Mi è stato chiesto e sono lieto di accogliere l’invito a parlare quest’oggi delle interpretazioni del Novecento. Argomento che cercherò di sviluppare, naturalmente non esaurendolo perché è un tema molto ricco, offrendo alcune suggestioni. Interpretare il Novecento vuol dire appunto interpretare un secolo. E questo pone un problema, che in un certo senso è preliminare a tutti gli altri. Cioè proprio il problema di capire cosa intendiamo quando parliamo di «secolo». Potrebbe sembrare una domanda inutile, essendo il concetto di secolo un concetto usuale. Ma proprio il problema dell’interpretazione del Novecento fa emergere, a mio avviso, il fatto che questa idea di uso comune, in realtà è più problematica di quello che pensiamo. C’è poi una difficoltà specifica nel definire il Novecento. Quando parliamo di un secolo non parliamo esattamente di 100 anni: non è esattamente una misura cronologica, il termine secolo è molto più ricco. E anche nell’uso corrente, quando parliamo di secolo, parliamo generalmente di un periodo storico che ha una sua compiutezza, ha una sua unità, ha anche una sua conclusione interna. Non a caso si parla di secolo con definizioni che indicano, appunto, lo spessore specifico di un secolo, lo spirito di un secolo, e indicando che cos’è caratteristico di quel determinato periodo storico. I contemporanei hanno definito il Settecento il secolo di Luigi XV, oppure il XVIII secolo come il secolo dei lumi, l’Ottocento a sua volta è stato definito, sempre dai contemporanei il secolo del progresso e così via. Naturalmente accanto e insieme a queste definizioni di Seicento, Settecento e Ottocento abbiamo anche operazioni che tendono ad aggiustare i confini del secolo. Noi quando parliamo di un secolo raramente intendiamo in modo rigoroso i 100 anni che vanno dal primo gennaio del 1701, del 1801, del 1901, fino al 31 dicembre del 1800, 1900 e del 2000. Adesso col duemila i conti non tornano bene, perché a rigore il 2000 è piuttosto una conclusione del secolo precedente, e il secolo nuovo dovrebbe iniziare il 2001, ma siccome è una convenzione in realtà ci siamo messi tutti d’accordo che invece il nuovo secolo comincia col 2000 e quindi a questo punto la cosa è andata. Ma ecco, anche questo serve se vogliamo fare emergere quanto siano convenzionali i confini dei secoli e come usualmente si tenda un po’ a spostarli. Si tende a spostarli, proprio per mettere maggiormente in evidenza la caratteristica di ciascun secolo. Ciò che appunto caratterizza lo spirito di questo secolo.
E dunque, per esempio, l’Ottocento spesso viene considerato quel periodo che va dal 1815 al 1915, dal congresso di Vienna alla prima guerra mondiale. Oppure, ed è anche questo significativo nel senso che poi essendo tutte convenzioni, ci sono diversità di interpretazione e quindi diversità di cronologie, ci sono coloro che invece, fanno cominciare l’Ottocento con la Rivoluzione francese e che quindi la anticipano al 1789 e questo ha un senso profondo perché non c’è dubbio che molte vicende dell’Ottocento sono il frutto di una proiezione di quello che è accaduto proprio a partire dagli eventi della fine del Settecento, appunto dagli eventi legati alla Rivoluzione francese. Quindi i limiti cronologici di ciascun secolo sono mobili. Sono mobili in funzione dell’ esigenza di mettere particolarmente in rilievo quello che è il cuore di ciascun secolo, quello che sembra almeno il cuore di ciascun secolo, che viene in genere individuato già dai contemporanei. Le definizioni che noi abbiamo dei secoli precedenti sono in qualche modo nate mentre il secolo era ancora in corso, o si stava concludendo. Cioè sono definizioni coeve rispetto al periodo di cui ci si occupa.
