Intervista a Matteo Perrini di Antonio Sabatucci
Quali sono le ragioni della riproposta delle Confessioni di Agostino?
Quando nel 1977 l’Editrice La Scuola di Brescia pubblicò l’edizione da me curata delle Confessioni di Agostino, il successo fu immediato. Le ragioni di un’accoglienza così cordiale furono bene individuate nelle recensioni di illustri studiosi della patristica, quali Antonio Quacquarelli e Nicola Petruzzellis, ma anche da docenti, come Mauro Laeng e Marco Ivaldo, particolarmente attenti alla ricezione del capolavoro agostiniano da parte dei giovani. «Matteo Perrini – scrisse Mauro Laeng – vive col suo autore da parecchi decenni; perciò la sua guida alla lettura di Agostino è qualcosa di più di un commento. Le pagine introduttive sono un gioiello di penetrazione della vita e delle opere del grande africano e un piccolo capolavoro di sintesi, ove non si sa se apprezzare di più la vasta conoscenza di tutte le opere del santo di Tagaste oppure la levità e la fluidità con la quale le citazioni sono incorporate senza fatica al testo quasi come suo naturale svolgimento». Marco Ivaldo aggiungeva acutamente: «Il lavoro di Perrini va oltre la finalizzazione didattica per diventare un’interessante proposta di Agostino al contesto culturale del nostro tempo».
Perché allora approntare una nuova edizione, la dodicesima, apparsa nei mesi scorsi? Per una sola ragione: occorreva liberare la traduzione italiana da espressioni dotte ma desuete, da persistenti latinismi e rendere più chiari alcuni passaggi. Insomma, restituire alla traduzione italiana lo stile che è proprio delle Confessioni era una sfida e un compito a cui non intendevo sottrarmi, volendo rendere quel libro universale godibile per tutti.
Le Confessioni sono considerate l’autobiografia intellettuale di Agostino. Nei tredici libri che la compongono egli ripercorre la sua vita, dalle prime esperienze infantili alla maturità. Perché Agostino, a quarantatré anni, sente il bisogno di confessarsi in pubblico?
Il nome dell’opera, Confessioni, deriva da confiteri, cioè dire solennemente. Che cosa vuol dire solennemente il suo autore? Ciò che egli può testimoniare della sua vita, ma che non appartiene a lui solo. Infatti Agostino, attraverso la sua esperienza e la sua riflessione, chiarisce a se stesso e a noi il senso della comune condizione umana. La figura dell’esistenza umana non può essere, secondo Agostino, il cerchio che si chiude in se stesso: l’espressione fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te attesta l’inquietudine metafisica dell’uomo, svelandone la straordinaria profondità
La risposta diretta alla domanda sul perché delle Confessioni Agostino la dà comunque nel terzo paragrafo del libro X: «Mi confesso a te, Signore, per farmi udire dagli uomini. Non posso fornire loro prove della veridicità della mia confessione; ma quelli che per amore ascoltano la mia voce, sentiranno il respiro allargarsi nel bene e avranno pietà di me. Ma tu, mio medico interiore, fammi vedere chiaramente i frutti di questa mia opera. Le confessioni dei miei errori passati, da te rimessi, spronano il cuore del lettore e dell’ascoltatore a non assopirsi nella disperazione, a non dire: "Non posso", e a vegliare, invece, nell’amore della tua misericordia, nella dolcezza della tua grazia…».
Nel libro c’è una forte critica dei sistemi scolastici del tempo, e non solo perché si lamenta delle punizioni corporali subite da parte dei suoi insegnanti. Egli scrive che «per imparare vale più la libera curiosità che la pedante costrizione». Questo precetto non è forse valido in ogni tempo?
