Buonasera a tutti,
e grazie di essere presenti.
Colpisce che in Italia il film Hannah Arendt, che ha riscosso successo dagli Stati Uniti al Giappone, non abbia trovato un’adeguata distribuzione. E in particolare a Brescia dove, senza gli sforzi della CCDC e del cinema Nuovo Eden, non sarebbe giunto nelle sale. Ma per fortuna, un film considerato non commerciale, che aiuta a pensare, stasera e domani sera ha fatto il “tutto esaurito”, a dimostrazione che conviene ancora scommettere sulla cultura.
L’esistenza di Hannah Arendt fu caratterizzata da eccezionali congiunture storico-politiche e filosofiche, come per molti ebrei-tedeschi nati agli inizi del ‘900 da una famiglia di ebrei assimilati. La sua giovinezza fu segnata dall’incontro con grandi maestri;studiò filosofia a Marburg con Heidegger, personaggio presente nel film come in tutta la sua vita, col quale ebbe anche una relazione sentimentale, a Friburgo seguì le lezioni di Husserl ed infine si laureò ad Heidelberg con Karl Jaspers, destinato a rimanere il suo più grande maestro.
Nel 1933 ospitò nel suo appartamento alcuni oppositori politici in fuga da Hitler, motivo per cui fu arrestata. Una volta rilasciata decise, benché senza documenti, di lasciare la Germania con la madre: dopo una fuga avventurosa arrivò a Parigi, dove si risposò con Heinrich Blücher, cui resterà legata fino alla morte. Il loro fu un matrimonio felice, ben espresso dal film, frutto anche di un’unione intellettuale: Blücher, a detta sua, le insegnò “a pensare politicamente e a vedere con senso storico” e fu l’ispiratore, se non il co-autore, di molti suoi lavori.
Nel ‘40 Hannah Arendt venne trasferita nel campo d’internamento di Gurs, nel sud della Francia, da cui riuscì a fuggire approfittando di alcuni giorni di caos e percorrendo circa 300 chilometri a piedi e in autostop. La maggior parte delle donne che non avevano lasciato Gurs, nel ‘42-‘43 furono trasferite nei campi di sterminio. Ricongiuntasi con Blücher, i due riuscirono a ottenere il visto e a raggiungere New York nel 1942: vivranno tutta la vita negli Stati Uniti. Ciononostante Hannah Arendt si definì sempre come un’apolide senza patria, formata dalle culture ebraica, tedesca e nord-americana senza riconoscersi in alcuna di esse. In un’icastica lettera a Gershom Scholem, citata anche nel film, dirà: “Io non amo nessun popolo. Io amo solo i miei amici”. La rilevanza dei rapporti sociali, non solo per la vita, ma anche per lo sviluppo del pensiero di Hannah Arendt, è splendidamente resa dal film, in particolare per quanto concerne due relazioni: quella con la scrittrice americana e grande amica Mary McCarthy e quella con Hans Jonas, uno dei più grandi filosofi del ‘900, fraterno amico dai tempi di Marburg.
Nel 1943 la diffusione di dati e notizie sulla soluzione finale in corso in Europa ebbe, sulla coppia Arendt-Blücher, l’effetto di una detonazione. Ritennero che fosse giunto il momento di fare qualcosa e così, per 4 anni, lavorarono fianco a fianco al libro Le origini del totalitarismo, nel tentativo di individuare gli elementi principali del nazismo, risalirne alle origini e scovarne i problemi politici. Il libro conobbe un immediato successo, sia per l’invenzione del neologismo “totalitarismo”, che per il concetto di“male radicale” emerso dalla Shoah: un male impunibile, imperdonabile e senza ragione.
Quando, nel 1960 il geraraca nazista Adolf Eichmann venne arrestato in Argentina dai servizi segreti israeliani – e questa è la scena con cui inizia il film -, Hannah Arendt decise di recarsi a Gerusalemme ad assistere al processo per assolvere un obbligo verso il suo passato. L’eccellente interpretazione dell’attrice Barbara Sukova, curata fin nell’accento tedesco della Arendt, rende alla perfezione l’iniziale stupore che la filosofa provò nell’accorgersi che Eichmann non era affatto un personaggio demoniaco ma, scriverà, “un piccolo uomo banale in una gabbia e con il raffreddore”. Il film racconta bene la sofferenza con cui la Arendt passò dall’idea del male radicale a quella del male banale, ancora estremo, imperdonabile e ingiudicabile, ma ora comprensibile con la mediocrità dei suoi artefici, con la loro incapacità di pensare, un male senza radici perché superficiale. La pubblicazione del libro fu seguita da furenti polemiche, che il film rende con esattezza. L’indignazione dell’amico Hans Jonas sarà risanata solo dopo due anni di silenzio, mentre non sarà più ricomposta l’amicizia con Kurt Blumenfeld, leader del sionismo ebraico, fraterno amico della filosofa da oltre trent’anni, che non le perdonò il libro su Eichmann e le critiche mosse ai Consigli Ebraici.
Il film termina nel 1964, con un toccante discorso in cui la Arendt introduce le tematiche che affronterà fino alla sua morte, avvenuta 11 anni dopo. Unico antidoto al male banale, quello di cui tutti siamo capaci, era per lei la facoltà di giudicare, non basandosi sui propri principi etici o religiosi, che cambiano come I costumi sociali, ma affidandosi alla capacità di pensare, di ricordare, di dialogare con se stessi fino a giungere a “distinguere il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto”.
Anche negli anni della Seconda guerra mondiale, ci furono delle persone in grado di pensare con la loro testa, tra cui, scrisse la Arendt proprio ne La banalità del male, i giovani della Rosa Bianca. Approfitto dunque dell’occasione per ricordarvi che, dall’8 al 12 aprile, la CCDC ha organizzato – in collaborazione con il CTB – un ciclo di incontri e uno spettacolo teatrale su Sophie Scholl e i suoi amici, nel settantesimo anno dalla loro morte.
Buona visione.
NOTA: introduzione alla proiezione del fim “Hannah Arendt” avvenuta il 19.3.2014 su proposta della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.