Al fondo dell’idea corrente di secolo c’è poi un retaggio molto profondo, che è proprio l’idea che il secolo è un periodo intermedio. Perché? Quando usiamo il termine secolo noi siamo ancora all’interno della tradizione cristiana. E nella tradizione cristiana, il termine secolo si collega ad una concezione teologica molto densa, molto profonda, che tendeva nella visione pre illuministica, a ripartire la vicenda del tempo in tre momenti: 1) il momento in cui l’eternità non ha ancora prodotto la creazione, quindi non ha ancora prodotto l’inizio della storia vera e propria – 2) quello che è il «secolo presente», secondo il linguaggio teologico tradizionale, che appunto non erano i cento anni, ma era la condizione dell’uomo nel contesto della creazione, quindi sottoposta al tempo, così come noi stessi ne facciamo esperienza – e 3) il secolo futuro, da intendersi come quel tempo oltre la storia che rappresenta il compimento del destino ultimo dell’uomo, se vogliamo quel destino assoluto che viene appunto collocato al di là della fine dell’esperienza temporale, dell’esperienza materiale della vita umana in un futuro che è oltre tutto questo.
Ora, questa concezione tradizionale cristiana, così ricca, così intensa, in realtà non è stata del tutto sostituita dalla concezione laica che è prevalsa dall’illuminismo in poi, in quanto la concezione laica, illuminista e postilluminista, ha ripreso questa concezione, naturalmente in una chiave secolarizzatrice, quindi abbandonandone lo spessore teologico. Tuttavia ne ha mantenuto la struttura di connessione fra i tempi diversi. Allora la concezione cristiana vede tre tempi; quello dell’esperienza di cui noi parliamo, di cui noi abbiamo consapevolezza è intermedio rispetto agli altri tempi. Come dire: un passato assoluto e un futuro assoluto. E in qualche modo pure nella visione laica illuministica c’è continuamente l’esigenza di connettere i tre tempi della storia. Il secolo è quindi, in questa concezione, grosso modo 100 anni, ma è anche un periodo, ed un periodo che ha significato in quanto si collega ad una vicenda più ampia. Questa vicenda più ampia è, nei termini secolarizzati e postilluministi, la vicenda del progresso. Cioè ogni secolo si inserisce in una catena di secoli e questa catena di secoli è la catena del progresso. La storia universale dell’umanità della concezione cristiana è diventata, negli ultimi due secoli, appunto fra Ottocento e Novecento, una visione della storia intesa come progresso.
Naturalmente non entro qui nel merito di tale progresso, perché è un progresso che è stato inteso nei modi più diversi: come civilizzazione, come sviluppo tecnologico, come progresso etico, come progresso industriale, anche come lotta di classe, nella concezione marxista. Ecco: tante concezioni, come sappiamo molto diverse, molto contrastanti fra di loro. Ma in fondo anche con alcune caratteristiche comuni, come quella di concepire i tempi della storia diversi fra di loro, ma connessi fra di loro. In questo senso è da intendersi il secolo, come un momento storico in sé compiuto, ma che assume significato in quanto si connette a una catena più ampia e in quanto periodo che porta l’uomo verso uno stadio di progresso superiore. Lo ripeto: con varie concezioni del progresso.
Spero di spiegare adesso, di far capire, perché secondo me, questa premessa che va un pochino lontano in realtà torni anche intensamente sul dibattito sul Novecento. Perché noi, di fronte al Novecento ci troviamo immediatamente di fronte ad alcune difficoltà, che sono anche i segni della crisi di questa concezione. È la crisi dell’idea di progresso, che è stata l’idea portante della visione della storia degli ultimi secoli, e che oggi in fondo, nel sentire comune appare fortemente problematica. La prima osservazione da fare, che credo sia esperienza anche di ciascuno di noi, è che è molto difficile definire il Novecento. Cioè mentre i contemporanei hanno trovato delle formule, delle espressioni per indicare il secolo dei lumi, il secolo del progresso, oppure legandolo a determinate figure, Luigi XIV e così via, i contemporanei del Novecento che siamo poi noi, non hanno ancora trovato una formula che sia convincente del tutto. E in modo particolare stentiamo a trovare una formula positiva per definire il Novecento. Mentre sovrabbondano coloro che tendono a dire che è stato un secolo scuro, che è stato un secolo di orrori, che è stato un secolo di tragedie, etc. sono pochi coloro che si sentono di dire che questo secolo è stato un secolo positivo. Soprattutto ancora meno coloro che si sentono di dare una definizione che dia immediatamente l’idea di come il Novecento sia stato un passo importante nel cammino del progresso dell’uomo verso, direbbe Marc Bloch, un futuro migliore. Ecco, questa difficoltà di dare queste definizioni in termini positivi è un fatto culturalmente significativo, cioè ci dice subito che con il Novecento ci troviamo davanti a problemi che altri secoli non hanno avuto.
