La riflessione sul Gesù storico ha visto negli ultimi tempi l’esportazione del dibattito a livelli assai più ampi del ristretto ambito accademico, comportando la presa di coscienza che ci si trovi di fronte a posizioni spesso distanti e per certi versi non ricomponibili. Nello stesso tempo ci si può legittimamente chiedere se il problema sia impostato in modo confacente all’oggetto, allorché si distingue tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Già la congiunzione tra le due affermazioni (“e”), la quale suppone una certa qual distinzione, è esposta a interpretazioni plurime. Senza entrare in merito a una rivisitazione storica della ricerca, sulla quale peraltro risultano illuminanti recenti prese di posizione di Mauro Pesce, possiamo individuare almeno tre modi di comprendere il rapporto tra le due affermazioni. Vi è chi ha visto nella congiunzione un’esile passerella collocata sopra un ampio fossato (così Lessing), chi vede in essa l’espressione della continuità teologica, infine chi vi legge un “e” esplicativo, a sottolineare che la fede – solo la fede – rivela chi è Gesù (cf. J. Ratzinger).
Dopo la pretesa della ricerca liberale ottocentesca di ritrovare il Gesù della storia e il suo dichiarato fallimento nel bilancio condotto da A. Schweitzer (1913), anche la Formgeschichte non è riuscita a fornire un paradigma credibile, lasciando campo libero alla cosiddetta III ricerca basata su una più sofisticata critica delle fonti e sull’accoglienza dei dati della sociologia storica. Va chiarito che la cosiddetta III ricerca rappresenta più una nebulosa che un movimento unificato, sebbene per tutti sia fondamentale la constatazione dell’ebraicità di Gesù, la quale non rappresenta però una novità, poiché già Reimarus ne aveva parlato; la novità consiste piuttosto nel fatto che da essa si traggono conseguenze effettive. Per la III ricerca il quadro per capire Gesù di Nazaret è il giudaismo del I secolo E.V.; inoltre Gesù, pur essendo all’origine del cristianesimo, non ne fa parte (cf. l’opera di J.P. Meier).
Resta tuttavia decisivo un altro fronte della ricerca, al quale tuttavia studiosi di vaglia come Meier e Dunn forniscono una risposta sotto molti punti di vista affrettata, come certamente illustrerà il prof. Norelli. Si tratta della considerazione dei cosiddetti apocrifi quali fonti per la ricostruzione della figura storica di Gesù. Qui entra ovviamente in campo il problema dell’uso delle fonti e della valutazione della loro pertinenza; ma entra soprattutto in gioco un punto di vista che, a livello storico, rischia di precludere un serio dibattito: in effetti, la distinzione tra canonico e non canonico per i primi quattro secoli della storia cristiana si dimostra anacronistica e ciò impone di non escludere a priori – cioè a partire da presupposti teologici -prodotti letterari che sotto molti punti di vista si avvicinano ai testi canonici e che illuminano circa ambiti e modalità della recezione della figura di Gesù che possono rivelarsi fruttosi per una ricostruzione storica delle azioni e delle parole di Gesù di Nazareth (si veda il libro di Bart D. Ehrman, I cristianesimi perduti, Carocci, Roma 2005).
Infine, come sottolinea D. Marguerat, «si impone oggi la constatazione che il frutto delle ricerche storiche consiste, al massimo, nella presentazione di un Gesù possibile. L’ambizione di riesumare un Gesù reale deve essere lasciata alla letteratura divulgativa. I lavori di Crossan, per esempio, hanno mostrato che la selezione operata tra le fonti documentarie e la valutazione (arbitraria) della loro affidabilità permettono di ricostruire il Gesù che si vuole. Di conseguenza, la dualità Gesù storico/Cristo della fede non è più un’equazione semplice. Esiste una molteplicità irriducibile di Gesù storici, così come vi è una molteplicità di Cristo della fede (quello di Mt, di Mc, di Lc, di Gv e di Paolo)».