Per Agostino le vie dell’apprendimento a scuola sono assai «penose» e moltiplicano inutilmente la fatica e la sofferenza dei figli degli uomini, senza che neppure i genitori se ne rendano conto. Egli denuncia le barbare usanze disciplinari che imperversavano nelle scuole del suo tempo e rivendica energicamente l’esigenza di una riforma dell’insegnamento. Un insegnamento, infatti, è formativo se fa leva non sulla paura, ma sull’interesse di colui che apprende, sulla sua libera curiositas. In altre opere l’africano esalta il valore della letizia (hilaritas) nel rapporto educativo e come clima che rende efficace l’azione didattica. Sul finire delle Confessioni, Agostino annota stupendamente: «Nutre veramente l’anima solo ciò che la rallegra (animus pascitur unde laetatur, XIII, 27)».
La sua conversione definitiva al cristianesimo si compie a Milano, negli anni in cui agiva il magistero di Ambrogio. E fu proprio il vescovo di Milano a impartirgli il battesimo. In che misura Ambrogio influenzerà Agostino e quale fu il rapporto tra quei due grandi?
Nelle Confessioni Milano è tutt’uno con Ambrogio: Veni Mediolanum ad Ambrosium episcopum (V, 13). L’africano giunge a Milano nell’autunno del 384, a trent’anni, come vincitore della cattedra di retorica; ma il riconoscimento gli veniva da Simmaco, capo del partito filopagano, al quale non parve vero inviare nella capitale dell’impero un eretico anticlericale capace di tener testa ad Ambrogio, suo lontano cugino. Quando arriva a Milano, Agostino è, infatti, ancora legato ai manichei, anche se intellettualmente deluso dalla insostenibilità, divenuta sempre più evidente, delle loro dottrine. Il primo incontro tra i due fu per una visita di cortesia. Ambrogio gli diede il benvenuto «da perfetto vescovo» (satis episcopaliter) e Agostino prese subito ad amarlo «non come maestro di verità, ma come persona che gli mostrava benevolenza» (Conf. V, 13). Il vescovo predicava spesso e il professore di retorica andava ad ascoltarlo ogni domenica per giudicare «se la sua arte oratoria fosse quale si diceva». Ma mentre l’attenzione è rivolta alle parole, entrano nell’anima sua a poco a poco verità, chiarificazioni essenziali, aspirazioni nuove e più alte. L’efficacia di Ambrogio su Agostino si rivelerà sempre più profonda e decisiva: nei libri centrali delle Confessioni il protagonista è Ambrogio che, parlando al popolo, istruisce e illumina Agostino, aprendogli orizzonti fino ad allora sconosciuti. Ambrogio ridà ad Agostino il gusto della ricerca, facendolo passare, a poco a poco, dalla «disperazione di trovare la verità» (Conf. VI, 1) alla ricerca del come e dove trovarla. I risultati non tardarono ad arrivare: Agostino abbandona definitivamente il manicheismo, rifiuta ogni antropomorfismo nella concezione di Dio, ritorna con animo mutato a leggere la Bibbia, sceglie il cattolicesimo come ipotesi religiosa da esplorare e decide di rimanere frattanto nella Chiesa cattolica come catecumeno finché fosse balenata una luce verso la quale poter dirigere i suoi passi.
Il segno più duraturo dell’influenza di Ambrogio su Agostino rimane, però, l’adesione convinta dell’africano al metodo praticato dal vescovo di Milano nell’interpretazione della Scrittura: Ambrogio dette ad Agostino la chiave per comprendere la Scrittura ponendo al centro della sua esegesi le parole di Paolo: «La lettera uccide, ma lo spirito vivifica» (2 cor 3, 6). Tuttavia il modo di rappresentarsi reciproco dei due fu sempre indiretto e, per così dire, a distanza. «Non mi era possibile interrogarlo – scrive Agostino – su ciò che volevo e come volevo: una turba di gente indaffarata si frapponeva tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca» (Conf. VI, 3). La discrezione di Agostino nei confronti di Ambrogio è fuori discussione e ciò nonostante si ha l’impressione che in realtà i due spiriti fossero molto diversi e che la via imboccata – la predicazione di Ambrogio per tutti i fedeli – fosse la forma più opportuna di comunicazione tra loro. In un passo delle Confessioni (ibid.) Agostino si chiede «quali lotte Ambrogio sostenesse contro le tentazioni che gli venivano dalla sua stessa grandezza» (adversus ipsius excellentiae temtamenta). Questa è una di quelle frasi, acutissime e anticonvenzionali, con cui l’africano sospinge i lettori di ogni tempo a interrogarsi su se stessi, ma anche sulle vicende della storia e dei loro protagonisti: per ogni uomo autenticamente grande, la più forte tentazione non viene forse dalla consapevolezza che egli ha della missione da compiere e della sua stessa personalità? A me pare che sia lo stesso interrogativo a dominare il dramma di T. S. Eliot, Assassinio nella cattedrale. I tentatori vogliono che l’arcivescovo di Canterbury «si perda nello stupore della sua stessa grandezza» e Thomas Becket risponde alle loro sottili analisi e insinuazioni con le celebri parole: «Chi siete voi che mi tentate con i miei stessi desideri?».
