei interlocutori è composta da scrittori, storici, filosofi, psicologi e da uomini che hanno fatto una scommessa contraria a quella cristiana, tutti comunque con qualcosa da dire in proposito. Chi legge il libro deve essere consapevole del paradosso cristiano che rende questa religione differente dalle altre perché sembra mettere il mondo alla rovescia, proclamando che la verità che conta è nascosta ai sapienti ed è rivolta ai semplici. Forzatamente, la mia inchiesta si è svolta fra intellettuali, persone il cui nome compare nelle cronache culturali di mezzo mondo. Se volete, è stata una scelta obbligata, però ho avvertito il lettore che il modo migliore per capire il Cristianesimo non è intervistando gli uomini colti, ma confrontandosi con la fede di quei semplici e di quegli ultimi che il Vangelo chiama testimoni privilegiati. Qualcuno ha detto con una battuta che la Madonna, se è veramente lei che appare, non si mostra ai professori universitari, ma alle pastorelle analfabete. I misteri celesti sono rivelati agli sprovveduti o, meglio, a coloro che per il mondo sono sprovveduti: il lettore deve dunque essere avvertito che i miei interlocutori vanno presi sul serio, ma che la parola decisiva non spetta alla scienza da loro rappresentata, ma a chi forse per il mondo non ha voce.
Quali sono state le mie scoperte in questi lunghi anni di inchiesta sul Cristianesimo? Quali emozioni ho ricavato da questo periplo alla ricerca delle basi cristiane? È difficile sintetizzare un’inchiesta che dura da più di vent’anni, anche se, in questo libro ho dovuto conservare solo gli incontri più recenti. Se dovessi lanciare qualche provocazione direi che, nella scelta dei non credenti, pur nel massimo rispetto per tutti, ho privilegiato quelli espressi da un certo ambiente, lo stesso della mia prima formazione culturale. Si tratta della cosiddetta cultura della Ragione, che nasce nel ‘700 europeo, e che oggi può essere definita illuminista-liberal-democratica. Per ragioni di spazio non ho incluso nel libro voci marxiste, perché in questi anni mi è parso di cogliere nel marxismo, sul piano dell’analisi critica delle radici cristiane, una caduta di credibilità, anche se direi che oggi questa ideologia ha superato gli slogan ottocenteschi, forse un po’ facili e marcati da un certo positivismo, che ne avevano inizialmente contrassegnato la polemica antireligiosa. Lo stesso Massimo D’Alema, responsabile del settore stampa e propaganda del PCI, mi riconosceva in un’intervista come vada abbandonato tutto l’armamentario ideologico del marxismo ortodosso, che rifiutava la religione come un’alienazione e considerava il credente come un burattino. Con la caduta verticale della credibilità marxista sui temi religiosi, non è sorta un’altra cultura dell’ateismo. J. P. Sartre, che se ne intendeva, riteneva l’ateismo un’impresa lunga e difficile, e considerava l’ateo assoluto un personaggio raro forse alla pari del credente vero o del santo. Se l’ateismo è sempre stato un fatto di minoranza, oggi direi che nel mondo della cultura è praticamente scomparso. Anche nel libro ho fatto fatica a includere un ateo, ma alla fine l’ho trovato nella professoressa Margherita Hack, direttrice dell’Osservatorio astronomico di Trieste. Tuttavia, quando fui davanti a lei, mi bastò scavare un momento per rendermi conto che il suo non era un ateismo oggettivo e meditato, bensì una scelta soggettiva, dal momento che questa signora continuava a ripetermi: “Per me Dio non esiste, ma non escludo che possa esistere”.
Oggi, piuttosto, ciò che contrassegna la cultura della non credenza è l’agnosticismo: ignoramus et ignoraverimus (ignoriamo e sempre ignoreremo). Si tratta ancora di un rigurgito dell’Illuminismo settecentesco, un vago deismo, che concepisce un Dio innocuo, il quale, se esiste, in fondo non ha nulla da dire all’uomo. L’agnosticismo odierno afferma che non è razionalmente possibile dare alcuna risposta definitiva sulla verità o falsità della religione. Gli agnostici sospendono pertanto il giudizio in nome della Ragione, quasi che questa fosse il vero idolo. Ma la loro Ragione è chiusa, perché pensa che non le sia possibile oltrepassare certi limiti: in realtà la scienza moderna e la conoscenza vera hanno basato il loro progresso proprio sforzandosi di andare al di là dei limiti.
