Perché rivisitare Socrate e metterci alla sua sequela, perché tornare a farci suoi discepoli? Socrate è l’uomo dei paradossi. Egli, che ispirò tutte le grandi filosofie della Grecia, non scrisse una sola parola. L’arco della sua vita va dal 470 a.C. al 399; ma il suo messaggio è infinitamente più attuale di quello che può essere proposto da qualsiasi filosofo contemporaneo. Il grande ateniese è uno di quegli uomini che non solo ha rinnovato profondamente una civiltà, quella cui apparteneva, ma la civiltà umana in quanto tale. Egli ha rivelato all’uomo la sua vita interiore: ha scoperto le categorie dell’universalmente umano nella logica e nella morale, ci ha insegnato, con l’esempio della sua stessa vita, che “nostro primo dovere è farci clienti della verità” e che “senza l’esame del pro e del contro la vita non è degna di essere vissuta”. La forza di Socrate non sta solo nella sua dottrina, ma soprattutto nel messaggio della sua vita: egli ci comunica come pochissimi altri nella storia, un’intuizione profonda di valori che non passano, un’emozione che illumina e cambia la vita. Un’emozione che potrà anche essere resa, almeno in parte, esplicita nella sua struttura concettuale, ma che in realtà precede l’idea e la genera, invece di seguirla. Il figlio dello scultore-scalpellino Sofronisco e della levatrice Fenarete conduce i suoi interlocutori, oggi come 2400 anni fa, a mettersi in chiaro con se stessi, a prendere possesso di sé, a conoscersi come soggetti di vita spirituale, come anime.
La grandezza di Socrate forse non sarebbe emersa in tutto il suo fascino se egli non si fosse dato il compito di fronteggiare la prima grandissima crisi che minacciava alle sue sorgenti il nascente spirito europeo: quella crisi che ebbe il nome di sofistica. Ebbene, al più lucido avversario dei sofisti toccò la sorte di essere confuso proprio con i sofisti nella parodia che del suo insegnamento si fa nelle “Nubi” di Aristofane: parodia che è tanto più odiosa se si pensa che l’informazione, peregrina per il popolo, non doveva essere tale per il commediografo, il quale nella stessa opera, che fa da prologo alla più alta tragedia del mondo precristiano, si dimostra abbastanza ben documentato. In realtà Socrate rifiutò di lasciarsi attrarre dal troppo facile e superficiale scontro delle posizioni estreme di un Aristofane o di un Callicle, perché quella contrapposizione non faceva che mettere a tacere la voce della ragione, che è invece la prima cosa di cui l’uomo e la città hanno bisogno. Non si tratta per Socrate di mediare due posizioni antitetiche, di cui una riesca di fatto a prevalere, sia pure arricchita dal superamento della sua negazione. Ciò di cui si tratta è ben altra e ben più alta cosa: è il destino dell’uomo e della civiltà, è la scoperta e la giustificazione razionale del bene, della sua spiritualità e interiorità, di fronte ai disvalori che immiseriscono la vita delle singole persone e delle comunità, quando non la pervertono. Si comprende allora perché Socrate è il vero iniziatore dell’umanesimo perenne, l’“impolitico” di cui la politica ha sempre bisogno.
Giovanni Reale, che ha dedicato la sua vita all’impresa culturale e spirituale di far rivivere per l’uomo contemporaneo la saggezza antica, ha voluto tenacemente che la compagnia di Carlo Rivolta portasse sulla scena quei dialoghi platonici in cui l’insegnamento di Socrate ed il messaggio della sua vita parlassero nel modo più diretto alle nostre intelligenze e alle nostre coscienze. La scelta, inevitabilmente, è caduta su tre dialoghi: l’”Apologia di Socrate”, il “Critone” e il “Fedone”. Quei tre dialoghi, sebbene scritti da Platone in tempi diversi, si richiamano l’un l’altro, avendo tra loro una stretta comunanza tematica. L’”Apologia”, infatti, ha per oggetto il processo a Socrate e la difesa che il filosofo fa della sua missione divina. Il “Critone” ricorda le ragioni profonde per cui Socrate non intende assolutamente sottrarsi alla condanna, benché immeritata, e pone la Legge a fondamento della vita sociale e politica. Il “Fedone” ricrea la situazione del filosofo che, in attesa della morte, che ormai incombe su di lui, discute appassionatamente di ciò che è il “vero uomo” e il “vero bene dell’uomo”, ed i suoi ragionamenti giungono a prospettare con ragionata certezza l’immortalità. La posta in gioco è molto alta: si tratta, infatti, di spiegare in ultima analisi perché la morte appaia a Socrate qualcosa di cui non dobbiamo corrucciarci essendo anzi un bene.
Gli interlocutori di Socrate sono diversi nei tre dialoghi: i giudici, ben 500, nell’”Apologia”; uno solo, invece, nel “Critone”, il dialogo che porta appunto il nome dell’amico carissimo che ha organizzato la fuga dal carcere per correggere l’iniqua decisione dei giudici; nel “Fedone” i protagonisti, oltre Socrate, sono due agguerriti giovani filosofi non ateniesi, Simmia e Cebete, che sembrano dar voce ai nostri radicati timori, alla nostra stessa propensione al dubbio, pronti come sono a moltiplicare obiezioni all’infaticabile ricerca socratica, tesa drammaticamente ad aprirci un varco alla grande speranza. Va notato, però, che l’atmosfera intellettuale dei tre dialoghi è molto diversa: appassionata ed ironica nell’”Apologia”, pacata e amicale nel “Critone”, di progressiva intensità dialettica e di straordinaria elevatezza spirituale nel “Fedone”. I tre dialoghi sembrano costituire altrettante “difese” del comportamento di Socrate di fronte alle accuse, all’ingiusta condanna e alla morte. Tuttavia, a veder bene, essi possono essere compresi nel loro vero significato solo se assumiamo a chiave di lettura l’affermazione di Socrate davanti ai giudici: “Sono molto lontano dal difendermi per il mio interesse” (“Apologia” 30 d). La vita e la morte del filosofo vogliono essere, infatti, un “servizio divino”. Socrate dice senza preamboli che egli, con l’ironia e la maieutica, si prende cura dell’anima del suoi concittadini perché in ciò consiste il servizio richiesto da Dio per la loro salvezza, sì che la sua azione di risveglio è per la città la “più grande benedizione e il maggior bene”. La missione affidata a Socrate lo espone all’invidia e alla diffamazione, ma il suo dovere è adempierla. La paga sarà la cicuta.
Giornale di Brescia, 21.11.1996. Articolo scritto in occasione della rappresentazione teatrale della trilogia socratica.