Agostino aveva bisogno di apporti sollecitatori anche in campo filosofico e questi gli vennero soprattutto da Simpliciano, che era stato la guida spirituale di Ambrogio nel periodo che precedette l’esercizio del servizio episcopale. Per approfondire le ragioni della fede a cui andava progressivamente aprendosi, Agostino doveva superare per sempre gli scogli del materialismo e del dualismo. I colloqui amichevoli con Simpliciano contarono molto per lui: l’umile, dottissimo prete anziano, era, senza apparire, al centro del movimento intellettuale milanese che tendeva a incorporare alla visone cristiana della vita ciò che di meglio si trovava in Plotino e nei platonici, senza per questo platonizzare il cristianesimo. Alla morte di Ambrogio nel 397, Simpliciano gli succedette nella cattedra episcopale. Due anni prima Agostino era stato nominato vescovo di Ippona. Commuove vedere il venerando maestro di Ambrogio e di Agostino scrivere all’africano per chiedere a sua volta lumi su ottantatré diverse questioni.
Nella biografia agostiniana un ruolo importante lo svolge la madre, Monica, mentre la figura del padre appare defilata…
Il padre di Agostino, Patrizio, un piccolo proprietario terriero, viene descritto dal figlio come un uomo impulsivo e sensuale, ma generoso e affezionato. La sua figura è nettamente superata dalla figura di Monica. Patrizio, che era pagano, fu vinto dalla «eloquenza dei costumi» della moglie e si iscrisse tra i catecumeni della Chiesa cattolica un anno prima di morire. Sull’adolescenza di Agostino grava l’effettiva povertà di mezzi dei suoi genitori, i quali, però, con «ostinata risolutezza» volevano assicurare al figlio l’educazione classica. Essi facevano di tutto per risparmiare ed erano costretti anche a vestire miseramente per mantenerlo agli studi medi nella vicina Madaura (Sermo 356, 3). Agostino, però, non poté recarsi a Cartagine per proseguire gli studi superiori, non avendo i suoi il denaro occorrente, e così fu costretto a trascorrere un anno di ozio a Tagaste. In quel sedicesimo anno della sua vita per Agostino scoppiò, tardiva e violenta, la crisi della pubertà e la sua condotta travolse «tutti i limiti della legge di Dio» (Conf. II, 2). La madre, sgomenta, lo supplicava di «astenersi specialmente dall’adulterio con l’altrui donna», ma le sue incalzanti sollecitudini non trovavano ascolto. L’anno successivo la generosità di un signore di Tagaste e i sudati risparmi dei suoi genitori permisero ad Agostino di frequentare la scuola di retorica a Cartagine; lì lo studio intenso e l’amore per una giovinetta di umili condizioni, che gli diede un figlio, Adeodato, lo liberarono presto da dissipazioni e amorazzi. A quella donna, che resta innominata nelle Confessioni, Agostino serbò assoluta fedeltà per quindici anni e ciò attesta la nobiltà del suo animo. Nel frattempo l’adesione al manicheismo, anche se non piena, allontanò Agostino dalla ricerca della fede per nove anni, dal diciannovesimo al ventottesimo, ingenerando un’angoscia indicibile nell’animo di Monica.