Poniamoci ora il problema della cronologia. Come dicevo prima, per definire un secolo occorre innanzitutto dire quando è iniziato, quando è finito, al di là dei confini convenzionali, proprio per individuare quel periodo storico, unitario, che appunto ci sentiamo di chiamare Novecento. Come è stato fatto per gli altri secoli. La definizione che finora ha avuto maggiore successo dal punto di vista delle interpretazioni del Novecento è quella di “secolo breve” e cioè di un secolo che comincia, grosso modo con la prima guerra mondiale, e quindi 1915 o 1919 (inizio o fine della guerra) e che si conclude, grosso modo, con la fine del blocco sovietico, quindi dal 1989 al 1991. Questa è l’interpretazione del secolo breve. Questa almeno è l’interpretazione che ne ha dato uno storico, Hobsbwam il quale è autore di questo libro, il quale è intitolato proprio Il secolo breve, che è stato pubblicato anche in italiano da Rizzoli. Eric Hobsbwam è uno storico di orientamento ideologico di sinistra, grosso modo, con simpatia anche marxista, che ha scritto questo libro, anche molto ricco: sono 800 pagine in cui in effetti sono raccontate molte cose del Novecento e sono anche abbastanza interessanti. Ma quello che a me sembra significativo è che tale definizione di “secolo breve” non è solo sua ma è stata accolta nella sostanza da molti altri autori, da molti altri storici o interpreti del Novecento. Ciò che a me sembra significativo è che si tratta anche di persone che hanno un orientamento ideologico molto diverso da quello di Hobsbwam. Cioè sulla immagine, sull’interpretazione, sulla figura del secolo breve esiste una convergenza che va un po’ al di là degli schieramenti ideologici tradizionali. Per esempio un autore, che è forse più un filosofo che uno storico, Ernst Nolte, ha una visione completamente opposta a quella di Hobsbwam, ma in fondo anche lui tende a vedere nella prima guerra mondiale l’inizio, diciamo così, di questo secolo breve e appunto nelle vicende che hanno portato poi alla dissoluzione del blocco sovietico la conclusione di questo secolo. E vorrei citare un terzo autore, di tendenze completamente diverse. È il francese François Furet, il quale è propriamente uno storico. Ha scritto delle cose molto belle sulla Rivoluzione francese. Ha scritto anche un libro che ha avuto un notevole successo: Il passato di una illusione pubblicato anche in italiano da Mondatori. François Furet ha scritto non propriamente una storia del Novecento, ma una storia del comunismo, che però di fatto è anche un’interpretazione del Novecento, e lui vede la fine di quella che chiama la grande “illusione” negli eventi della fine della rivoluzione d’ottobre, insomma negli eventi che hanno liquidato il comunismo in Europa.