Intervistando gli agnostici ci si rende conto che molto spesso il loro rifiuto di prendere posizione sulla religione è determinato più da motivi ideologici che da una vera e propria ricerca interiore. Mi viene in mente, per esempio, Alessandro Galante Garrone, grande storico del radicalismo e mio maestro, uomo che stimo e di cui apprezzo la serietà culturale. Galante Garrone mi confidò che il suo rifiuto per il Cristianesimo non derivava da studi o dall’analisi critica della figura di Gesù di Nazareth, ma dallo scandalo che nel 1929 suscitò nella sua coscienza la firma die Patti Lateranensi tra Benito Mussolini e la Chiesa Cattolica. Sono motivazioni rispettabili, ma non hanno niente a che fare con un giudizio sulla realtà cristiana. La verità del Cristo non dipende da un Concordato.
Un altro campione dell’agnosticismo, il senatore a vita Norberto Bobbio, mi diceva che si era sempre rifiutato di affrontare il tema cristiano e di approfondire i Vangeli perché vi scorgeva una dimensione soprannaturale e miracolistica e, partendo dal presupposto che tutto ciò che va oltre l’esperienza quotidiana non può essere approfondito, non li riteneva degni di studio. Si tratta ancora una volta di un rifiuto previo che non ha alcuna incidenza su ragioni religiose autentiche e non tocca la verità del Cristianesimo.
Ho incontrato anche ex-cattolici. Umberto Eco, per esempio, che in gioventù fu uno dei dirigenti dell’Azione Cattolica e che, con un percorso inverso al mio, dalla religione è passato ad una cultura laica. Eco mi confermò che il suo distacco dalla religione non fu determinato da riflessioni sulla persona di Gesù o dalla convinzione che il Vangelo non potesse essere vero, ma in realtà da una questione di eleganza culturale: un uomo attento come lui all’eleganza culturale non poteva convivere con l’ineleganza cattolica.
Sono giunto alla conclusione che dal confronto con la cultura della non credenza di oggi, anche con i suoi esponenti più prestigiosi, i credenti non devono essere troppo intimoriti. Ho sempre tenuto presente, nello svolgere la mia ricerca, il grido con cui Giovanni Paolo II ha voluto aprire il suo pontificato: “Non abbiate paura”. E anche oggi credo che se non si ha paura di confrontarsi onestamente e lealmente con la cultura della non credenza, la fede non viene messa in pericolo, ma in realtà confermata. Ricordo che Jean Guitton, un grande esponente del Cristianesimo francese, affermava che il Cristianesimo non teme la cultura tout court, ma la mezza o falsa cultura, poiché se un po’ di cultura può allontanare dalla fede, molta cultura può ricondurre ad essa. Ciò a cui il cristiano è chiamato oggigiorno, soprattutto sul piano culturale, non è la critica, ma la critica della critica. In questi anni, spesi alla ricerca dei critici del Cristianesimo, nel tentativo di criticare le loro critiche, mi è sembrato che non si debba avere paura di loro. Ho avuto l’impressione che in questa Chiesa postconciliare molti cattolici siano attanagliati da una sorta di complesso di inferiorità nei confronti della cultura laica; ma è una cultura che non conoscono, ed è solo per questo che la temono. Io non venivo dal catalogo delle Edizioni Paoline, ma da quello delle Edizioni Einaudi o Feltrinelli, e, prima di raggiungere il Cristianesimo, avevo attraversato un tipo di cultura di cui avevo visto chiaramente sia i meriti che i demeriti. Perciò non ho avvertito alcun complesso di inferiorità verso di essa.