Nel 383 Agostino, stanco di essere boicottato da gruppi di studenti turbolenti (eversores) e ormai disilluso dei manichei, desideroso di operare in un ambiente culturalmente meno ristretto e più ricco di opportunità, fugge dall’Africa per raggiungere Roma. Ma fugge altresì da sua madre e per mettere a segno la sua decisione non esita a mentirle: «Mi seguì fino al mare; quando mi strinse violentemente, nella speranza di dissuadermi dal viaggio o di proseguire con me, la ingannai, fingendo di non voler lasciare solo un amico, che attendeva il sorgere del vento per salpare. mentii a mia madre, a quella madre… Essa si rifiutò di tornare a casa senza di me, e faticai a persuaderla di passare la notte all’interno di una chiesuola che sorgeva vicinissima alla nostra nave. Quella notte stessa io partivo clandestinamente, mentre lei rimaneva a pregare e a piangere» (Conf. V, 8). Agostino, ormai ventinovenne, malgrado l’affetto e la stima per sua madre, fa dunque di tutto per partire senza di lei, forse proprio a causa delle sue eccessive premure.
Monica in seguito raggiunse Milano e tentò di gettare un ponte tra il figlio, non più manicheo ma non ancora cristiano, e il grande Ambrogio. Il momento più difficile dei rapporto tra Monica e Agostino fu quello in cui il progetto di nozze regolari per il titolare della cattedra di retorica sembrò andare in porto. «Chi lavorava maggiormente in questo senso era mia madre», scrive Agostino (Conf. VI, 13). Non si deve sottovalutare il peso del costume sociale, né le barriere che impedivano agli honestiores di unirsi in matrimonio con persone di basso ceto. È certo però che il progetto di matrimonio esigeva una vittima: quella donna che Agostino amava e che gli aveva dato un figlio amatissimo. La separazione lacerò il cuore di Agostino e la madre di Adeodato uscì di scena: «Lei partì per l’Africa, facendo voto di non conoscere nessun altro uomo e lasciando con me nostro figlio» (ibid., VI, 14). Verosimilmente la madre di Adeodato viveva in Africa quando Agostino era vescovo di Ippona e le su Confessioni erano lette avidamente. Nella complessa economia della vita di Agostino quell’umile donna giocò un ruolo ben più grande di quello di cui fu privata: il suo sacrificio accelerò la crisi decisiva, per cui Agostino, nel momento stesso della conversione, abbandonò ogni progetto di matrimonio e di carriera.
Agostino e Adeodato nella notte di Pasqua del 387, tra il 24 e il 25 aprile, ricevettero il battesimo dalle mani di Ambrogio. Pochi mesi dopo Agostino decide di tornare con i suoi in Africa. L’ultima tappa di quel viaggio, durante il ritorno, fu Ostia. Nella seconda parte del libro IX delle Confessioni Agostino traccia con tratti delicati e precisi la biografia di sua madre; quella biografia culmina nella narrazione di due eventi: il primo è l’«ascensione a due», fianco a fianco, di Agostino e di sua madre, in un dialogo che diviene contemplazione di Dio; e, quindici giorni dopo, la morte di Monica. Quelle pagine, che sono tra le più belle della letteratura cristiana mondiale, vanno lette e meditate in silenzio, senza alcuna interferenza. Qui mi limito solo a riportare le parole che Monica, sentendosi ormai prossima alla fine, rivolge ad Agostino: «Mi confortava quello che mi aveva detto proprio durante la sua ultima malattia: quando, ripagando con una carezza i suoi servizi, mi chiamava buono e mi ripeteva con grande effusione d’affetto di non aver mai udito uscire dalla mia bocca una frecciata dura o una parola offensiva al suo indirizzo» (Conf. IX, 12).
Ad Agostino, chiamato al sacerdozio dai fedeli di Ippona, con un procedimento tumultuoso, e nominato vescovo della stessa città pochi anni dopo, toccò fronteggiare le eresie del pessimismo (manicheismo), dell’intransigenza puritana che porta allo scisma (donatismo) e dell’autosufficienza umana che vanifica la grazia divina (pelagianesimo). Quali furono gli esiti della lunga, difficile battaglia?