La definizione del Novecento come secolo breve è interessante sotto molti profili. Anche perché, ripeto è una interpretazione che è stata accolta da autori che hanno tendenze molto diverse ed ha avuto successo anche al di là dell’ambito accademico. Questa definizione è per più versi significativa. Perché? Anzitutto una visione di un secolo inteso così, come secolo breve, è un secolo che finisce con un non evento, cioè con la fine di qualche cosa. E questo è un fatto importante, perché in qualche modo condiziona tutto il resto. Cioè il fatto che la fine del secolo, diciamo così, la conclusione del secolo coincida con la dissoluzione di qualche cosa, pone dei problemi. Perché evidentemente induce l’idea, ed è questo che pensano in fondo tutti e tre gli autori menzionati, che in questo secolo c’è stato qualcosa di sbagliato. Per Hobsbwam è il fatto che il grande sogno comunista si è dissolto, e dal suo punto di vista c’è, come dire un rammarico per questo. Ma anche gli altri autori, che vedono invece positivamente la fine del comunismo, proprio per questo sottolineano che il periodo precedente, fortemente caratterizzato dalla presenza del comunismo, è stato quanto meno segnato da un tragico errore. Quindi anche la visione che vede positivamente le vicende dell’’89-’91, quella conservatrice o la liberale, è in qualche modo segnata da un senso di negatività sulla lunga vicenda del secolo breve. E’ un libro bello quello di Furet, ma anche tremendamente amaro, che un po’ coincide con la biografia del suo autore. Furet è un comunista in gioventù, che si è disilluso poi di fronte al comunismo, che è diventato consapevolmente liberale, ma che porta ed esprime in questo volume l’amarezza del suo percorso biografico, che è stato un percorso di tanti, che hanno vissuto questo secolo e lo hanno vissuto dovendosi poi ricredere dei propri errori.
Ecco quindi che nella visione del secolo breve c’è implicitamente un giudizio negativo sul Novecento. Ripeto: da punti di vista diversi. Certamente c’è questa visione complessivamente negativa. E negativa proprio sul punto a cui accennavo prima, cioè sul problema del progresso. Tutti questi autori che sottolineano gli elementi problematici del XX secolo, mettono in discussione che il XX secolo abbia costituito un passo avanti nella strada del progresso. O per lo meno mettono in discussione che si possa in modo semplicistico attribuire al Novecento un percorso lineare al progresso, comunque si voglia intendere questo termine. Ma voi capite bene che se lo si mette in discussione per il Novecento si mettono anche un po’ in discussione le fondamenta stesse di una visione della storia impregnata dal progresso. Se la catena dei secoli ha conosciuto un secolo che interrompe questa catena, allora tutta la catena viene rimessa in discussione. Naturalmente schematizzo, semplifico molto. C’è questo problema, che nessuno di questi autori affronta esplicitamente, anche se è significativo che tutti e tre dedichino molte pagine all’idea di progresso, agli errori ad essa connessi, ai suoi pericoli e anche agli orrori che a volte l’idea di progresso ha portato con sé, quando è stata concepita come l’idea che la Storia doveva prevalere sui destini individuali, sulle scelte personali, sull’ umanità di ciascuno. Come è avvenuto, per esempio nella vicenda comunista: l’idea della storia e il progresso e quindi, se volete, il partito era più importante dell’umanità, dei suoi componenti, degli uomini o delle donne. Quindi è vero che l’idea di progresso ha avuto anche delle implicazioni pericolose, anche violente, per cui alla fine nasce un grande interrogativo proprio sull’esistenza stessa di un progresso. Dobbiamo dire che i problemi del Novecento interrompono del tutto il cammino verso il progresso? O addirittura svelano che questo progresso non esiste?