Nella storiografia, infatti, non si danno bruta facta, bensì solamente fatti interpretati ed espressi (articolati) in un intreccio storiografico. La pretesa positivistica di separare il fatto dalla sua interpretazione deve essere oggi dichiarata obsoleta, per lasciare posto a un’ermeneutica della rappresentazione narrativa della storia che aiuti a comprendere la diversità delle storiografie che ci sono proposte, evitando di contrapporre una storia che sarebbe vera a una storia che sarebbe tendenziosa. Ciò porta a comprendere che la contemporanea rappresentazione narrativa della storia e quella dei credenti dei vangeli dipendono da ricostruzioni contestuali della figura di Gesù; ogni ricostruzione scaturisce da un ambiente intellettuale contrassegnato da specifici bisogni e presupposti ideologici. Sia le ricostruzioni moderne che quelle dei primi credenti sono destinate a un pubblico specifico e, nel caso del Gesù storico, a una intelligentsia, nel caso del Cristo della fede all’istituzione ecclesiale. Ciascuna ricostruzione va valutata in funzione del punto di vista che la governa e dei bisogni culturali a cui risponde. Sia il Gesù degli studiosi sia quello dei credenti sono rappresentazioni narrative che rispondono ai quesiti di un pubblico specifico.
Sembra dunque legittimo respingere l’antagonismo tra Gesù della storia e Cristo della fede, per sottolineare invece una tensione dialettica tra i due (così ALETTI 2009). In effetti, senza il controllo della biografia storica, l’approccio teologico opera su un prodotto dogmatico privato dell’ancoraggio nella storia della Palestina del I sec. E.V.; nello stesso tempo, senza la provocazione della biografia teologica, la biografia storica non coglie il suo oggetto perché dimentica che l’agire di Gesù non ha che una finalità: dire Dio. E la ricerca del Gesù della storia rappresenta l’antidoto più forte alla comprensione mitica o gnostica di Gesù Cristo.
Ma quale contributo possono offrire le diverse ricostruzioni storiche contemporanee, dato che, secondo il Papa, ci troviamo di fronte a un “cimitero di ipotesi”? In realtà, se si applicasse la stessa regola per la teologia – cioè che le ipotesi screditano ipso facto la teologia – si dovrebbe chiedere ai teologi di abbandonare ogni riflessione. Avanzare ipotesi deriva dall’essenza stessa di ogni attività scientifica. La scienza progredisce a tentoni; solo gli ispirati si autoproclamano detentori della verità eterna. Le fonti documentarie non dettano la ricostruzione del passato, al massimo vi pongono dei limiti, cioè indicano ciò che non è adeguato dire in una ricostruzione del passato; ed è questo controllo che consente di distinguere tra storiografia e romanzo.
Proprio la pluralità degli esiti della ricerca storica su Gesù mostra come egli sia irriducibile alle categorie elaborate dagli storici (p. es.: E.P. Sanders, secondo il quale Gesù «era un profeta carismatico e autonomo; R.H. Horsley: un rivoluzionario non-violento; J.D. Crossan: contadino ebreo cinico), rifiutando di essere ingabbiato in modelli predefiniti. Forse il miglior servizio che la recente storia rende alla fede è di evitarle la deriva del dogmatismo, o peggio ancora, dell’ideologia. Alla luce di questo, mi permetto di concludere citando affermazioni del relatore che ho l’onore di introdurre: «forse è proprio questo il momento di assumere responsabilmente una ricerca, che […], pur consapevole del carattere sempre situato e provvisorio di questioni , metodi, procedimenti e risultati del lavoro che la comunità internazionale riconosce come scientifico, proceda sulla via dell’applicazione libera e illimitata alle fonti su Gesù e sui primi credenti in lui della ricerca storica allo stesso modo in cui consideriamo legittimo applicarla alle altre religioni e a ogni realtà del passato umano» (E. Norelli, «Considerazioni di metodo sull’uso delle fonti», in E. Prinzivalli (cur.), L’enigma Gesù. Fonti e metodi della ricerca storica, Carocci, Roma 2008, p. 67). Sono certo che stasera ci sarà offerto un percorso esemplare in questa direzione.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della relazione tenuta a Brescia il 9.5.2012 su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.