Agostino non racconta come fu forzato dal popolo ad abbandonare il suo progetto di «vivere dolcemente in compagnia dell’intelletto» (Lettera X, 1), dedicandosi con amici e discepoli interamente alla riflessione filosofica e religiosa. Agostino dice solamente: «Avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu, Signore, me lo impedisti» (Conf. X, 43, 70). Chiamato dal popolo al sacerdozio senza che lui lo volesse, Agostino ne fu sorpreso e contrariato, pianse ma accettò. Romano Guardini definisce quella rinuncia di Agostino la sua «seconda conversione». Ma quel sacrificio fu di una fecondità mirabile: il suo genio speculativo e la contemplazione amante della verità furono trasfigurati proprio dall’accettazione di un servizio generoso. I libri vennero lo stesso, e furono tanti, ma scritti nelle ore sottratte al sonno, dopo giornate di duro servizio e di totale dedizione.
Il vescovo di Ippona venne ben presto a trovarsi al centro del dibattito religioso dell’epoca e fu lui il vero leader della Chiesa cattolica nella lotta contro eresie tra le più virulente apparse nella storia. In quella lotta si possono distinguere tre fasi: dal 394 al 400 contro il manicheismo; dal 400 al 411 contro il donatismo; dal 411 al 430 contro il pelagianesimo. Agostino fu il filosofo dell’essere, della non-sostanzialità del male, della creazione, della libertà dell’uomo nella polemica che lo contrappose al manicheismo, una dottrina a cui aveva aderito, sia pure parzialmente, per vari anni.
Il donatismo costituiva il più grande problema per la Chiesa africana da almeno un secolo. Esso era nato in seguito a un’elezione discorde, ma traeva la sua forza, oltre che dal numero di adesioni, da un atteggiamento di fiera opposizione fra «la Chiesa dei santi e dei martiri», la loro, e la Chiesa cattolica, che aveva perdonato e riammesso nella comunità coloro che durante la persecuzione non erano stati pronti al sacrificio della vita. Il vescovo di Ippona conosceva bene i gravi pericoli derivanti dallo scisma donatista, ma egli ebbe la forza di creare ex novo nel corso del dibattito le linee di una teologia ecumenica, fondata su una serena convinzione: la Chiesa cattolica non può non ammettere che, al di là delle sue frontiere, anche tra i cristiani scismatici ci siano grandi beni cristiani. Il patrimonio comune di dottrine, di regole morali e di spiritualità ci autorizza a non concepire come totale e definitiva la separazione sopraggiunta sull’una o sull’altra questione. Su questa base egli impostò il dibattito con i donatisti senza farsi condizionare dal fatto che le loro frange estreme si erano organizzate in veri e propri gruppi di terroristi che uccidevano, accecavano, mutilavano orrendamente i loro avversari. Anche in presenza di delitti così nefandi, Agostino diede alle autorità imperiali di non far mai ricorso alla tortura come strumento d’indagine giudiziaria e di non condannare nessuno alla pena di morte perché va sempre salvaguardata l’integrità fisica dei condannati, ai quali deve essere data la possibilità di redimersi mediante il lavoro. Egli sapeva che queste sue posizioni non avevano il consenso degli altri cattolici, ma confidava che «una volta passata l’eccitazione degli animi», l’umanità del Vangelo finisse col prevalere. Le Lettere 132, 134, 139 sono lì ad attestare che queste furono le scelte di Agostino.
Più insidiosa di tutte fu la controversia con Pelagio, il quale poneva talmente l’accento sullo sforzo che l’uomo deve compiere per la propria salvezza, da rendere superflua la grazia redentrice di Dio: «Dio mi ha creato – affermava il monaco venuto dalla Britannia – io mi faccio giusto». Di fronte al naturalismo di Pelagio Agostino apparve sempre più come «il dottore della grazia» e «il rifondatore dell’antica fede», secondo l’ardita espressione usata da san Gerolamo nella Lettera 195, che è inclusa nell’epistolario agostiniano. Tuttavia, a mio avviso, non è nelle opere polemiche che si deve cercare il vero pensiero di Agostino, bensì nelle grandi opere costruttive, scritte per lo più in un lungo arco di anni come le Confessioni (397-401), il De Trinitate Dei (399-419) e il De civitate Dei (413-427).