Un’altra cosa che vorrei fare osservare a proposito dell’interpretazione del secolo breve, è l’importanza che si dà all’evento finale: la chiave di lettura per capire il Novecento è la sua conclusione. Conclusione che naturalmente, questi autori hanno visto nella fine del blocco sovietico e nella fine anche della speranza comunista o dell’illusione comunista. In qualche modo, cioè, l’evento finale è l’evento chiave per interpretare tutto quello che è venuto prima, o molto di quello che è avvenuto prima. L’evento finale è quindi un evento conclusivo, un evento che spiega. Questo non è del tutto scontato, è una novità, perché tradizionalmente le interpretazioni dei secoli precedenti erano invece fortemente incentrate sull’evento iniziale. Mi spiego. Quando si parla della storia contemporanea come di un periodo storico che comincia con la Rivoluzione francese, si sottolinea che la Rivoluzione francese è stata un evento inaugurale che ha avviato un’epoca nuova, che conteneva in se stessa grandi elementi di novità, che si sono poi dispiegati successivamente. Ma un po’ tutte le epoche storiche sono da noi concepite a partire da un evento inaugurale: l’età moderna viene convenzionalmente fatta cominciare col 1492 cioè con la scoperta dell’America, o con altri eventi che sono però considerati importanti perché poi dopo hanno prodotto sviluppi successivi. Ecco, quando invece parliamo del Novecento molti si pongono il problema di come è finito. E anche noi, in fondo, oggi ce lo chiediamo. Come finisce questo Novecento? Non solo quando, quindi 1989, 1991, 2000, ma anche come. Ecco quindi l’evento finale come evento che ci spiega o che ci dovrebbe spiegare tutto quello che è successo prima. Questa è una novità che, direi, segna, in fondo, una trasformazione del nostro atteggiamento verso la storia, molto legata alla storia del Novecento. La storia del Novecento ha messo in discussione la nostra idea di progresso, o meglio ha messo in discussione l’idea che si possa parlare in modo facile e semplicistico di progresso. Così ha messo in discussione che ci siano i grandi eventi iniziali che, come dire producono il nuovo, producono il futuro, aprono la strada al futuro, e in fondo, come ha detto qualcuno, il Novecento ha ucciso l’idea di futuro. Ecco, potremmo arrivare a questa conclusione drastica. Non è una idea mia, è un’idea di Luciano Cafagna, che in un volume curato da Marsilio ha parlato del Novecento come di un secolo che ha ucciso il futuro.
Vorrei rapidamente fare ancora due ordini di riflessioni, prima di concludere e di lasciare spazio alle domande. Naturalmente la cronologia del secolo breve non è l’unica possibile, e infatti non è l’unica che è stata proposta fino adesso, ne esistono altre. Anche se queste hanno avuto fortuna minore, vale la pena di accennarvi rapidamente. Una interpretazione allude al Novecento come un secolo spezzato. L’espressione non è molto bella, non ha avuto molta fortuna ma in sostanza vuole dire che per capire il Novecento occorre capire l’importanza periodizzante di un evento centrale della storia di questo secolo, che è la seconda guerra mondiale. In qualche modo in contrapposizione all’idea del secolo breve, che sottolinea l’unità del settantennio fra la prima guerra mondiale e il 1989, e quindi in qualche modo pone in secondo piano la vicenda della seconda guerra mondiale, l’immagine, diciamo così, del secolo spezzato sottolinea che c’è stata una cesura radicale che è stata proprio quella costituita dalla guerra. È una visione che è stata prevalente prima dell’89, prima del ’91. È stata molto diffusa l’idea che la vicenda della guerra avesse cambiato la storia del mondo, avesse visto la sconfitta di forze pericolose per l’uomo e per la democrazia. In particolare il nazismo, il fascismo, e via dicendo. Questa visione invece poneva tutto sommato in una luce più positiva ciò che era avvenuto dopo la seconda guerra mondiale. Insomma, la consapevolezza che la seconda guerra mondiale sia stata una immane tragedia, consapevolezza fondata, visto che tra l’altro è costata almeno cinquanta milioni di morti, di cui ben 6.000.000 per il genocidio degli ebrei, una vicenda assolutamente terribile e drammatica, rispetto alla quale però il mondo aveva come iniziato faticosamente, un percorso tutto sommato più positivo, segnato lentamente dall’affermazione della democrazia e dal progressivo prevalere dei diritti umani, della consapevolezza dei diritti umani, e al tempo stesso della consapevolezza degli eventi tragici che non avrebbero mai più dovuto ripetersi. Come la shoà. Dobbiamo però riconoscere che negli ultimi anni questa visione è una visione appare più difficile, se pensiamo a tutta la cosiddetta revisione del discorso sull’antifascismo, tutta la revisione della resistenza, che erano in fondo capisaldi di una visione che appunto sottolineava il momento della guerra e quindi poi quello che era stato connesso alla guerra: appunto la resistenza, l’opposizione al nazismo, al fascismo, come l’inizio della ripresa dell’umanità, o se vogliamo almeno dei paesi europei, verso un percorso differente più positivo. Ecco, dobbiamo dire che negli ultimi anni, nella concezione comune questa visione tende ad essere meno intensa, meno acuta e per certi versi questo è un errore, e che per certi versi questo è sicuramente pericoloso, e in un certo qual modo occorre invece salvare anche la memoria di determinate tragedie, e anche il valore morale della reazione di quelle tragedie che appunto è un valore da non perdere. Ma ecco, dal punto di vista di una riflessione sulle tendenze alle interpretazioni del Novecento dobbiamo dire che negli ultimi dieci anni è fortemente prevalso quell’atteggiamento, e anche oggi in parte ancora prevale, quell’atteggiamento che un po’ genericamente viene chiamato revisionismo. Non entro adesso nel merito di questa parola che in realtà è anche un po’ ambigua, perché indica fenomeni molto diversi. Nel senso comune della parola, il revisionismo è proprio tutto ciò che in fondo tende a liquidare, ecco una visione che è stata a lungo prevalente e che era legata proprio, in fondo, ad una visione della storia del Novecento fortemente segnata dalla seconda guerra mondiale.