La crisi della cultura agnostica è tanto grave che oggi può capitare la sorpresa di imbatterci in alcuni intellettuali non credenti che si dicono ormai cattolici. Ho incontrato scrittori come Giovanni Arpino e Claudio Magris, o grandi critici come Geno Pampaloni, che dell’ambiente illuminista da cui provengono vedono l’insufficienza spirituale, tuttavia non al punto di accettare la fede e diventare praticanti. Pur restando in una cultura agnostica, essi hanno accolto la positività del progetto cristiano, e si pongono nei confronti della Chiesa con grande cordialità e serenità. Oggi, forse, ciò che contraddistingue molti cattolici è la perdita del senso della Chiesa, e la mancanza della ferma e umile fierezza del credente. Spesso si ha quasi paura a proclamare apertamente il proprio amore per la Chiesa, o perché confusi su certi dogmi, non spiegati o demitizzati e distorti dalla propaganda laica. La fierezza di essere cattolici e di riconoscere nella Chiesa un progetto di vita per il singolo e per l’umanità l’ho spesso trovata in coloro che si dicono non credenti. Questo, a mio giudizio, è un segno storico di rivalsa del Cristianesimo. Sono costoro i nipoti dell’Illuminismo, del Positivismo, dell’idealismo novecentesco di Croce e di Gentile, che guardavano con disprezzo alla religione, considerata filosofia per il popolo. Provate a pensare all’arroganza della filosofia idealistica la quale, con la riforma Gentile, aveva concesso che l’insegnamento della religione entrasse nelle scuole elementari, ordinando che nelle università venissero chiuse le facoltà di Teologia. I nipoti di questa arroganza laica ora riconoscono i limiti della loro cultura e la positività del progetto cristiano dell’uomo e della società, concedendo ad esso il loro appoggio.
Dopo aver incontrato i non credenti, ho cercato di misurarmi anche con i credenti, facendo in modo che nel libro fossero rappresentate tutti le prospettive secondo cui il Cristianesimo può essere affrontato. Così facendo ho confermato un’idea che spesso mi è capitato di formulare in questi anni: oggi il problema di Gesù di Nazareth e dei Vangeli viene studiato più dai non credenti che dai credenti. Se la critica biblica e il modernismo, espresse dalla cultura cattolica, stavano quasi per distruggere le basi stesse del Cristianesimo e del personaggio-Gesù, oggi quella scienza laica che aveva tentato di sgretolare la storicità dei Vangeli e di Gesù ha finito in realtà per confermarla.
Ho così constatato personalmente la vitalità del Cristianesimo di oggi rispetto all’agonia di ieri. I miei amici marxisti mi confidavano che solo i cattolici possono permettersi di riempire un teatro di giovani per discutere di problemi autentici. Giorgio Benvenuto, capo della UIL, mi diceva in un’intervista che mentre la Chiesa ha saputo fare il Vaticano II, da cui tutto il movimento cattolico è riemerso rinvigorito e vittorioso, loro, gli esponenti del laicismo, non potrebbero permettersi un Vaticano II perché la cultura che li rappresenta è troppo vecchia e non reggerebbe a un aggiornamento come quello conferito al messaggio cattolico. Gesù ci ha insegnato che il criterio per giudicare la verità delle cose è quello di guardare se esse hanno dato buoni frutti. Oggi, malgrado qualche segnale di crisi, i frutti del Cristianesimo sono più che mai vivi.
Vorrei terminare questo incontro dicendovi ciò che in questi anni ho capito di due frasi del Vangelo. Una è l’invito rivolto da Gesù a chi lo ascolta (Mt. 7, 7): “Cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto, perché chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto”. Mi sembra che sia proprio così: chi cerca con umiltà e in modo sommesso trova, anche in questo campo; questa è la ragione per cui la critica della critica ha finito per confermare il Cristianesimo, e non per metterlo in pericolo. L’altra frase è quella rivolta da Pietro a Gesù (Gv. 7, 68): “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. Con umiltà e con fermezza vi ho fatto partecipi di questa mia piccola esperienza, certo personale ma confermata da tante testimonianze, esperienza di chi, procedendo nella vita, ogni giorno che passa si rende conto sempre di più che quel “Tu hai parole di vita eterna” può, e forse deve, essere il grido dell’uomo di oggi.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 14.4.1987.