Ad Agostino si deve la teorizzazione delle «due città»: la città di Dio e la città dei figli della terra. Possono esse configurarsi come la metafora di due corpose realtà, la Chiesa e lo Stato, in perenne conflitto fra loro?
Agostino esplora nel De Civitate Dei la storia e si chiede quale sia il senso profondo del cammino umano. Per lui l’agire umano rinvia sempre a un duplice atteggiamento spirituale, che si ritrova in ogni tempo e nei luoghi più diversi e che dà origine appunto alla «città di Dio» e alla «città dei figli della terra». La prima è formata dalla comunità invisibile di tutti coloro che, di là da ogni confine di spazio e di tempo, cercano il bene e lottano per attuarlo nella situazione storica in cui sono chiamati a vivere. L’altra è la civitas terrena, cioè la società i cui membri, legati come sono dall’amore esclusivo o preponderante delle cose della terra, considerano questo mondo il loro unico fine, la loro unica dimora. L’esperienza ci attesta, però, che «le due città in questo mondo sono intricate tra loro e confuse» (perplexae quippe sunt istae duae civitates invicemque permixtae), precisa Agostino sin dall’inizio del De Civitate Dei (I, 35) e questa semplice osservazione rende impossibile il fanatismo di chi vuol far credere che tutto il bene sia da una sola parte, la loro ovviamente, e dall’altra tutto il male. Agostino aggiunge che il limite che separa le due città passa attraverso l’intimo dei nostri cuori, giacché il sembiante interiore di ognuno, la sua vera bellezza o bruttezza, è per noi indiscernibile.
Bisogna infine sfatare un altro luogo comune, quello secondo il quale lo Stato in quanto tale sarebbe la civitas terrena e la Chiesa visibile la civitas Dei. Concezioni del genere non sono di sant’Agostino. Esse autorizzano soltanto un radicale pessimismo sul terreno politico e un grossolano trionfalismo in campo religioso. Solo un processo di paurosa perversione può spingere lo Stato a identificarsi con la «città perversa». Analogamente, la Chiesa visibile è sulla terra la prefigurazione meno inadeguata della città di Dio, ma non coincide puntualmente con essa. Tra i nemici della Chiesa ci possono essere eletti che si ignorano e tra i fedeli non mancano coloro la cui vita è un tradimento della fede, un oltraggio a Dio e ai fratelli. Chi la pensava così non era certamente un integralista.
In che senso si può e si deve parlare di «attualità» del grande africano?
Nelle pagine conclusive della sua monumentale Storia di Roma Theodor Mommsen scriveva: «Agostino è il più moderno degli antichi, perché ha risentito di meno delle limitazioni proprie della sua epoca». Certo non in tutto si può e si deve essere con Agostino, perché anche il genio è un faro e non un termine, non blocca il cammino dell’umanità ma lo illumina; ma chi potrebbe fare a meno dell’apporto filosofico, teologico, psicologico, mistico del grande africano? Lo Harnack, a sua volta, aveva felicemente osservato: «Nelle pagine di Agostino ciò che si offre a noi, nel suo stile inimitabile, è lui stesso, è una persona vivente; e tuttavia il lettore capisce che l’umanità di Agostino è di gran lunga superiore ai suoi stessi scritti». Anche sulle vette più pure della speculazione – si pensi alle indagini sul problema del male, sulla memoria e sul tempo, all’arditezza critica e all’inventiva di tante pagine delle Confessioni, del De Trinitate o del De Civitate Dei – il lettore attento riconosce in Agostino il genio che abita nel cuore dell’umano.
Studium, 1 – 2006. Il testo è stato pubblicato con il titolo: "AGOSTINO, IL GENIO CHE ABITA NEL CUORE DELL’UMANO"