Accenno ancora più brevemente ad altre possibili interpretazioni del Novecento, come secolo non breve, ma al contrario lungo, e cioè un secolo che in realtà noi non dovremmo far cominciare colla prima guerra mondiale, ma che dovremmo al contrario fare iniziare cogli ultimi decenni dell’Ottocento. E anche qui ci sono degli elementi di validità, naturalmente tutte le interpretazioni hanno elementi di verità, contengono elementi di verità, questo credo che emerga abbastanza chiaramente. Il secolo lungo è appunto un secolo che per esempio sottolinea quel grande movimento che ha riguardato i rapporti, come dire, fra tutte le diverse aree del mondo. In parole molto schematiche potremmo dire che il secolo lungo è quel secolo che va dal colonialismo alla globalizzazione, in un certo senso. Cioè questo processo di crescita della interdipendenza tra le varie aree del mondo, che ha riguardato in particolar modo l’Europa. L’Europa non è il centro del mondo. Oggi noi abbiamo superato questa visione “eurocentrica”, di una Europa al centro del mondo. E’ vero però che l’Europa si è collegata, si è confusa, si è coinvolta con le vicende delle altre aree del mondo più di quanto altre aree del mondo abbiano fatto a loro volta. Cioè gli europei sono stati un po’ dappertutto, nel bene e nel male. Il colonialismo non è stato un fatto sicuramente solo positivo, anzi, ha avuto molti aspetti negativi. Ma è vero che comunque si sono creati dei legami che sono in parte sopravvissuti alla fine del colonialismo. Ecco dunque che la vicenda europea è stata una vicenda fortemente legata ad un cambiamento del mondo, ad un suo farsi più piccolo, al suo farsi sempre più interdipendente, anche se sappiamo che questa interdipendenza non è innocente, che ci sono i forti e i deboli, che c’è chi sfrutta e chi è sfruttato, ci sono i ricchi e i poveri. Questo non va dimenticato, ma forse in qualche modo il mondo è diventato molto più connesso, molto più collegato. Quanto meno a livello di comunicazioni; sicuramente a livello di scambi economici, magari meno ad altri livelli. Il secolo lungo quindi come un secolo segnato da una parabola europea che è anche una parabola di declino, naturalmente dal punto di vista dell’egemonia europea nel mondo, che è fortemente diminuita. Ma pur restando questo aspetto che è quello del coinvolgimento europeo con la storia di altri popoli, altri paesi, e altri continenti.
Infine potremmo anche parlare di un secolo lunghissimo, laddove in fondo si potrebbe dire che non esistono cesure così rilevanti fra Ottocento e Novecento. Sono due secoli molto unitari. Le vicende iniziate con la Rivoluzione francese hanno portato allo sviluppo dello stato liberale prima, allo sviluppo della democrazia successivamente, e secondo alcuni, poi in fondo la democrazia non è altro che l’ideologia liberale che arriva ai suoi estremi sviluppi, alle sue più ampie manifestazioni, quindi esistono delle possibilità anche di leggere il secolo lunghissimo, cioè i due secoli insieme non riuscendo a trovare l’inizio dell’uno e la fine dell’altro. Oppure viceversa, ma qui lo dico più che altro come informazione, alcuni studiosi e qui dipende anche della visione in cui ci si pone, vedono invece la vicenda del Novecento fortemente spezzettata addirittura in 4 periodi diversi al loro interno. Si va dal secolo lunghissimo al secolo frammentato. Quali sono questi 4 periodi. Questa è una visione tipica degli storici dell’economia. Tendono a vedere un primo periodo storico del Novecento che grosso modo finisce nel ‘29 con la crisi di Wall Street, un secondo periodo, con tutta la grande depressione che ne seguì, che va dal ’29 alla seconda guerra mondiale; ci sarebbe poi un periodo che comincia con la seconda guerra mondiale e va fino alla metà degli anni ’70, che è stato di grandissimo sviluppo in tutto il mondo. Per l’Italia sono gli anni del miracolo economico. Infine il periodo dal ’73-’75 in poi, che è stato un periodo di continuazione dello sviluppo, ma in termini meno intensi della fase che è stata chiamata della grande trasformazione.
Vorrei proporvi ora alcune riflessioni che nascono un po’ da suggestioni estremamente attuali. Accennavo prima come l’interpretazione del Novecento nasca e si formi intorno ad un tipo di ottica che non è usuale, e cioè l’ottica che tende a privilegiare il momento finale, l’evento conclusivo rispetto a quello iniziale. E questo rende molto problematica l’interpretazione del Novecento, perché siamo continuamente alla rincorsa del momento finale. Quando finisce? è già finito? finirà? Avevo detto, ed è questa evidentemente l’interpretazione prevalente, come ci sia una visione della fine del comunismo in Europa, come il grande evento finale. E ho già detto questa cosa. Però anche quello che continua a succedere e anche quello che sta succedendo in questi giorni sotto i nostri occhi, la guerra in Iugoslavia, per esempio, ci fa riflettere. Non solo ci fa riflettere sul presente, ma ci fa riflettere anche sul passato. Qualche giorno fa il Cardinal Martini ha fatto una intervista sul “Corriere della Sera” in cui ha risposto alle domande di Arrigo Levi, e in qualche modo il Cardinal Martini rifletteva sulla vicenda attuale in termini, diciamo così, piuttosto pensosi, naturalmente visto che è una vicenda così tragica, e anche rifletteva sul Novecento, questo secolo che non si capisce bene dove abbia portato l’umanità. Se ci ha portato a questo non è facile fare un bilancio, soprattutto poi non è facile fare un bilancio positivo. Leggendo i giornali in questi giorni è molto frequente vedere come gli osservatori, i commentatori, tutti coloro che si pongono di fronte alle vicende in corso tendano a fare anche delle riflessioni di carattere storico, sembra un’esigenza molto forte questa, e si capisce. In particolare io ho notato due tipi di paragone storici che vengono fatti fra la vicenda attuale e alcune vicende del secolo, direi due in particolare.
Uno molto frequente è il paragone fra la vicenda attuale e la seconda guerra mondiale, o almeno alcuni aspetti della seconda guerra mondiale. Cominciamo con l’esempio più semplice, che è il paragone per cui si cerca un po’ di identificare colui che è il responsabile di quello che sta succedendo, Milosevic, con Hitler, ricambiato per altro dai serbi che paragonano Clinton a Hitler, e questo è un po’ tipico delle situazioni di guerra. Però, ecco un altro paragone che invece ci fa riflettere di più è il rapporto fra la polizia etnica e l’olocausto, l’olocausto degli ebrei. E’ angoscioso vedere una vicenda drammatica, per fortuna non così drammatica come la shoà, almeno fino adesso, ma insomma molto drammatica che richiama vicende così dolorose del XX secolo. Un’altra osservazione che si fa spesso è che l’intervento nella vicenda dei Balcani era necessario per non fare come si è fatto a Monaco, ecco un paragone che si fa spesso. Quando nel 1938 i leaders europei non ebbero il coraggio di fermare Hitler, e allora anche qui c’è tutto un paragone implicito, sottointeso con i pericoli di allora e i pericoli di oggi. Altri ancora hanno sottolineato che in fondo invece questo ruolo dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti, è stato un ruolo liberante allora ed è anche oggi un ruolo decisivo, un ruolo salvifico. Quindi ho notato questi aspetti, che sono evidentemente indicativi di un paragone, di un bisogno di collegare le vicende ultime di oggi a quelle di questo secolo.
Un altro tipo di paragone è invece quello che vede nelle vicende specifiche dei Balcani come il riemergere di problemi che sono i problemi di inizio secolo. Vale a dire qualche cosa che è molto simile a quella conflittualità etnica che c’era fra fine Ottocento e inizio Novecento nel periodo della crisi e poi del disfacimento complessivo dei tre grandi imperi che influivano sui Balcani, cioè l’impero asburgico, l’impero russo zarista e l’impero ottomano, che arrivava fino alla Bosnia. Ecco, quindi un altro tipo di riferimento che porterebbe a dire: questo secolo ha come congelato una serie di problemi nei Balcani, prima c’è stata una serie di eventi, poi c’è stato il comunismo, la Iugoslavia e via dicendo, e insomma ha congelato tutto questo, e insomma oggi riesplodono questi problemi. In effetti comunque, io credo i problemi che oggi affliggono i Balcani fanno riemergere una grande questione, che in effetti è una grande questione di tutto il Novecento: il problema dei rapporti fra i popoli, fra popoli diversi fra etnie diverse che vivono assieme nello stesso territorio, nello stesso luogo, nello stesso stato, nello stesso ambito e via dicendo.
Perché dobbiamo dire che il Novecento è un secolo, sotto questo profilo, assolutamente contraddittorio, perché è stato un secolo che ha messo in crisi forme di coabitazione fra popoli diversi che sono vissuti per secoli insieme, con problemi, conflitti, ma che insomma sono sopravvissuti, vivendo in relazioni che non comportavano, la esclusione reciproca fino alla distruzione reciproca. La stessa vicenda degli ebrei è significativa. Gli ebrei sono vissuti a volte anche in modo difficile, non voglio nasconderlo, però sono vissuti nel tessuto della società europea per secoli, venti secoli, ma solo nel Novecento c’è stato un processo così radicale che ha cercato di eliminare l’esistenza stessa degli ebrei. La vicenda dei Balcani, per fortuna, non è ancora paragonabile alla shoà, ma certamente oggi nei Balcani si parla di popoli che sono vissuti difficoltosamente anche nei secoli passati gli uni accanto agli altri, ma oggi sembrano impossibilitati, incapaci radicalmente di vivere insieme. Dunque questa è una caratteristica specifica del Novecento, questa crisi della coabitazione tradizionale, che in fondo ha visto affermarsi un principio nuovo per cui ogni nazione deve vivere un po’ da sola in un determinato territorio. Il principio se vogliamo dell’autodeterminazione dei popoli e via dicendo.
Dall’altra, un secolo paradossale, contraddittorio, e adesso concludo veramente, perché invece è anche un secolo che ha provocato delle nuove forme di coabitazione, pensiamo a tutto il fenomeno dell’immigrazione di questi ultimi decenni, in cui anche l’Italia è stata interessata, e quindi di forme nuove di costruzione della società multietnica, multirazziale, multiculturale. Allora di fronte a questa guerra così drammatica di fine secolo verrebbe un po’ da interpretare il Novecento intorno a questo problema. Il Novecento è stato il secolo che ha sancito definitivamente l’impossibilità di convivere fra di loro da parte di popoli diversi, oppure è invece il secolo che ha prodotto in modo assolutamente nuovo delle forme di coabitazione, e dei bisogni di coabitazione dentro l’unica società multi culturale e multi etnica senza precedenti nella storia? Forse a questa domanda non c’è una risposta, o meglio la risposta in un certo qual modo la darà la storia, quindi la dovremmo dare anche noi. Se anche la vicenda in corso è l’ultima drammatica vicenda in cui emerge questa alternativa così radicale, o se invece segna l’inizio di un conflitto che potrebbe diventare drammaticamente ancora più ampio e più esteso e più radicale.
NOTA: testo non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 14.4.1999 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.